"A suo modo". Il peculiare apporto educativo della Liturgia alla Nuova Evangelizzazione

* Docente di Liturgia della Pontificia Facoltà di Scienze dell'Educazione "Auxilium" di Roma - Selva Candida

 

La proposta di un Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione (NE) interroga la Chiesa sulla sua stessa identità. Quando, infatti, essa prende coscienza di sé diventa missionaria (1). Interrogare la storia sull’efficacia della missione evangelizzatrice della Chiesa che si riassume nel comando del Signore di fare suoi discepoli battezzando ed insegnando a compiere la sua parola (cf Mt 28,19-20) è assillo della Chiesa di sempre e obiettivo del Sinodo che si sta preparando. Tuttavia, la Chiesa non arriva «impreparata di fronte a questa sfida: con essa si è già misurata nelle Assemblee che il Sinodo dei Vescovi ha dedicato in modo specifico al tema dell’annuncio e della trasmissione della fede, come le esortazioni apostoliche che le chiudono – Evangelii nuntiandi e Catechesi tradendae – testimoniano. La Chiesa ha vissuto in questi due eventi un momento significativo di revisione e di rivitalizzazione del proprio mandato evangelizzatore» (2). In questo appuntamento la Chiesa vuol puntare l’obiettivo sulla NE in quanto ‘nuova’, ossia su quel tipo di attività ecclesiale ampiamente intesa, secondo le categorie dell’Evangelii nuntiandi,3 rivolta a coloro che hanno già ricevuto l’annuncio del Vangelo, ma non ritengono più la Chiesa la loro casa, sia nei Paesi di antica cristianità, sia in quelli di recente evangelizzazione, non percependo più i suoi linguaggi adatti ad esprimere la loro esperienza di fede. Se hanno già assaporato la Buona Notizia, che cosa potrà aiutarli a riconoscere voci, suoni, immagini, gesti, capaci di dare ancora senso alla loro vita?

 


1. La liturgia e la sua azione evangelizzatrice

Evangelizzare appartiene al DNA della Chiesa: essa «esiste per evangelizzare » (4). Con questa azione si intende tutta l’attività ecclesiale nel suo complesso: la predicazione, la catechesi, la liturgia, la vita sacramentale, la pietà popolare e la testimonianza cristiana (5), che si misura «con le sfide di un mondo in accelerata trasformazione», ma si propone ancora «come la via per vivere oggi il dono dell’essere radunati dallo Spirito Santo a fare esperienza del Dio che ci è Padre, testimoniando e proclamando a tutti la Buona Notizia – il Vangelo – di Gesù Cristo» (6). La domanda più radicale che si fa oggi la Chiesa con il prossimo Sinodo non riguarda tanto la capacità di inventare nuove strategie per trasmettere la fede, ma il perché della sua infecondità come Corpo, come vera fraternità, come reale comunità. Mette a fuoco apertamente il problema come questione ecclesiologica (7). E senza aggirarlo, si dichiara disponibile ad un processo di verifica e di discernimento davanti alle sfide dell’oggi e, «in un momento ricco di cambiamenti e di tensioni, di perdita di equilibri e di punti di riferimento», vuole trovarsi pronta «ad interrogarsi in modo nuovo sul senso delle sue azioni di annuncio e di trasmissione della fede» (8), e più ancora sul suo atteggiamento, sulla sua passione per Cristo, e poi «sul volto e la declinazione concreta che assumono nel presente gli strumenti di cui […] dispone per generare alla fede (iniziazione cristiana, educazione)» in Lui (9).

La nuova evangelizzazione si pone quindi nel contesto di una rivitalizzazione della fede già donata nel battesimo ma che, per vari motivi personali, familiari, ecclesiali, culturali non ha trovato le condizioni per crescere e maturare. Tra i linguaggi della fede che la tradizione conosce c’è quello liturgico. Esso è riconosciuto come luogo di eccellenza per generare alla fede, spazio singolare, distinto da tutti gli altri linguaggi della fede: la catechesi, la predicazione, la ricerca teologica, l’insegnamento religioso, la testimonianza, il servizio pastorale. È sicuramente, come gli altri, un agire ecclesiale curato dalla Chiesa con premura e gelosia, ma come gli altri è anche un sistema di comunicazione che si caratterizza per alcune peculiarità irrinunciabili, senza le quali perde in originalità e in efficacia espressiva. Nell’ambito di alcuni quesiti per la riflessione che i Lineamenta pongono alla comunità cristiana sui linguaggi della fede è detto che la NE «si propone come esercizio di verifica di tutti i luoghi e le azioni di cui la Chiesa dispone per annunciare al mondo il Vangelo» (10).

Uno di questi è la liturgia. Per realizzare una verifica efficace, occorre vedere se si sono realizzate le condizioni perché esso possa esprimersi secondo la sua vocazione, possa operare con le sue peculiari caratteristiche. Spesso, infatti, si sente affermare che l’adesione a Cristo è perfetta quando si è in grado di superare le forme che a Lui conducono, quando si è in grado di liberarsi di riti e formule, di incarnare il Vangelo senza più bisogno di testi e di strutture. È la ricorrente tentazione dello spiritualismo gnostico. Ma esiste anche la tentazione di credere di avvicinarsi di più al mistero tramite processi razionali più raffinati, omologando tutti i linguaggi ecclesiali a quello verbale. La liturgia non potrà mai soddisfare questa pretesa.

 


2. Crea ambiti di esperienza

Pur essendo una fonte di comunicazione della fede, la liturgia non tende primariamente a far approfondire l’atto di fede, a far riflettere, ad insegnare qualcosa su Dio, ma a far incontrare con Dio coloro che ne hanno già avuto l’annuncio, a porre in relazione con lui creando tutte le condizioni perché ciò avvenga. In questo “contatto” c’è sicuramente una comunicazione di messaggi, è proclamata la Parola, ma lo scopo di questa azione è perché la Parola sia riconosciuta in una risposta di fede. I Lineamenta del Sinodo sulla NE hanno chiaro che «trasmettere la fede significa creare le condizioni perché l’incontro tra gli uomini e Gesù Cristo avvenga. La fede come incontro con la persona di Gesù Cristo ha la forma della relazione con lui, della memoria di lui (nell’Eucaristia)» (11).

Lo scopo ultimo di questa forma di comunicazione della fede comprende la relazione con Qualcuno di conosciuto, desiderato, amato, ma non tende anzitutto ad offrire informazioni, ad organizzare o ad approfondire conoscenze su di lui, come è proprio della ricerca teologica o della proposta catechistica. Troppo spesso, nel tentativo di rendere più accessibile un rito, più comprensibile la sua singolarità, lo si è stipato di parole, approfittando del fatto che – specie la messa domenicale o alcuni riti sacramentali – è l’unico spazio dedicato all’approfondimento del messaggio cristiano: omelie interminabili, monizioni a iosa, preghiere dei fedeli simili a concentrati di catechismo nelle quali nessun elemento dottrinale può mancare o, al contrario, improvvisazioni di dubbia qualità credute indispensabili per testimoniare una calda partecipazione.

La liturgia è un sistema comunicativo il più adatto all’incontro con Dio, creato proprio per l’incontro. È azione che pone in interazione senza preoccuparsi se chi partecipa sa tutto di Colui che incontra. Perché l’incontro con Dio è principalmente dono e mistero (come è dono e mistero quello tra le persone) anche qualora fossimo in grado di possedere tutto ciò che la rivelazione e le varie forme della tradizione cristiana hanno potuto raccogliere e cristallizzare nei vari linguaggi della fede. La liturgia è fonte e non puro strumento di trasmissione della fede, non ha lo scopo di esibirsi come un sistema concettualmente completo, non si preoccupa di ammettere a celebrare solo chi ha raggiunto un alto grado di conoscenze: il cristiano celebra perché crede, ma anche crede perché celebra.
Nella celebrazione i valori della fede sono espressi, ma ancor più «si imprimono […] e ciò a motivo della sua natura simbolica, al contempo semantica (che rimanda ad un mondo di senso) e pragmatica (che fa entrare in un ordine di senso e di relazioni)» (12). È una “forma” di trasmissione della fede che “forma”. Valorizzare, infatti, la forza impressiva della celebrazione significa credere alla sua capacità di dare forma “facendo”, coinvolgendo, aiutando ad entrare nell’azione, non solo spiegando o informando sui significati.

Non basta spiegare il silenzio per accogliere la parola, bisogna provare a tacere; non basta essere informati sull’importanza del digiuno, occorre sentirlo nella propria carne per gustare il bene di mangiare con altri e dire così comunione e festa; non basta sapere che la risurrezione è fonte di gioia, occorre sperimentarne il suono negli alleluia pasquali. La liturgia, quindi, tende attraverso un complesso sistema simbolico a creare ambiti di esperienza allo scopo ultimo di attrarre verso l’incontro coinvolgente e impegnativo con il mistero di Cristo. Questo incontro ripetuto e gratuito mira a forgiare nei partecipanti degli atteggiamenti che trasformano, formano l’immagine di Cristo, «secondo la sua piena maturità» (Ef 3, 14). Tende a condurre verso la pienezza della vita nello Spirito. Un processo, questo, mai perfettamente concluso, eppure gradualmente capace di condurre verso la libertà. Crea ambiti di esperienza per attrarre verso la meta e lo fa coinvolgendo l’intera persona (corpo, anima, sentimenti) colta nella sua costitutiva capacità relazionale. Raccoglie tutta la persona nella verità della sua vita, mai separando ragione e sentimenti, sensi ed anima, azioni ed emozioni. Quando si è tentato di indebolire e di snaturare la corposità simbolica della celebrazione, soffocandola in eccessiva verbosità, essa ha finito per tacere ed annoiare, smarrendo la sua significatività.

 


3. Coinvolge l’intera persona

La NE richiede un’attenzione speciale alla sensibilità dell’uomo contemporaneo che predilige ambienti vitali capaci di coinvolgere la complessità della persona in tutte le sue componenti. I messaggi di fede si esprimono soprattutto attraverso la parola, ossia attraverso la forma del linguaggio verbale. Anche la liturgia, pur essendo intessuta di una molteplicità di linguaggi, ha dato largo spazio al primato, anzi alla prepotenza della parola e si è spesso identificata con i testi e con i contenuti che la veicolano. Il Concilio Vaticano II però, sulla sapiente scia della tradizione, ha spostato di nuovo l’obiettivo sull’intera azione celebrativa affermando che la Chiesa si preoccupa affinché i fedeli partecipino in maniera consapevole attiva e devota tramite i riti e le preghiere ("per ritus et preces") (13). Gestualità, movimenti, organizzazione dello spazio, suoni, immagini valgono quanto le parole e quasi sempre più di esse. È risaputo, ad esempio, che nella comunicazione verbale ciò che rimane impresso nella memoria dell’uditore si riferisce il 60% alla gestualità dell’oratore, il 30% al suo tono di voce e solo il 10% ai contenuti del suo messaggio (14).

Impegnare quindi nell’azione tutte le forme espressive, coinvolgere tutte le proprie capacità percettive permette sia di cogliere la realtà nel modo più globale e completo, sia di esprimere se stessi in maniera più soddisfacente. Anche nell’esperienza religiosa valgono le stesse leggi e nella liturgia la chiesa ha utilizzato più o meno intensamente, a seconda dell’accentuazione storico – culturale data al corpo, tutti i codici della comunicazione legati ai sensi, alle emozioni, all’azione e alla razionalità, opportunamente integrati in un contesto rituale simbolico (15). Anche i Lineamenta per il Sinodo sulla NE, pur riconoscendo la preoccupazione della Chiesa di garantire in passato una trasmissione della fede sistematica, integrale, organica e gerarchizzata, sente il bisogno di incoraggiare una pedagogia della fede che valorizza l’intera persona. Infatti «la trasmissione della fede non avviene solo con le parole, ma esige un rapporto con Dio attraverso la preghiera che è la stessa fede in atto. E in questa educazione alla preghiera è decisiva la liturgia con il suo proprio ruolo pedagogico» (16).

L’attenzione particolare che la recente ricerca in campo liturgico dà alla totalità della persona, coinvolta nell’incontro con il mistero, attesta l’importanza di questa via e la risposta equilibrata ad una sfida tipicamente moderna, che riguarda l’esaltazione del corpo, della sensibilità, dell’emozione in contesto di crisi della ragione e della soggettività. La via somatica, la via estetica legata alla sensibilità è, infatti, quella che caratterizza maggiormente la forma di trasmissione della fede che chiamiamo liturgia (17). Non è principalmente la via noetica quella che caratterizza il celebrare. Pur non escludendola, ovviamente, poiché appartiene alla pienezza dell’umano, non lo caratterizza come invece avviene con altri linguaggi della fede, non lo totalizza. I codici linguistici non verbali, quelli che coinvolgono il corpo, i suoi sensi e le sue emozioni, abitano la quasi totalità dello spazio del celebrare e sono portatori di valori, indicatori di senso. Ridurre la liturgia a messaggio verbale, voler spiegare il simbolo mentre agisce, preoccuparsi della recezione del messaggio mentre l’azione si compie, svigorisce la forza del sistema simbolico rituale e lo rende contenuto da apprendere, oggetto da analizzare, qualcosa che rimane estraneo al soggetto, controllabile e controllato e dal quale ci si può distanziare e non essere coinvolti (18).

Se la meta del celebrare è l’incontro, ogni linguaggio (visivo, uditivo, gustativo, olfattivo, tattile, spaziale, temporale, ecc.) deve convergere verso questa finalità e collaborare sinergicamente al coinvolgimento del soggetto. Non è sufficiente che il linguaggio verbale informi soggetto o assemblea con monizioni o didascalie sul significato delle singole parti di un rito. Solo insieme agli altri linguaggi del rito espressi in luci, suoni, colori, immagini, toni, gesti, spazi, sapori potrà permettere al soggetto di essere parte, di esperimentare la forza simbolica della liturgia. È pericoloso porsi davanti ad un’azione rituale dall’esterno, come soggetto critico, distaccato. Si rischia di non entrare mai, di non diventare parte, di non percepirsi all’interno di un tutto vitale come è quello della grazia.

La liturgia, infatti, non sopporta spettatori e alla fine li abbandona (più che essere abbandonata) alla noia e al non senso. Perché essa funziona simbolicamente (simbolo = metto insieme) per coniugare ciò che si tende a contrapporre: invisibile e visibile, dentro e fuori, terra e cielo e in questo connubio il soggetto non prevarica sull’oggetto manipolandolo; se ne è parte, lo comprende, lo abbraccia, lo integra, se ne sente coinvolto, non vive la sua presenza come imposizione. Una casa è ben costruita non solo a giudizio del costruttore perché corrisponde alle regole dell’urbanistica, dell’architettura e dell’estetica, ma anche dell’abitabilità, secondo l’esperienza di chi ci sta dentro. In altre parole, il giudizio esterno tende a far rimanere il soggetto estraneo, al di fuori, libero di non “sporcarsi le mani”, di non lasciarsi trasformare. Nel rito, invece, è insopportabile il comportamento di chi parla “di” Dio senza parlare “con” Dio, senza essere dentro all’incontro che si sta realizzando (19). La difficoltà, l’impossibilità, la volontà a non lasciarsi coinvolgere nel rito spiega l’allontanamento dal rito, la diserzione, l’abbandono. Perché il rito è terribilmente performativo se lo si lascia agire; trasforma, educa, matura. È un’opera creata ad arte e non può essere “abbellita”, infiocchettata, manipolata dagli umori di ciascuno. Richiede rispetto e, si vedrà, anche obbedienza per poter essere eloquente.

 


4. Collabora con originalità al processo educativo cristiano

Una caratteristica che eccelle di questo tipico linguaggio della fede (forse presente anche nel linguaggio catechistico ma non in modo così evidente ed indispensabile) è quello identificato dai teorici contemporanei del rito come interruzione, “rottura”, sospensione, disordine, trasgressione. Il rito, pur invocando un rapporto stretto con la quotidianità (liturgia-vita) necessita di una differenziazione da essa, un’interruzione, l’apertura di un varco oltre il previsto, il saputo, il dovuto, il già detto, il feriale, muovendosi nello spazio e nel tempo con regole proprie. Per porsi a contatto con Dio deve far percepire il cambiamento, la frattura creatrice, la rottura della linea di continuità temporale. Lo fa allora con la festa che comunica perturbando la comunicazione normale, utilizzandola a modo suo, ad esempio con silenzi o gesti non ordinari e utilizzando oggetti separati dall’uso comune (20). Lo fa interrompendo la logica dell’utilità che immette nel gratuito, lo fa con abiti diversi, con altri suoni, altre luci, altri luoghi, ecc. La rottura dell’identico, dell’uguale, stacca il soggetto da un’esperienza quotidiana e gli apre uno squarcio che dà ragione dell’insoddisfazione percepita e crea le condizioni di attesa, indispensabili ad accogliere la rivelazione del mistero (21).

La sospensione del quotidiano prepara alla sorpresa e lo fa simbolicamente, con gesti, azioni, parole che rivelano proprio nell’eccedenza, nella dismisura o nell’improvvisa privazione la presenza dell’oltre, fanno intuire che il mistero è lì, avvolge, si concede, vuole rendere partecipi. Queste caratteristiche sono indispensabili al rito per dire la trascendenza. L’eccedenza si esprime con lo “spreco” rispetto all’utile, proprio come fece Maria di Betania sprecando unguento prezioso che può rendere un buon guadagno a beneficiodei poveri (cf Gv 12,5); si esprime nel disordine caotico dei riti liminali o nell’insoddisfazione per non essere saziati da un cibo\bevanda, perché proprio questa sproporzione esaudisce un altro bisogno di senso. La liturgia dice differenza per aprire al mistero e lo fa simbolicamente non nella misura, nell’ordine, nella continuità, ma nella rottura. Esalta la recettività, potenzia il desiderio come nel digiuno, prepara l’attesa, crea condizioni adatte per accogliere Dio. La sua logica è altra. Non è quella della dialettica, dell’ordine come successione temporale ma è piuttosto quella della globalità: la parte si spiega nel tutto.

L’anno liturgico, ad esempio, non rispetta la cronologia dei fatti raccontati nel Vangelo (la festa dell’annunciazione cade in quaresima, il battesimo di Gesù segue immediatamente l’Epifania e la presentazione al tempio del bimbo di 40 giorni segue il Battesimo di Gesù adulto); passato e futuro sono creduti presenti nell’«oggi liturgico». Sarà il tutto a dar ragione della parte, l’intero anno liturgico a giustificare la singola festa, tutta una celebrazione a spiegare il singolo segmento rituale, il valore dell’intero corpo ecclesiale a far apprezzare ogni ministero. Strano modo di informare, eppure sono proprio queste trasgressioni che immettono in un’altra forma di comprensione, in un altro tempo per fecondare il quotidiano. Si tratta, infatti, di rotture, di passaggi liminali della sensibilità per educare ad entrare in un’altra realtà che supera la sensibilità stessa, che la fa crescere, evolvere, la rende capace di recepire altro. Non si tratta di abbandono del sensibile per “pensare” qualcosa che sta oltre, ma di implicazione del sensibile per accogliere, con sensi più acuti e trasfigurati, la trascendenza e vivere la fede non in modo estetico, ma dentro alla sfera estetica. Non abbandona mai il sensibile, ma lo accoglie e vi si immerge per una sua trasformazione pasquale.

 


5. “Dà forma” educando la libertà

Altra particolarità del linguaggio rituale è quella di essere ripetitivo. Questo ripresentarsi uguale che allo sguardo superficiale può risultare noioso, corrisponde però a quella legge umana dell’acquisizione di un atteggiamento virtuoso. Come l’atleta ha bisogno di costanti esercizi fisici, come lo scienziato di lunga sperimentazione e verifica, come lo scrittore di molto tirocinio alla scuola di maestri, come l’artigiano di molta osservazione e prova, così è di chi apprende l’arte di entrare in relazione “simbolicamente” (per mezzo di riti) con la Presenza evocata, con l’evento attualizzato. È il rispetto della persona che cresce a richiederlo. L’iniziazione al mistero perciò sarà lenta, non otterrà effetti immediati, ma rispetterà la gradualità dei processi di crescita individuali e comunitari. Sulla categoria di iniziazione come processo si soffermano anche i Lineamenta (22) non solo per invitare ad un discernimento maturo sulle proprie pratiche battesimali, ma soprattutto per verificare se i vari cammini di iniziazione alla fede e gli itinerari mistagogici l’hanno assunta come modello educativo.

Nel cammino di generazione e maturazione cristiana un ruolo essenziale è dato dalla figura educativa paterna\materna che incide sulla rappresentazione e sull’esperienza di Dio. Essa ha il compito di inserire nella capacità generativa della comunità cristiana e permette di introdurre nella struttura ecclesiale con rispetto, riconoscendone l’autorevolezza. Ogni membro della comunità cristiana, adulto o minore che sia, ha bisogno di riconoscere questa autorevolezza per crescere, avendo chiara la meta verso cui procedere. Nel linguaggio liturgico, il rito si offre come luogo in cui riconoscere l’autorevolezza ecclesiale. Esso infatti richiede un certo rispetto, una certa obbedienza per essere assunto e riconosciuto come “forma che dà forma”. Rispetto che non vuol dire fissismo, non significa accettazione passiva di una forma come assoluta perché asetticamente universale. Rispetto di un ordo vuol dire obbedienza fedele e creativa, fedele all’arte del celebrare e all’assemblea concreta che celebra, capace di unire il mistero che si dona e l’assemblea particolare che riceve il dono.

Lo stile celebrativo che ne scaturirà sarà al contempo proprio, originale, legato alla concretezza delle sue variabili storiche, ma anche quello della Chiesa tutta che in esso si riconosce. Il rispetto di un ordo, la sua ripetizione, anche se in una particolare ed irrepetibile assemblea (questa, non una qualunque), è essenziale ad un apprendimento che dà forma, che forgia lentamente, gradualmente l’unico corpo di Cristo. Inoltre, la ripetizione attenta, incarnata, assunta, personalizzata di un rito educa ad una partecipazione libera. Accompagna infatti ad accogliere qualcosa che ci precede, che non parte dalla propria iniziativa: matura la capacità di de-centrarsi, di staccarsi dalla prepotenza dell’io, dall’illusione di credersi creatori di se stessi e aiuta a riconoscere il primato del dono di Dio nella precedenza di una forma ricevuta. «È alla luce di questa precedenza e di questo primato che trova il suo senso il principio dell’autorità del rito […]. Quando tale principio è inteso in senso non statico e riduttivo […] l’obbedienza liturgica libera la libertà dal pericolo di porre se stessa al centro, slegandola dall’ordine dei fini e del suo destino ultimo: nella liturgia, come nella vita, non si tratta anzitutto di educare alla libertà, quanto di educare la libertà» (23). E mentre il rito rende attenti e capaci di accogliere l’Altro, educa anche alla inter-soggettività, riconoscendo l’antecedenza della comunità; ciò non può darsi se non in un contesto di autentica libertà. La liturgia «pare avere la capacità di richiamare costantemente che la pienezza dell’umano non lo si può raggiungere se non espropriando se stessi e accettando che esiste una comunità che sempre ci precede» (24).

Nella sospensione del proprio agire e nell’apparente inoperosità di chi aderisce ad un ordo pre-ordinato «crolla l’ambizione più alta delle potenze dell’autoesaltazione che celebra semplicemente se stessa. Dal Papa all’ultimo dei battezzati, l’intera Chiesa fa una sola cosa, uguale per tutti: radunarsi con al centro unicamente il corpo del Signore, e non quello di qualcuno di noi […] proclama di non poter fare più di questo. Confessa che nessuna delle sue parole può sostituire quelle che il Signore rivolge; […] che non può essere sostituita da nessun commento o imitazione […]. L’inoperosità di questo fare (actuosa partecipatio) edifica la Chiesa perché la lega alla consegna ricevuta e fa sì che lo spazio del nostro vivere sia allargato e rallegrato dalla vitalità dello Spirito» (25).

 


6.Conclusione

Il discernimento che la Chiesa si propone nel prossimo Sinodo circa la sua passione per il Vangelo di Cristo, oltre a rinnovare la sua fede nell’azione dello Spirito vero regista dell’azione evangelizzatrice, porta all’autoverifica anche del suo essere e del suo vivere e chiama in causa la declinazione concreta che assumono nel presente gli strumenti di cui essa dispone per generare alla fede e le sfide odierne con cui questi si misurano (26). Ciascuno di questi strumenti o linguaggi della fede, però, merita di essere verificato a partire dalla sua natura e dalla sua finalità. La peculiarità del linguaggio liturgico che pretende di qualificarsi per la sua originalità nel formare, ossia nel “dare la forma” di Cristo, va verificato a partire dalla sua identità non assimilabile a nessun’altra. Originalità però non vuol dire primazia o assolutezza. Ogni azione della Chiesa infatti non può essere considerata a se stante, ma dentro una visione pastorale unitaria ed integrata che vede ciascuna di esse non prima o sopra le altre, ma in stretta collaborazione, in necessaria sinergia per una più efficace alleanza educativa.

 

originale: Rivista di Scienze dell'Educazione, 2012/1
http://www.pfse-auxilium.org/pdf/rse/meneghetti_01-12.pdf?PUBRIVISTA_ID=1077


NOTE

1 Cf PAOLO VI, Lettera enciclica su quali vie la Chiesa cattolica debba oggi adempiere il suo mandato: Ecclesiam suam n. 66 (6 agosto 1964), in Enchiridion Vaticanum (EV)/2, Bologna, Dehoniane 197610, 209.

2 SINODO DEI VESCOVI. XIII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, La nuova evangelizzazione per la trasmissione
della fede cristiana. Lineamenta n.3, in http://www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc_synod_doc_20110202_lineamenta-
xiii-assembly_it.html. (13-01-2012).

3 Cf PAOLO VI, Esortazione apostolica sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo: Evangelii
nuntiandi nn. 17, 21, 48-58 (8 dicembre 1975), in EV/5 (1977) 1609, 1613, 1643-1667.

4 Ivi n. 14, in EV/5, 1601.

5 Cf Prefazione ai Lineamenta.

6 Lineamenta n.1.

7 Cf Ivi n. 2.

8 Ivi n. 3.

9 Ivi n.4.

10 Premessa alle domande dopo il terzo capitolo dei Lineamenta.

11 Lineamenta n.11; cf anche il n.13.

12 TOMATIS Paolo, La liturgia, forma fidei – forma vitae: un’obbedienza feconda, in Rivista Liturgica
98(2011)2, 231-244, specie 238.

13 Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia: Sacrosanctum Concilium n. 48 (4 –XII-1963),in EV/1 (19708) 84.

14 Cf BUSANI Giuseppe, La risorsa educativa della liturgia. Ordo communionis, in Rivista Liturgica,
98(2011)2, 255-270, specie 264.

15 Cf BONACCORSO Giorgio, L’alleanza tra Dio e l’uomo nei gesti del culto, in ID., Il rito e l’Altro.
La liturgia come tempo, linguaggio ed azione, Roma, LEV 2001, 147-165.

16 Lineamenta n. 14.

17 Cf BONACCORSO Giorgio, Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Assisi, Cittadella Ed., 2006.

18 «L’oggetto è ciò che sta di fronte al soggetto pensante, ossia è una modalità noetica della realtà. Ora, ciò che è assolutamente insopportabile nella sfera religiosa, e in particolare nella fede cristiana, è esattamente l’operazione
con cui si riduce Dio ad oggetto, ossia a ciò che sta di fronte al pensiero. La condizione della fede […] non è di credere in Dio, non è di credere ad un oggetto, ma è di stargli dentro, è […] il partecipare (essere parte) della sua
vita». (ID., La dinamica della celebrazione, linguaggio e genere letterario, in Notiziario Ufficio Liturgico Nazionale 30[2008]5, 19-26, specie 23).

19 Cf BONACCORSO Giorgio, La forza simbolizzante della liturgia, in Rivista Liturgica 98(2011)2, 245-254.

20 Cf BONACCORSO Giorgio, Il silenzio come sospensione dell’espressività: oltre il gesto e l’azione, in ID., Il Tempo come segno: vigilanza, testimonianza, silenzio, Bologna, Dehoniane 2004, 98-106.

21 Cf TAGLIAFERRI Roberto, La tazza rotta. Il rito: risorsa dimenticata dell’umanità, Padova, Messaggero 2009, 303-316.

22 Cf Lineamenta n.18.

23 TOMATIS, La Liturgia 235-236.

24 REPOLE Roberto, Di fronte alle sfide educative: pastorale e gesti della fede. Lettura in prospettiva
liturgica degli Orientamenti pastorali, in Rivista Liturgica 98(2011)2, 216-230, specie 224.

25 RIVA Franco - SEQUERI Pierangelo, Segni della destinazione, Assisi, Cittadella 2009, 427.

26 Cf Lineamenta n. 4.

 

(30/05/2012)

di di sr. Antonella Meneghetti fma *