Per la Giornata mondiale che si celebra oggi riportiamo l'editoriale «È questione di non fingere» di Rosanna Virgili pubblicato sul quotidiano Avvenire.
Tra le tante storie che, nella Bibbia, denunciano la violenza sulle donne ce n’è una che è tenuta sopita per la vergogna e l’orrore che narra ed è quella della moglie del levita di Efraim, nel terzultimo capitolo del libro dei Giudici. Proprio a essa ho pensato guardando, in questi giorni, un film su Lea Garofalo, giovane donna e madre uccisa, fatta a pezzi e bruciata dal suo compagno insieme ai suoi compari, tutti ’ndranghetisti. Il punto condiviso è, infatti, quel corpo fatto a pezzi che riguarda anche la 'concubina' del levita. Leggendo un testo tanto antico si resta gelati da un brivido d’impotenza, vedendo come la storia che porta sino a noi non sia stata affatto efficace: non abbiamo imparato la lezione. E pensare che quelle pagine arcaiche erano scritte allo scopo che quant’era accaduto non avvenisse mai più e non certo perché ci si giustificasse dicendo: e che c’è di male a fare a pezzi il corpo di una donna, visto che lo fece anche il levita di Efraim? Visto che: 's’è fatto sempre cosi'? Ed ecco una prima riflessione: hanno ragione quelli che dicono che la violenza sulle donne scaturisce da un piano culturalmente elaborato e non semplicemente da istinto, gelosia, passione, rabbia.
Tornando alla donna del levita troviamo conferma di ciò. La storia si sviluppa in più tappe: la prima è quella in cui egli va a riprendersi la moglie che era tornata a casa da suo padre perché non riusciva più a convivere con lui. Chissà quali motivi l’avevano indotta a tale passo, forse perché già suo marito si era mostrato possessivo e brutale.Ma quando – e legittimamente! – quegli la vuole riportare a casa trova come alleato il padre di lei che gliela riconsegna. Così non resta più nessuno a proteggerla ed ella ricade nelle mani del marito. Il quale agisce con egoismo sovrano, legittimato dalle consuetudini del tempo, per cui offre il corpo di sua moglie al posto del suo, agli abitanti di Gabaa quand’essi volevano aggredirlo, durante il suo viaggio di ritorno. Persino l’uomo che lo ospitava avrebbe ceduto la sua figlia vergine per essere da loro 'violentata' al posto del levita la cui persona era, invece, sacra e inviolabile. E fu, quindi, per il rifiuto dei Gabaoniti che: «Il levita afferrò sua moglie e la portò fuori da loro. Essi la violentarono fino all’alba» mentre il marito, dentro, dormiva tranquillo. E quando si alzò e uscì per rimettersi in marcia verso casa, vide sua moglie che giaceva sulla soglia e le disse: 'Alzati, dobbiamo partire'. Ma lei non rispose. Ed ecco la seconda riflessione che inizia con la domanda: di chi sono le responsabilità del massacro delle donne, delle madri, delle figlie, delle mogli? Dal racconto non sembra che si possano caricare su un uomo solo, ma su un complesso sistema politico, sociale, istituzionale, su atteggiamenti radicati culturalmente, su una civiltà in cui la donna deve portare il peso delle debolezze, delle immaturità e delle vigliaccherie, delle ambizioni, delle frustrazioni, della violenza che si accumula dentro le relazioni umane – private e pubbliche – in cui non c’è giustizia, amicizia, pari dignità, equilibrio di parola e di ascolto, di diritti e di doveri, fra gli uomini e le donne, fra i mariti e le mogli.
La vergogna di quant’era accaduto a Gàbaa, e a cui anch’egli aveva dato il suo fatale contributo, colpisce la coscienza del levita che trova il coraggio di un veritiero, ancorché mostruoso gesto: quello di prendere un coltello e fare in dodici pezzi il corpo di sua moglie quindi spedirli «in tutto il territorio di Israele», a tutte le sue dodici tribù. Quelle membra senza vita dicevano a chi le riceveva: «È forse mai accaduta una cosa simile? Pensateci, consultatevi e decidete». Questa parola è scritta anche per noi, deve colpire le nostre coscienze innanzitutto come corpo ecclesiale, come 'territorio' dei credenti, e poi come cittadini d’Italia dove ogni tre giorni una donna viene messa a morte, spesso insieme ai suoi figli. Non è più tempo di far finta che siano delitti in cui non siamo coinvolti; non possiamo più evitare di rispondere all’invito del levita di «pensare, consultarci, decidere ». È tempo non solo di chiedere perdono alle donne, ma di farci voce di un grido di riscatto che viene dal ventre della terra, dalle vergogne e lo strazio della nostra storia e dalla lealtà della Parola.