La qualità della relazione

«In piena libertà, nella gioia, con autentica partecipazione», è lo stile con cui il «popolo santo di Dio» ha fatto sentire la sua voce nella prima fase del cammino di ascolto sinodale. Lo ha rilevato il vescovo Ruzza nell’Assemblea generale del 27 ottobre a Ladispoli nella parrocchia di Santa Maria del Rosario.

Un momento liturgico pensato per restituire le parole della gente ascoltata. Assemblee Effatà di inizio anno, incontro vicariali, piattaforma on line, mondi ascoltati attraverso le pastorali, momenti informali. Molteplici i luoghi e le occasioni di incontro da cui sono emerse alcune parole chiave relazione, corresponsabilità, missione, narrazione del Vangelo.

Durante la celebrazione il pastore ha ammesso al diaconato Giuseppe Covino, Enrico D'Alessio e Angelo Pappalardo, i candidati al primo sacramento dell'ordine hanno detto il loro sì assieme al consenso delle loro mogli.

Ecco il testo letto dal vescovo:

 

 

L’annuncio vive della qualità della relazione

 

Con questa assemblea generale si conclude un percorso molto intenso. Abbiamo, infatti, vissuto un confronto in cinque assemblee zonali nelle vicarie, facendo sintesi dell’ascolto sinodale del trascorso anno pastorale e avendo elaborato tracce di riflessione che hanno illustrato quanto il popolo santo di Dio di questa nostra Diocesi di Porto-Santa Rufina ha espresso in piena libertà, nella gioia, con autentica partecipazione. Intendo anzitutto fare memoria del bellissimo ed intenso tempo di ascolto vissuto nell’anno passato, in cui abbiamo percepito un clima straordinario: il clima della libertà di parlare, sostenuto ed accresciuto dallo stile della conversazione spirituale. Si è trattato di un privilegio cui non dobbiamo rinunciare… Sta a tutti noi, infatti, valorizzare il desiderio di partecipazione e di corresponsabilità che è emerso nei vari incontri che abbiamo avuto. Si tratta di un’esperienza preziosa: dobbiamo esserne grati, possiamo onorarla, proseguendo il nostro impegno appassionato.

L’evento “cammino sinodale” nell’anno pastorale 2021-2022 ha coinvolto molti fedeli della nostra Chiesa, sia attraverso le assemblee Effatà, sia grazie al servizio della piattaforma on-line appositamente realizzata dal nostro Ufficio per le Comunicazioni sociali in collaborazione con la Facoltà Auxilium. Alla ripresa delle attività nei giorni scorsi, la partecipazione – leggermente minore in proporzione – è apparsa più faticosa e considero che ciò sia fisiologico, perché siamo all’inizio delle attività pastorali e, come sempre, è necessario un tempo di rodaggio iniziale. Più avanti spiego il percorso previsto per questo anno pastorale 2022-2023 e sono convinto che avremo una partecipazione significativa nei vari ambiti in cui ci muoveremo. D’altra parte, penso si debba riconoscere che siamo in presenza di una situazione pastorale nuova e che ci viene offerta una metodologia inusitata: la novità – particolarmente forte per alcune nostre realtà ecclesiali – chiede di essere assimilata progressivamente.

Camminare insieme trasmette immediatamente due caratteristiche fondamentali, tenendole unite. La prima è il dinamismo del movimento, di un processo che punta a un cambiamento. Chi vuole che tutto rimanga com’è, non si mette in cammino. La seconda è espressa dalla parola “insieme”: il processo sinodale si pone nella linea della costruzione di un “noi”. Anzi, per molti versi è la traduzione ecclesiale di quelli che papa Francesco, rivolgendosi anche a chi non fa parte della Chiesa, chiama «processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze» (Fratelli tutti, n. 217). Un mondo frammentato come il nostro ha disperato bisogno di vedere che sono davvero possibili processi di reale incontro tra le differenze, senza che nessuna sia negata o schiacciata. Per questo una Chiesa sinodale è immediatamente anche un segno profetico «dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, n. 1).

(Giacomo COSTA, Fare Sinodo: il coraggio della fecondità, in Aggiornamenti Sociali, ottobre 2021)

 

CI STO!

Abbiamo chiesto ai fedeli se siano disposti a “metterci la faccia ed il cuore”. In che senso? La domanda è inerente al desiderio di partecipazione emerso nell’anno passato e consolidatosi in tanti incontri in cui è apparso come un cammino di corresponsabilità.  Dobbiamo ammettere che se collaborare è una cosa, sentirsi corresponsabili assume un significato diverso! Molti lo hanno sottolineato, anche dinanzi alla prospettiva (sempre più realistica) che il mondo laicale abbia un ruolo sempre più importante nella vita delle comunità ecclesiali. Ed è proprio qui che è necessario operare il passaggio da fedeli collaboratori a fedeli corresponsabili della comunità: insieme ai Pastori, accanto ai Pastori, sostenuti dai Pastori.

È giunto il momento in cui si viva un’autentica CORRESPONSABILITÀ per aiutare le comunità a servire gioiosamente e attivamente il popolo di Dio, entrando in una dimensione missionaria. Alcuni parlano di timore: ce la faremo? Gli impegni ci consentiranno di metterci veramente al servizio?

Ascoltando realmente e sinceramente i bisogni e le domande della nostra gente, ci renderemo conto di quanto la necessità di mettersi al servizio e di “metterci la faccia” sia profonda.

Si chiede che la Chiesa “favorisca la conoscenza e la fraternità tra i membri della parrocchia coltivando uno spirito di umiltà, rispetto reciproco e collaborazione” e “una maggiore collaborazione tra i diversi gruppi parrocchiali che spesso operano ognuno per proprio conto, non si conoscono e non collaborano”. Una Chiesa in cui “si respiri un clima diocesano, si superino gli individualismi per confrontarsi e attingere nuove energie nella visione più ampia e aperta della chiesa universale”. “È bello trovarsi insieme come fratelli... vedere anche i sacerdoti fratelli tra loro e non concentrati a "coltivare il proprio orticello". “Molte parrocchie sembrano ostaggio di laici dominanti e parroci inerti. Inserirsi in comunità di questo tipo è assai difficile”. (Sintesi del cammino del primo anno)

 

Non possiamo nascondere, infatti, che talora i gruppi presenti nelle nostre comunità appaiono “scatole chiuse” in cui risulta difficile entrare con spirito di collaborazione e di partecipazione attiva: qualche voce in tal senso fa suonare un campanello di allarme che risulta essere uno stimolo creativo per superare la visione del proprio “orticello”, considerando che è una sorta di sindrome frequente nelle realtà delle parrocchie…

I laici che intendono offrire la propria collaborazione dovrebbero sentirsi “servi” e non protagonisti. Perché è con lo spirito del servizio che possiamo manifestare il nostro amore per il Vangelo e per la Chiesa.

Una Chiesa che sappia “uscire e stare a contatto con la gente”, “con più spirito di fraternità, in uscita verso la gente, per affiancarla nelle sue sofferenze e condividere la vita come facevano Gesù e le prime comunità Cristiane”, una Chiesa in grado di “dedicare più attenzione alle persone che non frequentano che a quelle che frequentano”. Una comunità in cui “Non deve mancare l’apertura, l’accoglienza e lo Spirito che fa scendere in strada come fa Papa Francesco per incontrare ed ascoltare le persone.” (Sintesi del cammino del primo anno)

 

Siamo all’inizio di un percorso lungo e non dobbiamo avere timori o incertezze. Il tempo che ci attende chiede scelte concrete (che determineremo - insieme alle altre Chiese che vivono in Italia - negli anni futuri). Sarà opportuno ragionare sulle scelte organizzative che viviamo a livello ecclesiale per entrare nella domanda: “quanto attualmente facciamo risponde ancora ai bisogni attuali?”. Ritengo sia necessario il cambio della prospettiva: pensare non più una Chiesa che eroga servizi, ma una casa ed una comunità in cui ciascuno assume una responsabilità!

Accogliamo la disponibilità di molti a porsi in stato di servizio. È stato detto in uno dei tavoli:

Dobbiamo dare la disponibilità a conoscersi e a riconoscersi (dai Tavoli delle assemblee di ottobre)

 

LA BELLEZZA DEL KERYGMA

C’è l’urgenza di tornare ad annunciare con gioia e con vigore la forza dirompente dell’Amore di Dio rivelato in Cristo Gesù, proprio nel mistero della morte e resurrezione. È evidente a tutti come oggi più che mai non sia possibile dare per scontati gli elementi fondamentali della fede. Anzi, nell’attuale contesto storico è necessario coltivare l’arte di “narrare” la storia della salvezza, annunciare la potenza salvifica dell’opera redentrice. Qualcuno osserva che facendo un sondaggio empirico fuori della propria chiesa sulla centralità della Resurrezione di Gesù, alla domanda sulla propria fede nella Resurrezione, molte risposte siano risultate equivoche o quanto meno incerte. Un altro campanello di allarme che suona per le nostre comunità!

Al tempo stesso c’è un comprensibile timore di essere coinvolti nell’annuncio verso il mondo. Oggi le nostre terre sono diventate luoghi per la missio ad gentes, considerando il tasso di desertificazione spirituale in cui versano moltissimi dei loro abitanti, per tornare ad un’espressione di Papa Benedetto XVI che descriveva l’analfabetismo spirituale del nostro tempo. Qualcuno deve annunciare la gioia di Dio!

1 Nell'anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. 2Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. 3Proclamavano l'uno all'altro, dicendo:
"Santo, santo, santo il Signore degli eserciti!
Tutta la terra è piena della sua gloria".
4Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. 5E dissi:
"Ohimè! Io sono perduto,
perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo
dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto
il re, il Signore degli eserciti".
6Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall'altare. 7Egli mi toccò la bocca e disse:
"Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
perciò è scomparsa la tua colpa
e il tuo peccato è espiato".
8Poi io udii la voce del Signore che diceva: "Chi manderò e chi andrà per noi?". E io risposi: "Eccomi, manda me!". (Is 6, 1-8)

Sappiamo che in molte delle nostre comunità c’è una grande ricchezza: le proposte formative, i cammini di fede, la potenza della liturgia, l’animazione della carità, le attività oratoriane. Non partiamo da zero, anzi dobbiamo ripartire dal tanto e dal bello che esiste. Senza nascondersi che il tempo presente – tempo delle sfide – ci chiede un aggiornamento costante, un’attenzione fedele soprattutto per quanto riguarda i linguaggi e gli stili comunicativi.

La questione ermeneutica (il tema dei linguaggi da ripensare e da rinnovare) è centrale per la capacità di essere presenti nel mondo ed annunciare efficacemente la potenza del Vangelo. Non possiamo negare, infatti, che la maggiore difficoltà che incontriamo oggi è proprio inerente alla capacità di parlare le lingue degli uomini e delle donne del nostro tempo (in particolare quelle del mondo giovanile) e di interpretare il loro vissuto. Se da un lato è vero che dobbiamo essere solidi nella nostra identità credente, dall’altro l’esigenza di cercare le mediazioni culturali e il desiderio di intercettare il cuore dei nostri fratelli sottolineano come da sempre nell’esperienza cristiana l’incarnazione del Vangelo richieda un processo di inculturazione. Potremmo parlare di una “maieutica della fede”: in moltissimi dei nostri fratelli la fede cristiana non è solo memoria, è anche identità disconosciuta. Perché non cogliere l’occasione di metterci al loro servizio, nel dialogo e nella prossimità, per aiutarli a ritrovare il filo perduto della loro vita, il leit-motiv del loro percorso esistenziale?

Siamo qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata messa a servizio della carità! Penso allo Spedale degli Innocenti, ad esempio. Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà. Perché la Chiesa madre ha in Italia metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati. E questo da sempre è una delle vostre virtù, perché ben sapete che il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti. Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227). (Discorso di Papa Francesco ai partecipanti al V Convegno ecclesiale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015)

È stato detto con spirito profetico:

È compito dei laici accogliere chi è più lontano, migliorare la conoscenza fra loro per costruire una comunità più solida. (dai Tavoli delle assemblee di ottobre)

 

LA QUALITÀ DELLE RELAZIONI

Sappiamo che il fulcro del percorso sinodale è stato individuato nella costruzione appassionata di nuove relazioni. Abbiamo, infatti, compreso come il nodo delle difficoltà incontrate oggi dalla comunità cristiana nel suo servizio di annuncio della Verità stia proprio nelle relazioni personali: relazioni tra presbiteri e laici, tra i gruppi esistenti nelle comunità, tra la parrocchia e le realtà esterne. Ed anche nella relazione tra le persone ed il Vescovo: ovviamente mi rendo disponibile per approfondire l’argomento anche per quanto mi riguarda direttamente, manifestando piena disponibilità ad incrementare le possibilità di incontro e per facilitare i contatti.

La “chiave” di tutto l’agire pastorale nel suo rinnovamento (sempre più necessario) è proprio nella RELAZIONE, ad immagine della “relazione per eccellenza” che è quella nel cuore della vita trinitaria, il dinamismo delle processioni trinitarie. La proposta cristiana è sempre stata offerta nel dialogo personale e sempre si è alimentata della forza delle relazioni personali, da quando il Verbo di è diffuso per le strade del mondo.

A questo riguardo condivido un passaggio molto forte di un testo del gesuita P. Giacomo Costa che parla del “metodo Martini”:

Il primo passo, di cui Martini è indubbiamente un esperto, è l’ascolto della realtà, nel rispetto di tutte le sue sfaccettature, accettando anche il disagio di sostare negli interrogativi senza ricorrere sbrigativamente a risposte preconfezionate. L’ascolto della realtà permette di raccogliere dati e informazioni, ma la sua valenza va al di là di questo aspetto funzionale. L’ascolto è innanzi tutto espressione di un atteggiamento di fondo nei confronti del mondo. Tre aggettivi ci aiutano a metterne a fuoco le caratteristiche. Quello che Martini pratica e propone è anzitutto un ascolto contemplativo. Occorre comprendere bene il senso che il Cardinale dà a questo termine, che scelse come perno della prima lettera pastorale rivolta alla diocesi di Milano, intitolata La dimensione contemplativa della vita. La contemplazione non va qui intesa come pratica spirituale cristiana, ma in un senso più profondo, di radicale apertura nei confronti della realtà e di disponibilità a lasciarsi toccare nel proprio intimo, prestando attenzione alle risonanze interiori che essa suscita. È dunque un ascolto che richiede di accettare una passività originaria e al tempo stesso di mettere in gioco tutta la propria affettività, una componente molto forte della personalità di Martini, pur celata da una apparente ieraticità. Inteso in questo senso, un ascolto contemplativo non può che essere empatico, cioè sgombro di pregiudizi e teso a cogliere e poi restituire agli interlocutori quanto possa stimolare ulteriori passi, non a porre ostacoli al prosieguo del cammino. Per questo si tratta anche di un ascolto capace di discernimento, cioè in grado di selezionare ciò che merita di essere approfondito perché potenzialmente costruttivo. (Giacomo COSTA, Alle radici spirituali dell’impegno sociale. L’eredità di Carlo Maria Martini, in Aggiornamenti Sociali, agosto-settembre 2022)

 

Sottolineo quanto sia importante e determinante “curare” le relazioni. Talora il rapporto delle persone con la Chiesa può sembrare burocratico, funzionale, occasionale. Proprio dal combattere questa dimensione estremamente riduttiva della nostra vita inizia il percorso di rinascita del senso di comunità. È da qui che iniziamo a risalire la china: abbiamo bisogno di relazioni feconde e generose. Che siano anche generative di nuovi rapporti e di fiducia rinnovata. La Chiesa – ricordiamolo sempre –ha la metà della medaglia della vita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, per tornare a quella felice espressione di Papa Francesco, colta nel discorso di Firenze (vedi sopra).

So anche che i Pastori possono e debbono lavorare molto su questo. Talora giungono al Vescovo delle osservazioni su alcune manifestazioni di “durezza” da parte dei sacerdoti. Debbo dire che – nella stragrande maggioranza dei casi – tra le risposte inviate per l’ascolto dell’anno passato sono giunti moltissimi segnali di stima e di apprezzamento per l’infaticabile lavoro dei sacerdoti. Ogni situazione può ammettere qualche eccezione ed io, per verità, ho il dovere di sottolinearlo. Tuttavia, atteso il fatto che sono convinto che i presbiteri della nostra Chiesa svolgano con impegno il proprio ministero, immersi nella vita del popolo loro affidato, riconosco che molto c’è da fare nella “passione” per la relazione. Immagino sacerdoti e operatori pastorali che decidano di creare percorsi nuovi per avvicinare le persone, che scelgano di stare in piazza o nei luoghi di aggregazione della gente per “agganciare” le vite e le storie, che siano aperti a sollecitazioni (anche originali) pur di aprire le porte della propria comunità a fratelli/sorelle nuovi/e che desiderano entrare in contatto con la speranza della vita cristiana.

Il compito di ritessere i fili delle relazioni tra società civile e comunità cristiana è prioritario rispetto ad ogni possibile iniziativa pastorale. Dovremmo convergere verso quella direzione, per ritrovare il popolo con cui non siamo più in contatto (certamente, non tutto il popolo…) e riappropriarci del gusto dell’incontro e dell’amicizia.

L ’IDENTITÀ DI UNA CHIESA LOCALE

Siamo dinanzi ad un tema molto forte nella nostra Diocesi suburbicaria. Abbiamo, infatti, una storia millenaria e gloriosa, che trae le sue origini in epoca apostolica. Da allora, però, e – più concretamente – dai secoli scorsi lo scenario è totalmente mutato. Come emerge dai vari studi lodevolmente compiuti negli anni trascorsi, le trasformazioni della realtà diocesana, soprattutto durante il servizio pastorale del Card. Eugène Tisserant, hanno richiesto continui adeguamenti strutturali e pastorali per offrire il servizio apostolico alle popolazioni dell’agro portuense e della costiera romana. Con il passare degli anni i territori si sono progressivamente modificati: l’accrescimento esponenziale di popolazione come nei suburbi della capitale, la riduzione di abitanti come nelle campagne dell’entroterra e le migrazioni iniziate nel secolo scorso (tuttora in essere) hanno richiesto e richiedono tuttora sforzi ingenti per l’opera di evangelizzazione. È evidente come tutto questo abbia reso più difficile far maturare un’identità diocesana. Pensiamo ai quartieri romani così diversi dalle realtà rurali o dalle cittadine balneari. Eppure, la Diocesi unitaria (nonostante il chiacchiericcio) rappresenta un filo di unità e di comunione che dobbiamo valorizzare. Qual è, allora, la strada per ritrovare un’identità chiara e unitaria?

I cammini sinodali, universale e italiano, sono l’occasione propizia per affrontare questa difficoltà, ben sapendo che per la Chiesa la sinodalità implica la questione dell’identità. Ci mettono in questa prospettiva le tre parole scelte come sottotitolo del Sinodo 2021-2023: la Chiesa è comunione, che è espressa e al tempo stesso coltivata attraverso la partecipazione di tutti, ma non può rimanere rivolta all’interno, essendo a servizio alla missione. (Giacomo COSTA, Fare Sinodo: il coraggio della fecondità, in Aggiornamenti Sociali, ottobre 2021)

Valorizziamo la storia di questa bella porzione del popolo di Dio: facendo memoria (a cominciare dai nostri santi patroni Seconda, Rufina ed Ippolito); conoscendo ed amando i luoghi d’arte ed i tesori preziosi del patrimonio culturale del territorio (a cominciare dai santuari mariani di S. Maria in Celsano e di Ceri); riconoscendo l’opera infaticabile di quanti si sono adoperati per l’evangelizzazione del territorio (pensiamo alle tante Missioni popolari svolte nelle nostre campagne dalle varie Congregazioni religiose); tenendo nel cuore il cammino di coscienza diocesana iniziato dal Card. Tisserant ed implementato dagli Ordinari che gli sono succeduti.

Al tempo stesso cerchiamo di costruire in modo sempre più capillare la rete di relazioni personali (a cominciare dal presbiterio) che è il tessuto fondamentale su cui imperniare lo spirito di COMUNIONE che ci viene chiesto dal cammino solidale. In quest’ottica recuperiamo il desiderio di CORRESPONSABILITÀ di tanti fedeli laici e diamo spazio ai carismi religiosi, di cui la Diocesi è fiorente.

In tal modo ci diremo: CHI SIAMO? Occorre, però, anche chiederci: PER CHI SIAMO? E qui il senso di una comunità policentrica (ma vivente nella comunione ecclesiale, con un Pastore che la conduce servendola) è forte: siamo costituiti come Chiesa locale per annunciare in questo territorio così variegato e ricco di umanità la bellezza del Vangelo, una bellezza sempre giovane e capace di parlare efficacemente all’uomo di ogni contesto e in ogni stagione della storia… dal vescovo Ippolito e dalle giovani Seconda e Rufina ad oggi senza interruzione, ma in vera e felice continuità. Ancora una volta viene chiesto con forza nei vari incontri sinodali: usciamo dal nostro orticello e percorriamo le strade del mondo per parlare di Gesù!

Inoltre: PERCHÉ SIAMO? Per essere il lievito che fa fermentare la pasta. Ricordiamo quanto detto circa la “maieutica della fede”: centinaia di migliaia di persone affollano contrade e borghi, città e quartieri della nostra Diocesi; riempiono spiagge e centri di divertimento; operano in luoghi di lavoro (nei campi, nei siti industriali, nel terziario, nelle comunicazioni internazionali come la stazione aeroportuale di Fiumicino) e portano in sé il germe della domanda sulla vita, sul senso, sulla dimensione interiore. A loro offriamo il sorriso della Chiesa “morbida ed accogliente” che ci viene presentata come la Chiesa desiderata dal nostro popolo:

Una Chiesa che, attraverso una profonda conoscenza del suo territorio, dei suoi punti di forza ma anche delle fragilità che lo abitano e dei problemi sociali che lo attraversano, sia attenta ad essi e vi dia risposte concrete, che passano attraverso l’ascolto delle persone che vivono condizioni di difficoltà e la tessitura di relazioni comunitarie. Una Chiesa che si sappia porre in ascolto anche delle richieste silenziose e si immerga nel grido delle tante assenze. Che sappia uscire dalle proprie mura, dalla comfort zone, per incontrare chi non partecipa alla vita parrocchiale. Quest’ultima messa fortemente in discussione nelle sue prassi ordinarie e consolidate durante la pandemia. (Lettura dei risultati del cammino del primo anno)

 

Un ruolo speciale viene attribuito al compito dei nonni: trasmettono sapienza, valore morale, tradizione, affettività ai loro figli e nipoti. Un ruolo insostituibile soprattutto in ordine alla trasmissione della fede e al recupero della memoria.

Si tratta, pertanto, di valorizzare la ricchezza della diversità nell’armonia della comunione. Non annullando le differenze, ma scoprendole e comprendendole. Non è pensabile imporre criteri unitari di azione, ma sarà interessante confrontarsi per arricchirci vicendevolmente e scoprire insieme – in modo sinodale – le vie da percorrere. Così potremo avere un’identità diocesana poliedrica e variegata, nell’unità del valore comunionale che caratterizza l’esperienza ecclesiale.

Evidenziamo come praticare la sinodalità sia il modo per dare attuazione alla ecclesiologia del Vaticano II, a partire dalla sottolineatura di ciò che tutti i cristiani hanno in comune, cioè il battesimo e la uguale dignità che ne deriva: «Se anche per volontà di Cristo alcuni sono costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori a vantaggio degli altri, fra tutti però vige vera uguaglianza quanto alla dignità e all’azione nell’edificare il corpo di Cristo, che è comune a tutti i Fedeli» (Lumen gentium, n. 32). Così come comune è la responsabilità di portare a termine la missione di evangelizzazione, pur con modalità differenziate a seconda della vocazione di ciascuno. La ricchezza e la profondità di questa comunione radicata nella dignità battesimale diventa garanzia dell’autenticità della fede: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo, (cfr 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale» (Lumen gentium, n. 12). In una Chiesa sinodale, anche la fede è camminare insieme!  (Giacomo COSTA, Fare Sinodo: il coraggio della fecondità, in Aggiornamenti Sociali, ottobre 2021)

 

LEGGERE LA STORIA

L’ascolto sinodale ci ha mostrato quanto gli eventi degli ultimi anni abbiano segnato profondamente la vita dell’intera comunità. Persino le realtà ecclesiali, tradizionale baluardo di valori secolari, si sono ritrovate in situazione di difficoltà. La rilettura degli eventi planetari che caratterizza l’inizio del terzo millennio ci aiuta a comprendere le mutazioni innegabili che condizionano anche la vita delle parrocchie e dei circuiti formativi del nostro ambiente ecclesiale. Ad iniziare dalla minaccia terroristica aperta dall’attentato dell’11 settembre 2001, per giungere al conflitto in terra ucraina. Passando per la grande crisi finanziaria del 2008 e soprattutto per la pandemia del covid 19 che ha stravolto le modalità relazionali della vita quotidiana. Le conseguenze, in particolare della pandemia e della guerra europea in Ucraina, accresciute dall’emergenza energetica (che può stravolgere il necessario impegno per la custodia del creato) sono visibili per ogni parroco e per tutti gli operatori pastorali. Parlo di crisi psicologica di adulti e di giovani (anche fanciulli) e ne porteremo le conseguenze per decenni. Mi riferisco alla fatica ad aggregare e a ritrovare le ragioni umane della convocazione ecclesiale (il calo della frequenza alla vita sacramentale domenicale nasce dal tempo del lock down, anche se ha radici nella tendenza individualistica). Penso alla difficoltà a stimolare un pensiero critico derivata dalla dipendenza da social network e all’influsso che esercita in particolare sui più piccoli, impedendo loro una normale relazionalità affettiva capace di considerare l’alterità fisica come valore. Giunge il momento di una responsabilità educativa, culturale e politica: imparare ad abitare il continente digitale, poiché siamo di fatto nell’era del digitocene.

Non posso nascondere la crisi valoriale e morale che attraversiamo, al centro della quale regna il relativismo incontrollabile, già denunciato da Papa Benedetto XVI, tanto da constatare come non ci siano più riferimenti morali certi e chiari cui richiamare la crescita degli adolescenti (la logica del tutto è lecito, dove tutto è oggetto di diritti intoccabili, mentre il valore della vita nascente e morente è ridotto a fattore funzionale).

Appare evidente come l’istituzione familiare sia in affanno e come ciò non riguardi solamente l’aspetto della famiglia costituita nel sacramento nuziale. La frantumazione dei rapporti intrafamiliari aggrava la crisi esistenziale dei figli (giovani o fanciulli) e crea instabilità emotiva e comportamentale. Anche da qui trae origine la difficoltà ad incontrare i giovani nelle nostre comunità.

Lo scenario sociale e culturale deve essere motivo di lettura attenta da parte della comunità ecclesiale: non risolveremo tutti i problemi presenti, ma potremo individuare i percorsi ed i metodi più adatti per rispondere alle sfide immense che abbiamo dinanzi. Soprattutto saremo in grad

o di realizzare quella PROSSIMITÀ che viene richiesta in molteplici occasioni e che appare come un elemento distintivo della Chiesa del nostro tempo.

                                                                                                                               

LAVORIAMO… SIAMO IN MEZZO A DEI CANTIERI…

Il prosieguo del cammino di ascolto sinodale avverrà attraverso quattro cantieri che saranno luoghi di incontro e di confronto, attraverso modalità che ci verranno indicate prima dell’Avvento.

Vi offro la panoramica di questi cantieri.

Il cantiere della strada e del villaggio

“Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio”. Gesù non evita i villaggi, ma insieme al gruppo dei discepoli e delle discepole li attraversa, incontrando persone di ogni condizione. Sulle strade e nei villaggi il Signore ha predicato, guarito, consolato; ha incontrato gente di tutti i tipi – come se tutto il “mondo” fosse lì presente – e non si è mai sottratto all’ascolto, al dialogo e alla prossimità. Si apre per noi il cantiere della strada e del villaggio, dove preste­remo ascolto ai diversi “mondi” in cui i cristiani vivono e lavorano, cioè “camminano insieme” a tutti coloro che formano la società; in particolare occorrerà curare l’ascolto di quegli ambiti che spesso restano in silenzio o inascoltati: innanzitutto il vasto mondo delle povertà: indigen­za, disagio, abbandono, fragilità, disabilità, forme di emarginazione, sfruttamento, esclusione o discriminazione (nella società come nella comunità cristiana), e poi gli ambienti della cultu­ra (scuola, università e ricerca), delle religioni e delle fedi, delle arti e dello sport, dell’econo­mia e finanza, del lavoro, dell’imprenditoria e delle professioni, dell’impegno politico e socia­le, delle istituzioni civili e militari, del volontariato e del Terzo settore.

Sono spazi in cui la Chiesa vive e opera, attraverso l’azione personale e organizzata di tanti cristiani, e la fase narrativa non sarebbe completa se non ascoltasse anche la loro voce. Papa Francesco insiste sulla necessità di porsi in ascolto profondo, vero e paziente di tutti coloro che desiderano dire qualcosa, in qualsiasi modo, alla Chiesa (cf. Omelia per l’apertura del Sinodo, 10 ottobre 2021). Il Concilio Vaticano II, profezia dei tempi moderni e punto di riferimento per il Cammino, ha ricordato che la Chiesa non solo dà, ma anche riceve dal mondo (cf. GS 44-45). (dal Vademecum offerto dalla Conferenza Episcopale italiana in preparazione al secondo anno del cammino sinodale)

In questo cantiere (che vivremo a livello diocesano, con incontri organizzati dalla Commissione Sinodale) recuperiamo il desiderio/bisogno di dare TESTIMONIANZA e la necessità di investire sulle RELAZIONI, entrando in contatto con quelle realtà esterne alla comunità, i cosiddetti “mondi”, con alcune delle quali è già iniziato un dialogo.

Nella realizzazione di questo cantiere sinodale dovremo misurarci con la questione dei lin­guaggi, che in alcuni casi risultano difficili da decodificare per chi non li utilizza abitualmente: basta pensare ai codici comunicativi dei social e degli ambienti digitali abitati dai più giovani, o a quelli delle fratture prodotte dall’emarginazione. Occorrerà, dunque, uno sforzo per rimo­dulare i linguaggi ecclesiali, per apprenderne di nuovi, per frequentare canali meno usuali e anche per adattare creativamente il metodo della “conversazione spirituale”, che non potrà essere applicato dovunque allo stesso modo e dovrà essere adattato per andare incontro a chi non frequenta le comunità cristiane. In tal senso, sarà importante rafforzare e rendere stabile nel tempo l’ascolto dei giovani che il mondo della scuola e dell’università ha reso possibile, così da entrare in relazione con persone che altrimenti la Chiesa non incontrerebbe. Camminando per le strade e i villaggi della Palestina, Gesù riusciva ad ascoltare tutti: dai dottori della legge ai lebbrosi, dai farisei ai pescatori, dai giudei osservanti ai samaritani e agli stranieri. Dobbia­mo farci suoi discepoli anche in questo, con l’aiuto dello Spirito.

 

Il cantiere dell’ospitalità e della casa

Una donna, di nome Marta, lo ospitò” nella sua casa. Il cammino richiede ogni tanto una sosta, desidera una casa, reclama dei volti. Marta e Maria, amiche di Gesù, gli aprono la porta della loro dimora. Anche Gesù aveva bisogno di una famiglia per sentirsi amato. Le co­munità cristiane attraggono quando sono ospitali, quando si configurano come “case di Beta­nia”: nei primi secoli, e ancora oggi in tante parti del mondo dove i battezzati sono un “picco­lo gregge”, l’esperienza cristiana ha una forma domestica e la comunità vive una fraternità stretta, una maternità accogliente e una paternità che orienta. La dimensione domestica au­tentica non porta a chiudersi nel nido, a creare l’illusione di uno spazio protetto e inaccessibi­le in cui rifugiarsi. La casa che sogniamo ha finestre ampie attraverso cui guardare e grandi porte da cui uscire per trasmettere quanto sperimentato all’interno – attenzione, prossimità, cura dei più fragili, dialogo – e da cui far entrare il mondo con i suoi interrogativi e le sue speranze. Quella della casa va posta in relazione alle altre immagini di Chiesa: popolo, “ospe­dale da campo”, “minoranza creativa”, ecc.

Il cantiere dell’ospitalità e della casa dovrà approfondire l’effettiva qualità delle relazioni comunitarie e la tensione dinamica tra una ricca esperienza di fraternità e una spinta alla mis­sione che la conduce fuori. Si interrogherà poi sulle strutture, perché siano poste al servizio della missione e non assorbano energie per il solo auto-mantenimento, e dovrà verificarne sostenibilità e funzionalità. In un “cambiamento d’epoca” come il nostro, tale verifica dovrà includere l’impatto ambientale, cioè la partecipazione responsabile della comunità alla cura della casa comune (cf. Laudato si’). Questo cantiere si può aprire anche sugli orizzonti del decentramento pastorale, per una presenza diffusa sul territorio, oltre che sulle strutture amministrative come le “unità pastorali” e simili.

Nell’ambito del cantiere sinodale si potrà poi rispondere alla richiesta, formulata da molti, di un’analisi e un rilancio degli organismi di partecipazione (specialmente i Consigli pastorali e degli affari economici), perché siano luoghi di autentico discernimento comunitario, di rea­le corresponsabilità, e non solo di dibattito e organizzazione. (dal Vademecum offerto dalla Conferenza Episcopale italiana in preparazione al secondo anno del cammino sinodale)

Un cantiere, questo, che vivremo nelle singole comunità. In esso approfondiremo il tema della COMUNIONE e dell’IDENTITÀ. Sarà l’occasione per “testare” la temperatura RELAZIONALE delle nostre parrocchie. Non dobbiamo avere paura di confrontarci, anzi! Dobbiamo – invece – con serenità entrare in contatto con le gioie autentiche e con le ferite reali che sono lo sfondo della vita parrocchiale. Solo in un dialogo sereno potremo riavviare con entusiasmo lo stile fresco e “colorato” della Chiesa che si apre al mondo e testimonia la bellezza dell’incontro con Gesù, il Salvatore.

 

Il cantiere delle diaconie e della formazione spirituale

 

“Maria (…), seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era di­stolta per i molti servizi”. L’accoglienza delle due sorelle fa sentire a Gesù l’affetto, gli offre ristoro e ritempra il cuore e il corpo: il cuore con l’ascolto, il corpo con il servizio. Marta e Maria non sono due figure contrapposte, ma due dimensioni dell’accoglienza, innestate l’una nell’altra in una relazione di reciprocità, in modo che l’ascolto sia il cuore del servizio e il ser­vizio l’espressione dell’ascolto. Gesù non critica il fatto che Marta svolga dei servizi, ma che li porti avanti ansiosamente e affannosamente, perché non li ha innestati nell’ascolto. Un servi­zio che non parte dall’ascolto crea dispersione, preoccupazione e agitazione: è una rincorsa che rischia di lasciare sul terreno la gioia. Papa Francesco ricorda in proposito che, qualche volta, le comunità cristiane sono affette da “martalismo”. Quando invece il servizio si impernia sull’ascolto e prende le mosse dall’altro, allora gli concede tempo, ha il coraggio di sedersi per ricevere l’ospite e ascoltare la sua parola; è Maria per prima, cioè la dimensione dell’ascolto, ad accogliere Gesù, sia nei panni del Signore sia in quelli del viandante.

Il servizio necessita, dunque, di radicarsi nell’ascolto della parola del Maestro (“la parte migliore”, Lc 10,42): solo così si potranno intuire le vere attese, le speranze, i bisogni. Impara­re dall’ascolto degli altri è ciò che una Chiesa sinodale e discepolare è disposta a fare.

Si apre il cantiere delle diaconie e della formazione spirituale, che focalizza l’ambito dei servizi e ministeri ecclesiali, per vincere l’affanno e radicare meglio l’azione nell’ascolto della Parola di Dio e dei fratelli: è questo che può distinguere la diaconia cristiana dall’impegno professionale e umanitario. Spesso la pesantezza nel servire, nelle comunità e nelle loro guide, nasce dalla logica del “si è sempre fatto così” (cf. Evangelii gaudium 33), dall’affastellarsi di cose da fare, dalle burocrazie ecclesiastiche e civili incombenti, trascurando inevitabilmente la centralità dell’ascolto e delle relazioni.

Il Cammino sinodale può far emergere questa fatica in un contesto nel quale si fa esperien­za del suo antidoto: l’ascolto della Parola di Dio e l’ascolto reciproco, di cui molte sintesi hanno evidenziato una grande sete. Il primo obiettivo di questo cantiere sarà, allora, quello di riconnettere la diaconia con la sua radice spirituale, per vivere la “fraternità mistica, contem­plativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano” (Evangelii gaudium 92).

Si incroceranno, inoltre, le questioni legate alla formazione dei laici, dei ministri ordinati, di consacrate e consacrati; le ministerialità istituite, le altre vocazioni e i servizi ecclesiali inne­stati nella comune vocazione battesimale del popolo di Dio “sacerdotale, profetico e regale”. La centralità delle figure di Marta e Maria richiama poi esplicitamente il tema della correspon­sabilità femminile all’interno della comunità cristiana. (dal Vademecum offerto dalla Conferenza Episcopale italiana in preparazione al secondo anno del cammino sinodale)

In questo cantiere lavoreremo soprattutto a livello di vicarie. È lo spazio per il confronto con educatori e catechisti, avviato già da anni e orientato al coinvolgimento dell’intera comunità parrocchiale nel campo formativo (oltre che alla prospettiva della pastorale battesimale, così necessaria in questo tempo di “lontananza” dalla vita reale delle persone). Ma sarà anche lo spazio per pensare alla formazione in vista dei ministeri (finalmente possibili anche per le donne!) e per verificare se la logica del “si è sempre fatto così” sia superata così da poter finalmente dare spazio alla creatività per inventare percorsi nuovi, maggiormente rispondenti alle esigenze del tempo attuale, in cui il tentativo di esculturazione della fede cristiana sembra aggredire in modo massiccio il tradizionale tessuto della vita ecclesiale. Vorremmo che questo cantiere ci aiutasse a focalizzare l’attenzione prevalentemente sulla FORMAZIONE. E potremmo ipotizzare che il rimarcato bisogno di formazione si debba realizzare a livello interparrocchiale là dove le singole comunità non riescano ad offrire gli strumenti adeguati.

 

Il cantiere (diocesano) della cura verso i presbiteri

Oltre ai tre cantieri sopra presentati, ogni Chiesa locale ha la possibilità di individuarne un quarto, valorizzando una priorità risultante dal cammino del primo anno. Nella diocesi di Porto-Santa Rufina si è deciso di porre la riflessione sul tema del sacerdozio e sulla cura dei presbiteri.

 

È interessante e meritevole di riflessione come nelle narrazioni raccolte nelle assemblee sinodali e nei questionari emerga su questo tema [il sacerdozio] un panorama ampio e variegato di idee, richieste, desiderata. Specchio di esperienze positive vissute da rilanciare, ma forse anche di fatiche da non ripetere. Ai sacerdoti viene richiesta soprattutto coerenza di vita per essere testimoni credibili (per qualcuno fino ad arrivare ad essere esempio di santità). Si auspica un atteggiamento accogliente e la disponibilità all’ascolto. Capacità di mettersi in discussione e ripensare al proprio stile comunicativo, in particolar modo nelle omelie. Di essere inclusivi e non divisivi. Di farsi coinvolgere e avere un atteggiamento di reciprocità non scivolando nel “clericalismo”. Per far questo si suggerisce un miglioramento o ripensamento della preparazione dei presbiteri, affinché sia ancorata alla realtà, con un maggiore spazio dedicato alle scienze umane e sociali, riscoprendo il magistero sociale della Chiesa. (Lettura dei risultati del cammino del primo anno)

 

I PUNTI FERMI

Vorrei, in conclusione, dare elementi di speranza e di fiducia. L’espressione di San Paolo ci incoraggia:

1 Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d'animo. 2Al contrario, abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio. 3E se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si perdono: 4in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio. 5Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. 6E Dio, che disse: "Rifulga la luce dalle tenebre", rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo. 7Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. 8In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; 9perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, 10portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. 11Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. 12Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita.
13Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, 14convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. 15Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l'inno di ringraziamento, per la gloria di Dio. (2Cor 4, 1-15)

Partiamo dalla certezza della speranza alimentata dalla nostra fede: Gesù Cristo, Salvatore del mondo, ci ha liberati per sempre dal peccato e dalla morte e ci ha donato la vita eterna. Facciamo memoria della consapevolezza di non essere soli, perché il Signore della Vita sostiene il nostro cammino. I punti fermi sono e rimangono: la forza della Parola di Dio, che veneriamo e amiamo; la presenza reale del Signore nella Santa Eucarestia che ci nutre e ci rafforza; la forza dell’Amore verso gli ultimi che viviamo nell’ascolto e nell’attenzione verso i poveri; la certezza che la preghiera accompagna i passi della comunità cristiana ogni giorno.

Il cammino che iniziamo questa sera sia occasione per costruire la tela dell’amore evangelico in ogni comunità. È auspicabile che ciò abbia un segno concreto nella rivitalizzazione (o creazione) degli organismi di partecipazione nelle nostre parrocchie. Sarà un frutto maturo del cammino diocesano, poi, che nasca il Consiglio Pastorale Diocesano, luogo di discernimento e di elaborazione, che potrà indicare i passi del percorso futuro su cui ci incammineremo in spirito di comunione. 

 

A tutti buon cammino! Vi benedico con affetto

X don Gianrico, vescovo