Lo spirito e il rito: due aspetti inscindibili dell’unico atto liturgico

 

 

Introducendo questo studio si è ben definito il significato del termine ‘liturgia’ a cui in tutta la trattazione si è inteso far riferimento. E in particolare si é affermato che per ‘liturgia’ si doveva intendere quell’ adorazione lieta e quell’ obbediente sottomissione che la creatura deve al Creatore, atteggiamento così profondo da essere previo ad ogni specificazione rituale storica propria delle varie espressioni religiose. Tuttavia questo sguardo che coglie la natura religiosa profonda dell’essere umano in quanto tale, non deve avvallare una impostazione spiritualistica del problema, divaricando dalla ritualità concreta che si esprime nelle forme storiche e che è connaturale ad ogni manifestazione dello spirito religioso dei popoli e delle culture. Tale prospettiva potrebbe sostenere e giustificare uno spiritualismo irreale, senza l’ancoraggio al rito che lo traduce e lo esprime in forma corporea. Per questa via si arriverebbe a giustificare una vita religiosa senza pratica rituale.

Così il cristiano non praticante - ossia senza preghiera formale e assunzione fisica dei sacramenti - potrebbe ritenersi addirittura migliore del cristiano praticante, in quanto più ‘maturo’, più ‘libero’ e in fin dei conti più ‘autentico’. Sarebbe riproporre oggi l’errore della gnosi, con il suo dogma dello spiritualismo puro dei ‘mistici’ o degli ‘intellettuali’, relegando la pratica liturgico-sacramentale a fedeli ‘zotici’ e ai ‘non iniziati’. Una certa insistenza su un cristianesimo non rituale e l’allontanamento da una pastorale, che ha cura del rito e si qualifica nella liturgia, rivela una impostazione mentale di questo tipo.

Anche un certo genere di linguaggio, alquanto diffuso, che fa ricorso a termini, quali ‘rubricismo’ ‘formalismo’ ‘trionfalismo’ e si oppongono ad altri quali ‘spontaneità’, ‘familiarità’, ‘amicizia’, ecc.; linguaggio che si traduce in scelte concrete, quali ‘l’allergia alla solennità’ contrapposta al ‘cameratismo’; il fascino della soggettività e il sospetto sull’oggettività; la ricerca  di vocaboli  correnti e il silenzio su termini teologici tradizionali nella catechesi e nell’omelia; creano disagio in ordine alla ‘forma’ liturgica e aprono il varco ad una religiosità vaporosa, svuotata di fatto del suo contenuto misterico. La fede così diventa la semplice manifestazione del sentimento religioso, che si esprime nel ventaglio fluttuante delle opinioni momentanee.

Occorre allora dichiarare con fermezza l’indissolubilità del rapporto spirito e rito. Non si dà alcuna esperienza vera di religione senza la sua veste rituale: non vi é adorazione senza prostrazione, né lode senza acclamazione, né contemplazione senza riverenza, né obbedienza senza osservanza, ecc. In altri termini non vi è liturgia, senza rito.

Il fatto lo si comprende bene alla luce della stessa struttura naturale dell’essere umano, che è spirito incarnato. L’anima e il corpo, sono distinguibili solo sul piano logico del pensiero, ma sono inestricabili nell’esistenza concreta della persona umana, che è in se stessa spirito nella carne, in tal modo che l’anima è la forma permanente del corpo. Nell’istante in cui l’uomo è generato è pure ‘animato’, non sussistendo nella realtà altro che l’uomo nella sua identità al contempo spirituale e corporea.

Così la Liturgia, come atto interiore e spirituale, esiste solo in forme rituali specifiche e definite, offerte dalla tradizione religiosa, anche se esposte continuamente ad uno sviluppo organico e coerente che tuttavia contiene sempre in sé l’interiore moto spirituale proprio dell’anima spirituale. Per questo non è possibile disgiungere nel culto dell’Antico Testamento lo ‘spirito’ dalla sua concreta legislazione e pratica rituale, pure comandata da Dio; né separare nel Nuovo Testamento il culto interiore suscitato dallo Spirito Santo dalla forma sacramentale che il Signore stesso ha stabilito e la Chiesa custodisce con tradizione ininterrotta.

Quindi ‘forma’ e ‘materia’, ‘grazia’ e ‘sacramento’, spirito e corpo, pensiero e parola,  adorazione e azione, sono realtà intrinsecamente connesse, interdipendenti, non dissociabili, mai estranee. Affermare il contrario sarebbe intellettualismo irreale, che non ha alcuna corrispondenza nella realtà fattuale. Anzi le categorie stesse del pensiero sono geneticamente costruite su immagini assunte dall’esperienza visibile e dalle forme corporee degli esseri che ci circondano, tanto è intrinseca la dimensione ‘carnale’ del nostro essere uomini.

Si comprende in tal modo che la costituzione liturgica nell’uomo non si riduce al moto invisibile e interiore dell’adorazione e dello stupore suscitati dal senso del divino, ma si esterna necessariamente in atteggiamenti corporei che tale interiore elevazione produce e interpreta. Da ciò è chiaro che la Liturgia deve essere necessariamente celebrata. Essa deve avere un posto fisico dentro il tempo e lo spazio del creato. Essa deve essere visibile nelle nostre città e deve prender carne in ogni aspetto della vita individuale e sociale degli uomini. Solo così sarà Liturgia, secondo l’etimologia stessa del termine greco: opera pubblica, nota, visibile, operativa e trasformante. La scelta del cristiano non praticante, senza Chiesa e sacramenti, e la prospettiva dell’uomo, che si ritiene riscattato dalla forma sacra delle manifestazioni religiose, non ha alcun fondamento nella struttura naturale dell’uomo e della società.

Si intende che un discorso parallelo deve essere fatto anche sulla necessità dello ‘spirito’ nel rito, per non arrivare al deprecato formalismo farisaico, tentazione mai sopita. E’ evidente che delegare alla materialità del rito un’adorazione assente dall’anima è assurdo quanto pretendere di adorare senza il supporto del rito, quale mezzo necessario, nell’economia sacramentale, per ricevere prima e per esprimere poi la compiutezza umana della Liturgia.

 

(da E. Finotti “La centralità della liturgia nella storia della salvezza”, Edizioni Fede e Cultura 2009, pag. 88-91) 

 

di di d. Enrico Finotti