Il 'Corpo donato per voi'. Origine e forma della Chiesa comunione
"Senza Eucaristia non vi è Chiesa e non vi è dispensazione della salvezza, che è la vita di Dio in noi, a favore di tutti"
Prof. Piero Coda
La contemporaneità di Gesù – sottolineava Sören Kierkegaard – non è un’idea. E neppure un’aspirazione. È un evento tangibile: qualcosa, meglio qualcuno, che – nella sua sconvolgente e invitante alterità – si vede, si tocca, si mangia. L’Eucaristia. Discorrere intorno alla contemporaneità di Gesù, e intorno al significato e alla provocazione che ne vengono per la Chiesa oggi, non raggiunge il “dunque” sin quando non ci s’impatta con Gesù nell’Eucaristia. È così, infatti, nell’Eucaristia, che Gesù autoattesta e rende attiva ed efficace la sua contemporaneità. Non solo attraverso l’eco vivente della sua Parola, ma nella sostanzialità del Pane e del Vino. “Questo è il mio corpo ... questo è il mio sangue”. Stanno in ciò la grazia e il “nocciolo duro” dell’esperienza cristiana.
Nel libro VII delle Confessioni, riandando con la memoria al suo primo incontro con Dio (“cum primum te cognovi”, quando ti ho conosciuto per la prima volta – egli scrive, vibrante ancora di stupore e gratitudine), Sant’Agostino testimonia d’aver ascoltato da Dio, con la voce dell’anima, la promessa viva della straordinaria ed eccedente contemporaneità di Gesù alla storia, nella Chiesa, attraverso l’Eucaristia: «riverberasti l’infermità del mio sguardo – ricorda – raggiando verso di me con veemenza, e tremai tutto di amore e di tremore, e scoprii che ero lontano da te nella regione della dissomiglianza, come se ascoltassi la tua voce dall’alto: “Io sono il nutrimento degli adulti: cresci e ti nutrirai di me. E tu non trasformerai me in te come cibo della tua carne, ma tu sarai trasformato in me”» (Agostino, Confessioni, VII, 10.16).
Il compito teologico di cui ci è chiesta l’esecuzione è quello di risalire da questa Presenza, di cui la koinonía nella e della Chiesa si alimenta, e in cui la koinonía nella e della Chiesa proletticamente si consuma, all’istituzione che ne ha predisposto Gesù e all’intenzione che vi ha annesso e che attraverso i secoli li incastonava nell’eterno presente di Dio. In modo da cogliere e accogliere, con intelligenza d’amore sempre più piena e rigeneratrice, nel “corpo dato per voi” l’origine e la forma della Chiesa, che il Concilio Vaticano II ha inteso descrivere e promuovere, appunto, come koinonia. «Nella frazione del Pane eucaristico – insegna la Lumen gentium – partecipando noi realmente del Corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con Lui e tra noi: “Perché c’è un solo pane, un solo corpo noi siamo, quantunque molti, partecipando noi tutti di uno stesso pane” (1Cor 10,17). Così noi tutti diventiamo membra di quel Corpo (cfr. 1Cor 12,27), e singolarmente siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12,5)» (n. 7).
Questa realtà – sottolinea Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte – «incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa» (n. 42). La Chiesa che è in Cristo koinonia rinvia per sé alla Pasqua e alla cena del Signore – non l’una senza l’altra. La Presenza di Gesù alla Chiesa che la plasma koinonia è appesa a questi due gesti fondatori, l’uno dall’altro indissolubile. Due gesti, in cui il primo anticipa e offre “una volta per sempre” la verità salvifica del secondo; mentre il secondo nel memoriale del primo si perpetua. Ovviamente, quando per pasqua s’intenda l’integralità di ciò che essa è: morte e risurrezione, sacrificio e convivialità. Essendo la pasqua, così intesa, il dispiegarsi abbreviato e puntuale dell’evento intero di Gesù – esistenza e missione –, è chiaro che nella cena, suo anticipo e significato, si compendia tutto il bene della Chiesa: Cristo Gesù intero – anima, corpo, sangue e divinità, come ama dire la Traditio vivens che fa la Chiesa, anzi: la Traditio vivens dell’evento di Gesù Cristo che la Chiesa stessa è.
In effetti, a guardar le cose dritti negli occhi, la pasqua di Gesù senza la cena sarebbe svuotata del senso sostanziale che la rende contemporanea oggi, qui, per noi. Quel senso che si dispiega tra la cena di Gesù con gli apostoli nel cenacolo, prima della sua pasqua, e, dopo di essa, la cena dei discepoli a Emmaus – paradigmatica d’ogni altra Eucaristia. La pasqua riceve senso dalla prima e dà senso – sostanziale – alla seconda. E quando dico “sostanziale” intendo rimarcare la sua irriducibile, perché densa di mistero procedente dal cuore stesso di Dio Trinità, corposità e incisività storica. Quella, per intenderci, assumendo la quale i discepoli di Gesù sono investiti nel loro essere e agire dalla contemporaneità di Gesù e, a loro volta, se ne fanno attori irradianti nella storia come corpo di Cristo, «sacramento, in Lui, e cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG, 1). Che cosa, dunque, avviene nella pasqua, che è anticipato nel significato permanente che essa irradia dalla cena di Gesù e che perciò, nel memoriale di essa, ci è donato in ogni cena eucaristica? (La cornice teologica di quanto qui verrò esponendo è disegnata nel mio Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2012, in particolare, parte III: “L’evento. L’Abbà del Figlio fatto uomo nello Spirito”, 205-326).
Cominciamo dal racconto della cena. Lo considero qui nella convergenza dei dati storici e teologici che ci offrono le due grandi linee di tradizione che l’esegesi ha riconosciuto nell’attestazione neotestamentaria: quella paolino-lucana e quella marciano-mattaica, cui si congiunge, nella sua ricca originalità, la tradizione del quarto vangelo. Ora, il primo e fondamentale dato teologico che ci viene offerto, e che c’introduce al cuore dell’intenzione istitutrice di Gesù, è che la cena – e quanto essa anticipa e dischiude della pasqua – è racchiusa e avvolta dallo sguardo sconfinato e perseverante d’amore, per l’uomo, di quel Dio che Gesù ha vissuto e testimoniato al mondo come l’Abbà. L’incipit della cena e, di conseguenza, lo spazio che in essa si apre, son segnati, infatti, dalla eucharistia (Paolo e Luca) ovvero dalla euloghía (Marco e Matteo): due termini che rinviano alla berakhá, la grande preghiera di ringraziamento e di lode in cui si condensa l’ispirazione della preghiera ebraica (cfr. J. Ratzinger (Benedetto XVI), Gesù di Nazaret, II. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 145-146).
È Dio, dunque, l’Abbà, il protagonista di ciò che sta per accadere. Come lo è stato, sin dall’inizio, en arché – per dirla col vangelo di Marco –, quando Gesù ha preso ad annunciare l’euanghélion: «il tempo è compiuto e il Regno di Dio sta venendo; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). La morte di croce, verso cui Gesù sta andando, non è un incidente di percorso, un fuori d’opera imprevisto, la fine e il fallimento di tutto. Nella paradossalità tragica e oscura che la investe, l’enigmatica e sconcertante morte di Gesù è in tutto e per tutto avvolta e penetrata dall’amore misterioso ed efficace del Padre. Essa, anzi, è veramente e in modo definitivo il luogo e l’ora dell’accadimento del Regno che viene a noi, attraverso il Figlio, dall’Abbà, nella forza dello Spirito. Il contesto di preghiera – lo mostrerà, subito appresso, l’episodio di Getsemani – esprime l’adesione piena del Figlio, con sofferta e angosciata consapevolezza, alla volontà del Padre (cfr. Mc 14,32-36 e par.). E offre la prima e fondamentale coordinata che permette di decifrare e far nostro il senso della pasqua che la cena proletticamente esibisce.
Tutto è sotto lo sguardo di misericordia dell’Abbà, dunque, tutto è disposto dal e nel suo disegno di salvezza che si dispiega nel Figlio. Niente sfugge alla forza redentrice e trasformatrice del suo amore. Ma il disegno di Dio si fa storia dell’uomo, appunto, grazie all’adesione del Figlio che si dispone a vivere il sacrificio di sé, sino alla morte, entro la trama insensata e peccaminosa di ciò che gli è ingiustamente e insensatamente inflitto: «non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (cfr. Mc 14,36). La cena è radicalmente eucaristia, ringraziamento e lode, eucaristia cristica e universale, panumana e cosmica rivolta dal Figlio e nel Figlio all’Abbà: perché il Figlio, sulla croce, adempie infine e definitivamente la buona e bella notizia del disegno di salvezza del Padre. La coscienza cristiana delle origini, e l’ininterrotta tradizione della Chiesa, fissando questo nome – eucaristia –, tra i molti disponibili, per designare il memoriale della cena celebrato dai discepoli in memoria del Maestro e Signore, con l’infallibile senso soprannaturale della fede, ne coglie ed esprime l’intima e ultima verità.
Di qui, senza soluzione di continuità, un secondo dato, altrettanto radicale e decisivo. Se l’Abbà è l’indiscusso, nascosto regista del dramma di salvezza che sta per consumarsi – regista quant’altri mai presente e piegato con tutto se stesso a seguirlo passo passo –, il Figlio, Gesù, ne è il protagonista. E ciò significa, innanzi tutto, che egli è l’attore libero, consapevole e responsabile, di ciò che sta accadendo. La libertà di Gesù, nell’aderire, meglio ancora, nel far accadere la volontà d’amore dell’Abbà come storia, è il cuore pulsante della cena. E dunque della pasqua. Senza di essa nulla avrebbe senso. La libertà di Gesù, di fronte al Padre, meglio sotto lo sguardo d’amore del Padre, nell’intima unione d’amore e di reciproca intesa con lui, se, da un lato, disambigua per sempre il volto e il cuore di Dio – in lui non c’è tenebra, né doppiezza, né rivendicazione, né giustizia vendicativa –, dall’altro, penetra con la luce dell’amore, che è libertà, e della libertà che è amore, la tenebra anche più fitta e impenetrabile del cuore umano.
Il lessico di cui – con qualche variante che, alla fine, arricchisce l’intelligenza della cosa – fanno uso i racconti della cena, nella sua quotidiana e limpida semplicità, è del tutto eloquente. Ecco il racconto di Marco: il più scarno ed essenziale. «Prese, spezzò, diede...» (cfr. Mc 14,22-23). L’intenzione di Gesù ha come oggetto il destino della sua esistenza e missione. Che egli, in tutto, riceve dall’Abbà. E che assume e fa proprio nel suo senso risolutivo, con gesto sovrano, sereno e solenne, di libertà e consapevolezza (“prese”), per condividerne il frutto (“spezzò”) e per donarlo (“diede”): e cioè per parteciparlo, a tutti, in libera convivialità.
In questi gesti di Gesù, egli, il Figlio dell’uomo che è il Figlio di Dio, espone se stesso, si espone – come Dio, l’Abbà, si è esposto e si espone al mondo in lui. Se lo “spezzare” allude, da un lato, al realismo – cruento – della dedizione di sé, che non è un fatto idealistico e velleitario, ma ha la concretezza del corpo innalzato sulla croce e del sangue da essa versato, e, dall’altro, alla dinamica distributiva implicita in questo gesto, per cui ciascuno è oggetto e termine inteso e voluto di tale gesto; il “dare” esibisce la logica profonda e intenzionale dell’esistenza di Gesù. Egli si dà. E cioè, non solo, liberamente – aderendo all’amore del Padre –, offre il suo corpo, se stesso, rivelando così, all’estremo, quanto già ha donato con la parola, lo sguardo, i gesti. Ma, con ciò stesso, si comunica, anzi si trasferisce in chi l’accoglie. Per questo, il “diede loro” si esprime e si traduce nel “prendete”.
La dedizione si realizza e compie quand’è assunta e nella misura in cui è assunta. Con questa parola – “prendete” – i discepoli sono costituiti tali, discepoli: perché coinvolti e abilitati nel far vivere in sé il Figlio dell’uomo che è il Figlio di Dio. Diventa evidente, nella logica di una dedizione così intesa, dedizione che da sé suscita l’accoglienza che la assume e la rivive, la coscienza che in Gesù dimora, luminosa e lucida – nella sua relazione all’Abbà –, del senso di ciò che sta per accadere. Egli – dirà il quarto vangelo – «offre la sua vita e così la prende di nuovo» (cfr. Gv 10,17). La ri-prende non solo nel senso che è donando la sua vita che la riceve nuova in sé: ecco la risurrezione; ma nel senso che, donandola, la riceve nuova anche in chi l’accoglie e la fa sua: ecco Gesù «primogenito tra molti fratelli» (Rom 8,29).
La dedizione, in tal modo, suscita la convivialità e la fraternità, e cioè la Chiesa nella sua essenza, vocazione e missione di comunione. La Chiesa tale è e diviene, se sempre di nuovo riscopre e rivive la sua radice e la sua forma nella dedizione di sé: «egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16). È questo che Gesù «ha imparato dal Padre» (cfr. Gv 6,45): «Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26). La cena – e la pasqua – sono la comunicazione di quella dedizione di sé che ha sua sorgente nel Padre, attraverso il Figlio – che dal Padre anch’egli ha in sé la vita –, a chi lo accoglie riconoscendolo e accogliendolo per chi egli è: il Figlio.
Ma ciò non basta, anche se permette d’intuire il “filo d’oro” che lega la cena – e in prospettiva il ministero e l’evento tutto di Gesù – alla pasqua. Nei racconti della cena, e nella ripresa che ne fa la tradizione apostolica nelle sue molteplici declinazioni, ricorre una preposizione: hypér, “per” che, nella sua esiguità, dischiude un abisso – l’abisso più profondo della dedizione di Gesù e della comunione nuova e fraterna che essa suscita e plasma. Tanto che Benedetto XVI è giunto a dire che questo “per” può considerarsi la «parola-chiave non solo dei racconti dell’ultima cena, ma della figura stessa di Gesù» (J. Ratzinger (Benedetto XVI), Gesù di Nazaret, II, cit., p. 152).
È lo stesso “per” che, riecheggiando e sviscerando il significato preannunciato, nel Primo Testamento, dai carmi del Servo sofferente di Jhwh, è al cuore del lóghion cristologico più essenziale e concentrato della tradizione pre-pasquale: «il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e per dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). In questo lóghion, il «servire» è esplicitato nel «dare la vita in riscatto (lútron)». La stessa dinamica e finalità che sono espresse nel “per” pronunciato da Gesù nell’ultima cena. Esso racchiude così, densamente, nel loro reciproco implicarsi, il significato di espiazione e quello di riconciliazione – per usare il lessico neotestamentario – della croce e della cena. Si tratta di prendere sul serio, e sino in fondo, la potenza del male come peccato di opposizione a Dio e al suo disegno di amore, e la fatticità della tragica realtà che ne è l’effetto – nella vita personale e nella storia del mondo. Se non si fa ciò, se si rimuove cioè o si fa finta di non veder il male e la sequela tragica delle sue strutture e dei suoi effetti, la dedizione di Gesù e la grazia di riconciliazione e di comunione che “a caro prezzo” (per Gesù e per noi, al seguito di lui) ne scaturisce, si svuotano di senso, di serietà e sincerità, d’incisività ed efficacia spirituale e storica.
Il dar-si di Gesù – prolungamento ed espressione trinitaria del dar-si dell’Abbà – implica, proprio perché è vero e risolutivo, lo scendere nell’abisso di morte in cui il peccato ha imprigionato l’uomo. Solo così, solo prendendo su di sé la conseguenza della contraddizione tragica dell’amore dell’Abbà che è il peccato dell’uomo, Gesù può attestare che «più forte della morte è l’amore» (cfr. Ct 8,6), l’amore dell’Abbà. I due linguaggi, quello della cena e quello del sacrificio, quello dell’espiazione vicaria e quello della convivialità fraterna, non sono antagonisti, né vanno assorbiti l’unto nell’altro: vanno piuttosto coniugati in profondità alla luce dell’amore dell’Abbà che tutto illumina di sé, nel Figlio crocifisso e risorto. Prendere sul serio la “potenza immane del negativo” – come arditamente lo chiama il pensiero moderno –, decifrare, cioè, con lucidità e coraggio, ovunque essi si annidino, i tratti e le trame della strategia d’inganno e malvagità disegnati dal “principe di questo mondo”, significa, in definitiva, prendere sul serio la sapienza e la potenza dell’amore di Dio: Cristo crocifisso. «Perché – insegna l’apostolo Paolo – ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,25). La speranza cristiana è tale solo se è inchiodata alla croce. E da essa più non si schioda.
È per questo, per il suo essere inchiodata alla croce di Gesù, che la speranza – attesta l’apostolo Paolo – «non delude: perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,5). La dedizione del Figlio, espressione della dedizione dell’Abbà, è accolta nei cuori e li accende alla fede, alla speranza e all’amore – «per mezzo dello Spirito Santo». È lo Spirito Santo il terzo co-agonista, tutto divino – eppure così intimamente vicino al nostro cuore da esservi dentro versato! – del dramma della cena e della croce. Certo, a un primo sguardo, dello Spirito Santo non si dice parola, nell’uno e nell’altro caso. Ma egli, in verità, è il soffio di vita in cui accadono il dono del Padre e il dono del Figlio. È, anzi, il dono stesso che, dal Padre, il Figlio versa nei nostri cuori.
“Versare”. Il verbo è lo stesso (ekchéo): nel lessico di Paolo che parla dello Spirito “versato nei nostri cuori”, e in quello del vangelo di Marco, che mette questa parola sulle labbra di Gesù nell’offrire ai discepoli “il sangue dell’alleanza versato per molti”. Del resto, l’alleanza, di cui qui si tratta, quella che prende origine e vigore dal e nel sangue versato di Gesù, è la “nuova e definitiva alleanza” che Dio ha promesso d’instaurare col suo popolo. Quella di cui dicono Geremia: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d'Israele e con la casa di Giuda concluderò un'alleanza nuova. (...) porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l'un l'altro, dicendo: "Conoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato"» (Ger 31,31.33-34); ed Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,26-27).
Il sangue “versato” da Gesù sulla croce, che egli offre col calice ai discepoli nella cena, se, da un lato, evoca senz’altro, nella sua separazione dal “corpo dato”, il realismo estremo e cruento della morte; dall’altro, esprime il dono di sé “sino alla fine” (cfr. Gv 13,1): sino, appunto, all’effusione del sangue. E si propone come il segno vero e tangibile e il veicolo concreto ed efficace della comunicazione che Gesù – sulla croce e nella cena – fa di sé, della vita di Dio in sé – lo Spirito Santo – agli uomini. Scrive Santa Caterina da Siena, Dottore della Chiesa: «‘l sangue [del Cristo crocifisso] è intriso con la calcina della deità e con la fortezza e il fuoco della carità», che è lo Spirito Santo (Caterina da Siena, Il dialogo della divina provvidenza ovvero Libro della divina dottrina, a cura di G. Cavallini, Edizioni Cateriniane, Roma 1968, XXVII, 60).
Il “sangue versato” dal Crocifisso è – possiamo ben dire – il “sangue di Dio”, la sua stessa vita: lo Spirito Santo. Il quarto vangelo, narrando la scena della croce, lo richiama, in forma densamente simbolica, quando pone il sigillo sulla morte di Gesù dicendo che egli, «reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (19,30), per poi certificare l’avvenuta effusione della vita come consegna dello Spirito nell’attestazione del riversarsi, dal costato di Gesù squarciato dalla lancia, di «sangue ed acqua» (Gv 19,34). In essi, nel sangue e nell’acqua, i Padri della Chiesa riconosceranno i segni, vivificati dallo Spirito del Risorto, dell’Eucaristia e del Battesimo.
Lo ribadisce la Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II, sintetizzando densamente la grande lezione della Tradizione: «De latere Christi in cruce dormientis ortum est totius Ecclesiae mirabile sacramentum» (n. 5). È dunque il sangue di Cristo, espressione tangibile e irrevocabile dell’effusione escatologica e “senza misura” (cfr. Gv 3,34) dello Spirito, che, versato nei nostri cuori, fa scorrere in essi la vita di Dio, lo stesso suo sangue. La nuova alleanza abbraccia cielo e terra: perché, ormai, un’unica vita, quella dell’amore “sino alla fine”, quella che sgorga dal Padre e pulsa nella missione del Figlio, viene da lui versata col dono di sé sino al sangue, mediante lo Spirito Santo, nel cuore dei credenti. Questo accade nella pasqua. Questo dice e compie la cena.
Ci resta da fare un ultimo passo. Sinora abbiamo cercato di leggere la pasqua alla luce della cena, e viceversa. Ci resta di fissare l’attenzione, brevemente, sulla cena dei discepoli quale “culmen et fons” della vita e missione della Chiesa (cfr. Sacrosanctum Concilium, 10), in quanto in essa, a memoriale della cena di Gesù, si fa contemporanea a noi la pasqua del Signore, sorgente e forma della Chiesa comunione. Come preannunciato, guardiamo al ben noto, ma sempre nuovo e provocante, racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35).
Di esso, in questa sede, mi pare suggestivo richiamare un aspetto soltanto, in ordine al compito che c’impegna. Si tratta di questo. Come sappiamo, i due discepoli scendono da Gerusalemme verso Emmaus sconsolati e spenti, nella mente e nel cuore. Non hanno afferrato il senso e la grazia – misteriosa – di quant’è accaduto, avendo per protagonista Gesù Nazareno. Fin quando un viandante, che è Gesù stesso, il Risorto, si accosta a loro e interpreta in tutte le Scritture ciò che lo riguarda. Al punto che, seduto infine a tavola con loro, ripete i gesti della cena: «Prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (24,30). È nel rivivere questo atto, l’evento della cena, che «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (24,31). In quel “riconoscimento” trova conferma e sigillo l’ardore che bruciava nel loro petto «mentre – si dicono l’un l’altro – conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture» (24,32).
Qual è il significato di questo riconoscimento (epígnosis)? È il fatto che essi, rivivendo con Gesù la cena, alla luce della Scrittura da lui interpretata, ora, con lui vivo in mezzo a loro, mediante quei gesti, entrano vitalmente e insieme in una conoscenza nuova e vera e definitiva di lui. Essi, cioè, non solo riconoscono in colui che ha camminato con loro quel Gesù che nella cena – senza che ancora lo si potesse appieno comprendere – aveva anticipato il senso e la verità della croce: quel senso e quella verità che sono lui stesso, il Vivente e il Risorto. Ma comprendono e accolgono anche il tenore di quel “prendete e mangiate, questo è il mio corpo .. prendete e bevete, questo è il mio sangue”. Accade che – come spiega in modo bellissimo Benedetto XVI – «mediante quelle parole, il nostro momento attuale viene tirato dentro il momento di Gesù. Si verifica ciò che Gesù ha annunciato in Giovanni 12,32: dalla croce egli attira tutti a sé, dentro di sé» (J. Ratzinger (Benedetto XVI), Gesù di Nazaret, II, cit., p. 158).
E nella Deus caritas est il Papa spiega: «la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti: “Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane”, dice san Paolo (1Cor 10, 17). L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l'unità con tutti i cristiani. Diventiamo “un solo corpo”, fusi insieme in un'unica esistenza. Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé» (n. 14).
È quel che nel racconto lucano dei discepoli di Emmaus, paradossalmente, si attualizza in ciò: che l’evento del riconoscimento del viandante coincide col «diventare egli non (più) veduto da loro» (24,31). Egli, infatti, vive ora, e come tale ha da vivere, in loro: in ciascuno di loro e in mezzo a loro, nel loro diventare koinonia in Lui. È questa l’intenzionalità del “prendete”. «Io in loro e Tu in me» – chiede Gesù nella preghiera all’Abbà, nell’ultima cena. Il Padre in Gesù, Gesù nei discepoli. È quanto Gesù realizza nella pasqua e comunica nell’Eucaristia. Nel memoriale della cena si attualizza, dunque, da Cristo Gesù, tutto il bene della Chiesa per la salvezza del mondo. Senza Eucaristia non vi è Chiesa e non vi è dispensazione della salvezza, che è la vita di Dio – cioè il suo sangue, lo Spirito Santo – in noi, a favore di tutti.
I Padri della Chiesa, con formula pregnante, insegnano che il Figlio di Dio s’è fatto Figlio dell’uomo, perché noi, figli e figlie dell’uomo, possiamo diventare in Lui figli di Dio. Con preciso e suggestivo linguaggio filosofico, il beato Antonio Rosmini scrive che Gesù Cristo, nell’incarnazione e sulla croce, di cui l’Eucaristia offre il frutto sostanziale, si è «inoggettivato» in noi: ha cioè “trasportato” se stesso in noi al punto da “in-esistere” in noi (e cioè da esistere-dentro-di-noi). Ma ciò si realizza – nella logica del “diede” e del “prendete” – solo attraverso la nostra reale “inoggettivazione” di risposta in lui. È «questa “inoggettivazione” morale in Gesù Cristo – spiega Rosmini – la formula più breve della cristiana perfezione, di qui viene l’espressione solenne: in Cristo. L’uomo cristiano dee sentire, pensare, fare, e patire, avere, essere ogni cosa, in Cristo» (A. Rosmini, Teosofia, parte I: Ontologia, Libro III L’essere trino, Sez. III, Cap. I, Art. IV, n. 899; Opere, vol. 13, a cura di M. Adelaide Raschini e P.P. Ottonello, Istituto di Studi Filosofici – Centro Internazionale di Studi Rosminiani – Città Nuova, Roma 1998 , p.209).
Insieme, gli uni come membra degli altri (cfr. Rm 12,5; Ef 4,25). Occorre dunque, in virtù dell’Eucaristia, seguire Cristo nel suo movimento di dedizione e identificazione riconciliatrice che lo porta a scendere negli abissi – sino agl’inferi – del cuore, della mente, della vita dell’uomo, di ogni uomo, in ogni tempo e in ogni situazione. A tutti i livelli e in tutte le dimensioni del suo essere e della sua esperienza: fisica, psichica, spirituale e culturale. Solo così Cristo, in noi, nei “poveri vasi d’argilla” (cfr. 2Cor 4,7) che accolgono la sua grazia, diventa contemporaneo. Là e quando – scrive Teresa di Lisieux, il Dottore della Chiesa che Dio ci ha donato nel nostro tempo – ciascuno di noi e il popolo della nuova alleanza, in tutte le forme del suo esistere ed agire, «accetta di mangiare quanto a lungo voi vorrete, Gesù, il pane del dolore», e «non vorrà alzarsi dalla tavola piena di tristezza e pena, dove mangiano i poveri peccatori .. sino a quando a voi, Gesù, così piacerà» (Thérèse de l’Enfant Jésus, Manuscrit “C”, Folio 6 r., in Id., Manuscrits autobiographiques, Carmel de Lisieux, Lisieux 1957, p. 251 -trad. nostra).
Questa la contemporaneità che Gesù chiede alla sua Chiesa come “sacramento, e cioè segno e strumento, in Lui, dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”(LG, 1). Di qui si irradiano la verità e l’efficacia nella comunione della sua missione: religiosa e civile. «Finché egli venga» (1Cor 11,26).
Prof. Piero Coda
Preside dell’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (Firenze)
St. Patrick’s College, Maynooth, Co Kildare, Ireland - 7 giugno 2012
(07/08/2012)