Il primato del culto di Dio come fondamento di ogni vera teologia pastorale

* Vescovo ausiliare di Karaganda (Kazakhistan)

 

 

 

 

 

 

I. Il fondamento teologico della teologia pastorale

Per parlare correttamente della teoria e della prassi pastorale è necessario prima essere consapevole del loro fondamento e del loro scopo teologico. Lo scopo della Chiesa è lo stesso scopo dell’Incarnazione: “propter nostram salutem”. Così la fede e la preghiera della Chiesa s’esprime: “Qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de caelis et incarnatus est et homo factus est”. Questa salvezza significa la salvezza dell’anima per la vita eterna. In ciò consiste anche la finalità di tutto l’ordinamento giuridico e pastorale della Chiesa, come ci dice l’ultimo canone del Codice del Diritto Canonico: “prae oculis habita salute animarum, quae in Ecclesia suprema semper lex esse debet” (can. 1752).

Il contenuto della salvezza dell’anima umana consiste nella santità, nel rinnovo e anzi nella perfezione dell’originaria dignità umana in Cristo. Dio ha creato l’uomo secondo Sua immagine e Sua somiglianza (cfr. Gen 1, 26) e quest’opera è mirabile, come dice la Chiesa nella liturgia: “Deus, qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter condidisti”. Ma ancora più mirabile è il rinnovo e il perfezionamento di questa immagine avvenuto per l’opera della redenzione: “mirabilius reformasti”. Il rinnovo, la perfezione nuova, la santità consiste nell’inimmaginabile grazia della partecipazione dell’uomo alla natura Divina stessa: “Divinitatis esse consortes”. Questa partecipazione alla natura divina significa essere figli addottivi di Dio, essere figli nell’Unico Figlio, Gesù Cristo.

Gesù Cristo, l’unico Figlio di Dio secondo la natura, si è fatto per Sua vera Incarnazione il primogenito tra molti fratelli: “primogenitus in multis fratribus” (Rm 8, 29). Per mezzo del Suo sacrificio redentore Cristo offre all’uomo la grazia della vita Divina. La stessa vita Divina nel mistero della Santissima Trinità è presente nell’umanità del Figlio di Dio: “in Ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter”, in Lui tutta la divinità abita corporalmente (Col 2, 9). Cristo incarnato è pieno di grazia e di verità (cfr. Gv 1, 14). Lo Spirito Santo distribuisce da questa fonte di vita Divina per mezzo della Chiesa, che è il Corpo Mistico di Cristo, nella liturgia dei sacramenti, la grazia della filiazione Divina e tutte le altre grazie di santità necessarie. Così si può meglio capire ciò che ha insegnato il Concilio Vaticano II: “Liturgia est culmen ad quod actio Ecclesiae tendit et simul fons unde omnis eius virtus emanat” (Sacrosanctum Concilium, n. 10). “La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore” (Sacrosanctum Concilium, n. 10).


II. Un vademecum pastorale del Concilio Vaticano II

Nel contesto del discorso circa il primato del culto e dell’adorazione che si devono rendere a Dio, il Concilio ci presenta nella Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium una solida sintesi di una sana e teologicamente valida teologia pastorale, una sorta di vademecum pastorale con le seguenti sette caratteristiche: “la Chiesa annunzia il messaggio della salvezza a coloro che ancora non credono, affinché tutti gli uomini conoscano l'unico vero Dio e il suo inviato, Gesù Cristo, e cambino la loro condotta facendo penitenza [cfr. Gv 17, 3; Lc 24, 17; At 2, 38]. Ai credenti poi essa ha sempre il dovere di predicare la fede e la penitenza; deve inoltre disporli ai sacramenti, insegnar loro ad osservare tutto ciò che Cristo ha comandato [cfr. Mt 28, 20], ed incitarli a tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato, per manifestare attraverso queste opere che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, sono tuttavia la luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini” (ibid., 9).

Da questa breve sintesi fornitaci dal Concilio possiamo stabilire le seguenti sette note essenziali di teoria e prassi pastorale.

 

1.Il dovere di annunciare il Vangelo a tutti i non credenti (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

Tale annuncio deve essere esplicito, cioè la fede in Gesù Cristo alla quale si arriva per mezzo della grazia della conversione e della penitenza. Quindi non vi è spazio per una teoria e una prassi di cosiddetto “cristianesimo anonimo”; non c’è nessuna ammissione di vie di salvezza alternative alla via di Cristo: Cristo è l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini. Questo è ciò che il Concilio insegna nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, dicendo: “questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza” (n. 14). Al punto n. 8 di questa stessa costituzione dogmatica, il Concilio dice: “Unicus Mediator Christus” (cfr. anche ibid., n. 28). Gli uomini salvati nell’eternità lo sono per l’accettazione nella loro vita terrena dei meriti dell’unico Mediatore Gesù Cristo (cfr. ibid., n. 49). Il Concilio Vaticano II istruisce riportando la seguente citazione del Concilio Tridentino: “per Filium eius Iesum Christum, Dominum nostrum, qui solus noster Redemptor et Salvator est” (ibid., n. 50). Nella Dichiarazione sulla libertà religiosa il Concilio insegna che ogni uomo è redento da Cristo Salvatore ed è chiamato alla filiazione Divina che può ricevere soltanto per mezzo della grazia della fede (cfr. Dignitatis humanae, n. 10).

Papa Paolo VI nel suo discorso per l’apertura della seconda sessione del Concilio nell’anno 1963 così insegnava: “Gesù Cristo è l’unico e il sommo Maestro e Pastore, e l’unico Mediatore fra Dio e gli uomini” (Sacrosanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II. Constitutiones, Decreta, Declarationes, Città del Vaticano 1966, p. 905). Lo stesso Papa ripeteva al Concilio l’anno seguente: “Gesù Cristo è l’unico Mediatore e Redentore” (ibd., p. 989). L’insegnamento del Concilio così prosegue: “E poiché chi non crede è già condannato, è evidente che le parole di Cristo sono insieme parole di condanna e di grazia, di morte e di vita” (Ad gentes, n. 8). L’attività missionaria è un sacro dovere della Chiesa, poiché è la volontà di Dio stesso che ribadisce la necessità della fede in Cristo e del battesimo per la salvezza eterna (cf. ibid., n. 7).

 

2.Il dovere di predicare ai fedeli la fede (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

Il compito primario della Chiesa consiste nel preoccuparsi che la fede dei fedeli cresca e sia protetta dal pericolo dell’errore: ciò significa quindi prendersi cura della purezza, della completezza e della vitalità della fede. Già nel discorso per l’apertura del Concilio Vaticano II il Beato Papa Giovanni XXIII dichiarava inequivocabilmente, in un modo ancora più efficace, come il principale dovere del Concilio fosse la protezione e la promozione della dottrina della fede: “ut sacrum christianae doctrinae depositum efficaciore ratione custodiatur atque proponatur” (loc. cit., p. 861). Il Beato Pontefice prosegue sostenendo come, nell’esercizio di questo suo dovere nel nostro tempo, la Chiesa non debba mai distogliere i propri occhi dal sacro patrimonio della verità, ricevuto dalla Tradizione. Il Concilio deve trasmettere la dottrina cattolica integra, senza diminuirla e senza distorcerla: “integram, non imminutam, non detortam tradere vult doctrinam catholicam”. Papa Giovanni molto realisticamente osserva come ciò non sia a tutti gradito. E’ quindi necessario, dice il Papa, che l’intera dottrina cristiana sia accolta nei nostri giorni da parte di tutti, e ciò senza tralasciare alcuna sua parte: “oportet ut universa doctrina christiana, nulla parte inde detracta, his temporibus nostris ob omnibus accipiatur” (ibd., 864).

Nell’accettare e promuovere l’intera dottrina della fede deve essere seguito un modo accurato quanto alla forma e ai concetti, e ciò sull’esempio del Concilio di Trento e del Concilio Vaticano I, secondo quanto ribadisce Papa Giovanni XXIII. Nella Dichiarazione sulla libertà religiosa il Concilio ammonisce i fedeli perché “s'adoperino a diffondere la luce della vita con ogni fiducia e con fortezza apostolica, fino all'effusione del sangue” (Dignitatis humanae, n. 14). Inoltre essi hanno “il dovere grave di conoscere pienamente la verità rivelata, di annunciarla fedelmente e di difenderla con fierezza” (ibd.). Nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, il Concilio esorta: “Amore e amabilità non devono in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi è l'amore stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la verità che salva” (n. 28). Papa Paolo VI nel discorso per l’apertura della seconda sessione del Concilio Vaticano II affermava: “Il fondamento del rinnovamento della Chiesa deve essere uno studio più impegnativo ed una promozione più ricca della verità Divina” (cfr. loc. cit., p. 913).

Nel Decreto sull’apostolato dei fedeli laici il Concilio si esprime in questi termini: “In questo nostro tempo si diffondono gravissimi errori che cercano di abbattere dalle fondamenta la religione, l'ordine morale e la stessa società umana” (Apostolicam actuositatem, n. 6). Nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes il Concilio costatava come già a quel tempo si divulgassero gravi errori morali ed esortava tutti i cristiani a difendere e promuovere la dignità naturale e l'altissimo valore sacro dello stato matrimoniale (cfr. n. 47). Il Concilio nello stesso documento riprova i costumi immorali in relazione al matrimonio e alla virtù della castità, dicendo che la dignità del matrimonio e della famiglia “è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni. Per di più l'amore coniugale è molto spesso profanato dall'egoismo, dall'edonismo e da pratiche illecite contro la fecondità. Inoltre le odierne condizioni economiche, socio-psicologiche e civili portano turbamenti non lievi nella vita familiare” (ibid.). Il Concilio dà un insegnamento inequivocabile sulla castità matrimoniale: “I figli della Chiesa nel regolare la procreazione non potranno seguire strade che sono condannate dal Magistero nella spiegazione della legge divina (cfr. Pio XI, Casti Connubii). Del resto, tutti sappiamo che la vita dell'uomo e il compito di trasmetterla non sono limitati agli orizzonti di questo mondo e non vi trovano né la loro piena dimensione, né il loro pieno senso, ma riguardano il destino eterno degli uomini” (ibid., n. 51).

Nel Decreto sull’attività missionaria il Concilio esorta perché sia esclusa ogni forma di indifferentismo, di sincretismo, di confusionismo (Ad Gentes, n. 15). Nella costituzione Gaudium et Spes il Concilio rigetta un umanesimo puramente terrestre e antireligioso (cfr. n. 56). Lo stesso documento conciliare parla di un umanesimo ateista che non soltanto minaccia la fede, ma persino esercita un’influenza negativa e globalizzante su tutte le sfere della vita sociale: “Moltitudini crescenti praticamente si staccano dalla religione. A differenza dei tempi passati, negare Dio o la religione o farne praticamente a meno, non è più un fatto insolito e individuale. Oggi infatti non raramente un tale comportamento viene presentato come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di umanesimo. Tutto questo in molti paesi non si manifesta solo a livello filosofico, ma invade in misura notevolissima il campo delle lettere, delle arti, dell'interpretazione delle scienze umane e della storia, anzi la stessa legislazione: di qui il disorientamento di molti” (ibid., n. 7).

Papa Paolo VI nella sua omelia in occasione dell’ultima sessione pubblica del Concilio Vaticano II afferma che il Concilio propone agli uomini del nostro tempo una dottrina teocentrica e teologica sulla natura umana e sul mondo (cfr. loc. cit., pp. 1064-1065). Nell’omelia tenuta nella settima sessione pubblica del Concilio Vaticano II, il 28 ottobre 1965, Papa Paolo VI spiega che, nonostante la generale indole pastorale del Concilio, esso intende proporre la perenne ed autentica dottrina della Chiesa, escludendo il relativismo dottrinale; il Concilio compie un’opera “che non storicizza, non relativizza alle metamorfosi della cultura profana la natura della Chiesa sempre eguale e fedele a se stessa, quale Cristo la volle e la autentica tradizione la perfezionò, ma la rende meglio idonea a svolgere nelle rinnovate condizioni dell’umana società la sua benefica missione” (loc. cit., pp. 1039-1040).

Nel discorso tenuto il medesimo anno 1965, in occasione dell’ottava sessione pubblica del Concilio, Papa Paolo VI critica il comportamento di coloro i quali interpretano scorrettamente e abusivamente l’intenzione del Beato Papa Giovanni XXIII circa l’adattamento pastorale della Chiesa alle nuove necessità del nostro tempo (“l’aggiornamento”). Inoltre il Papa propone lo spirito del Concilio a questo riguardo e mette tutti in guardia contro il relativismo dottrinale e giuridico, affermando che Papa Giovanni XXIII “a questa programmatica parola non voleva certamente attribuire il significato che qualcuno tenta di darle, quasi essa consenta di «relativizzare» secondo lo spirito del mondo ogni cosa nella Chiesa, dogmi, leggi, strutture, tradizioni, mentre fu così vivo e fermo in lui il senso della stabilità dottrinale e strutturale della Chiesa da farne cardine del suo pensiero e della sua opera. Aggiornamento vorrà dire d’ora innanzi per noi penetrazione sapiente dello spirito del celebrato Concilio e applicazione fedele delle sue norme, felicemente e santamente emanate” (loc. cit., pp. 1053-1054). Nel testo originale latino Paolo VI non usa la parola “aggiornamento”, ma la parola “accomodatio”. La famosa espressione “aggiornamento” del Beato Giovanni XXIII è divenuta ormai leggendaria. Nella sua intenzione originale questa espressione non ha nulla a che vedere con un relativismo dottrinale, giuridico o liturgico.

Il nuovo e benevolo atteggiamento pastorale di paziente comprensione e di dialogo con la società fuori della Chiesa, non comporta un relativismo dottrinale. Papa Paolo VI difende il Concilio da una tale possibile accusa nella citata omelia durante la settima sessione pubblica: “Questo atteggiamento... è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo. Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni” (loc. cit., p. 1067). Paolo VI difende qui soltanto le vere e profonde intenzioni e le autentiche manifestazioni del Concilio, non entrando nel merito delle persone.

Il Concilio rigetta espressamente ogni tipo di sincretismo religioso nell’attività missionaria ed esige che le tradizioni particolari dei popoli vengano illuminate dalla luce del Vangelo, lasciando intatto il primato della cattedra di Pietro (cfr. Ad Gentes, n. 22).

 

3.Il dovere di predicare ai fedeli la penitenza (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

Non si può parlare di una vera dottrina e prassi pastorale senza l’elemento essenziale della penitenza nella vita della Chiesa e dei fedeli. Ogni vero rinnovamento della Chiesa nella storia si effettuava con lo spirito e la prassi della penitenza cristiana. Nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium n. 8, si afferma che la Chiesa deve avanzare continuamente sul cammino della penitenza e del rinnovamento. Poi si dice che i fedeli devono vincere in se stessi il regno del peccato con l'abnegazione di sé e con la vita santa (cfr. ibid., n. 36). Nell’attività missionaria i figli della Chiesa non devono arrossire dello scandalo della croce (cfr. Ad Gentes, n. 24).

Si può capire meglio il vero spirito di questi insegnamenti conciliari circa la necessità della penitenza se si considera il fatto che, in vista dell’imminente apertura del Concilio, il Beato Papa Giovanni XXIII il 1 luglio 1962, festa del Preziosissimo Sangue, dedicò una propria Enciclica sulla necessità della penitenza dal titolo “Paenitentiam agere”. Si trattava di un pressante invito al mondo cattolico ed un’esortazione ad una più intensa preghiera ed ad una penitenza propiziatrice di Grazie sul concilio imminente. Il Papa indicava il pensiero e la prassi della Chiesa come pure l’esempio dei precedenti concili, ribadendo la necessità della penitenza interna ed esterna come cooperazione alla divina redenzione. Concretamente Papa Giovanni XXIII raccomandava nelle singole diocesi una funzione penitenziale propiziatoria, spiegando come “con le opere di misericordia e di penitenza tutti i fedeli cerchino di propiziare Dio onnipotente e di implorare da lui quel vero rinnovamento dello spirito cristiano, che è uno degli scopi precipui del concilio” (n. II, 2). Il Papa prosegue dicendo: “Infatti, giustamente osservava il Nostro predecessore Pio XI di venerata memoria: «La preghiera e la penitenza sono i due mezzi messi a disposizione da Dio nella nostra età per ricondurre ad Esso la misera umanità qua e là errante senza guida; sono essi che tolgono via e riparano la causa prima e principale di ogni sconvolgimento, cioè la ribellione dell'uomo a Dio» (Litt. enc. Caritate Christi compulsi)” (ibd.). Giovanni XXIII rivolgeva la seguente ardente esortazione ai vescovi: “Venerabili fratelli, adoperatevi senza indugio con ogni mezzo che è in vostro potere, affinché i cristiani affidati alle vostre cure purifichino il loro spirito con la penitenza e si accendano a maggior fervore di pietà” (n. II, 3).

Lo spirito di penitenza e di espiazione deve sempre animare ogni vero rinnovamento della Chiesa, quale Papa Giovanni XXIII auspicava che venisse prodotto dal Concilio Vaticano II. Questo atteggiamento protegge la Chiesa dallo spirito di attivismo terreno. Così il Papa insegnava nella fine della sua enciclica: ”Tutto il popolo cristiano, in ossequio alla Nostra esortazione, dedicandosi più intensamente alla preghiera e alla pratica della mortificazione, offrirà un mirabile e commovente spettacolo di quello spirito di fede, che deve animare indistintamente ogni figlio della Chiesa. Ciò non mancherà di scuotere salutarmente anche l'animo di coloro che, eccessivamente preoccupati e distratti dalle cose terrene, si sono lasciati andare alla trascuranza dei loro doveri religiosi” (ibid.). Nelle seguenti parole si può cogliere quel vero spirito che animava il papa del Concilio e certamente la pars maior et sanior dei Padri Conciliari: “Bisogna che i cristiani reagiscano con la fortezza dei martiri e dei santi, che sempre hanno illustrato la chiesa cattolica. In tal modo tutti potranno contribuire, secondo il loro stato particolare, alla migliore riuscita del Concilio Ecumenico Vaticano II, che deve appunto portare a un rifiorimento della vita cristiana” (ibid., n. II, 2).

 

4.Il dovere di disporre i fedeli ai sacramenti (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

Il Concilio nella costituzione dogmatica Lumen Gentium insegna che i sacramenti sono i mezzi principali per mezzo dei quali tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore alla perfezione della santità (cfr. n. 11). Il fine principale dei sacramenti consiste, secondo la Sacrosanctum Concilium n. 59, nella santificazione degli uomini, nell’edificazione del Corpo Mistico di Cristo e nel culto che si rende a Dio. Raramente durante la storia della Chiesa il Magistero supremo ha tanto insistito sull’importanza e sulla centralità della sacra liturgia, e particolarmente del Sacrificio Eucaristico, come ha invece fatto il Concilio Vaticano II. Il fatto che il primo documento del Concilio ad essere discusso ed approvato fosse dedicato alla liturgia, cioè al culto Divino, è significativo e manifesta questo chiaro messaggio del primato di Dio: Dio e il culto d’adorazione che la Chiesa rende a Lui, devono occupare il primo posto in tutta la vita e attività della Chiesa. La Sacrosanctum Concilium ci insegna: “Sacra Liturgia est precipue cultus divinae maiestatis” (n. 33), e per questo il culto della maestà divina deve essere il culmine di tutta l’attività della Chiesa: “Liturgia est culmen ad quod actio Ecclesiae tendit et simul fons unde omnis eius virus emanat” (n. 10).

La sacra liturgia è primariamente e necessariamente la vera fonte dello spirito cristiano, dice il decreto sulla formazione sacerdotale (cfr. Optatam Totius, n. 16). La finalità di tutti i sacramenti si trova a sua volta nel mistero eucaristico, sostiene il Decreto sul ministero e la vita dei sacerdoti citando san Tommaso d’Aquino: “Eucharistia est omnium sacramentorum finis” (Summa theol. III, q. 73, a.3 c) e aggiunge: “In Sanctissima enim Eucharistia totum bonum spirituale Ecclesiae continetur” (cfr. S. Thomas, Summa theol., III, q. 65, a. 3, ad 1), (cfr. Presbyterorum Ordinis, n. 5). Dice ancora lo stesso documento che l’Eucaristia è la fonte e il culmine di tutta l’evangelizzazione, quindi a maggior ragione l’Eucaristia è la fonte ed il culmine di tutta la vita pastorale della Chiesa. Nella Sacrosanctum Concilium troviamo questa sintesi: “Particolarmente dall’Eucaristia deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e quella glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa” (n. 10).

 

5.Il dovere di insegnare ai fedeli tutti i comandamenti di Dio (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

Un altro elemento dell’attività pastorale è questo: “la Chiesa deve insegnare ai fedeli tutto ciò che Cristo ha comandato” (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9). I Pastori della Chiesa hanno quindi il dovere di insegnare le leggi ed i comandamenti Divini in tutta loro integrità. Nella Dichiarazione sulla libertà religiosa il Concilio afferma: “la legge divina, che è eterna, oggettiva e universale, è la norma suprema della vita umana e deve ordinare, dirigere e governare tutte le vie della comunità umana” (cf. Dignitatis Humanae, n. 3). La Costituzione pastorale Gaudium et Spes sostiene: “L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato” (cfr. n. 16). Lo stesso documento pastorale afferma: “i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia conforme alla legge divina stessa; e siano docili al magistero della Chiesa, che interpreta in modo autentico quella legge alla luce del Vangelo” (cf. Gaudium et Spes, n. 50).

Il Concilio prosegue affermando: “la dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo” (cfr. ibid., n. 43). Tale errore è divenuto ancora più manifesto negli ultimi anni in cui si osserva il fenomeno di persone che pur professandosi cattoliche, nello stesso tempo appoggiano leggi contrarie alle legge naturale e alla legge Divina e contraddicono apertamente il Magistero della Chiesa. Come risuonano attuali queste parole del Concilio: “Non si crei perciò un'opposizione artificiale tra le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall'altra” (Gaudium et Spes, n. 43). La vita morale, domestica, professionale, scientifica, sociale deve essere guidata dalla fede e in tal modo ordinata alla gloria di Dio (cfr. ibd.). Costatiamo di nuovo in questi insegnamenti del Concilio l’importanza del primato della volontà di Dio e della Sua gloria nella vita di ogni fedele e di tutta la Chiesa. Il Concilio afferma questo non soltanto in un documento sulla liturgia, ma nel documento pastorale per eccellenza: la Costituzione pastorale “Gaudium et Spes”.

 

6.Il dovere di promuovere l’apostolato dei fedeli laici (cfr. Sacrosanctum Concilium, n.9)

Un altro punto essenziale della vita pastorale è questo: “la Chiesa deve incitare i fedeli a tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato” (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9). In questo punto risiede il gran contributo storico del Concilio Vaticano II alla valorizzazione della dignità e del ruolo specifico dei fedeli laici nella vita e nell’attività della Chiesa. Si può dire che esso è uno sviluppo organico ed un coronamento del magistero di Papa Pio XI circa la questione dei fedeli laici. La Costituzione dogmatica Lumen Gentium ci presenta una formidabile sintesi sulla questione dei fedeli laici nella Chiesa e nel mondo con un solido fondamento teologico ed una chiara indicazione pastorale, dicendo: “Inoltre i laici risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo. Per l'economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere tra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della società umana. Cerchino di metterli in armonia fra loro, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al comando di Dio. Nel nostro tempo è sommamente necessario che questa distinzione e questa armonia risplendano nel modo più chiaro possibile nella maniera di agire dei fedeli, affinché la missione della Chiesa possa più pienamente rispondere alle particolari condizioni del mondo moderno. Come infatti si deve riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi, così a ragione è rigettata l’infausta dottrina che pretende di costruire la società senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed elimina la libertà religiosa dei cittadini” (n. 36).

Qui il Concilio condanna il laicismo, senza utilizzare la parola, citando Leone XIII (Encicl. Immortale Dei, 1° nov. 1885: ASS 18 (1885), pp. 166ss. Idem, Encicl. Sapientiae Christianae, 10 genn. 1890: ASS 22 (1889-90), pp. 397ss. Pio XII, Disc. Alla vostra filiale, 23 marzo 1958: AAS 50 (1958), p. 220), diceva che: “la legittima sana laicità dello Stato è uno dei principi della dottrina cattolica” (ibid.). Il Papa continuava, dicendo: “la vita dei singoli, la vita delle famiglie, la vita delle grandi e piccole collettività, sarà alimentata dalla dottrina di Gesù Cristo, che è amore di Dio e, in Dio, amore del prossimo”. Questa dottrina trova negli elementi essenziali un’eco chiara sia nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa sia nella Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II.

Sulla vocazione propria dei laici il Concilio dice: “è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (Lumen Gentium, n. 31). Nel decreto sull’apostolato dei laici il Concilio parla dell’idolatria delle cose temporali a causa di un'eccessiva fiducia nel progresso delle scienze naturali e della tecnica (cf. Apostolicam Actuositatem, n. 7). Il Concilio prosegue affermando che la vita matrimoniale e familiare è l'esercizio e la scuola per eccellenza dell’apostolato dei laici (Lumen Gentium, n. 35). Infatti, la vita matrimoniale e familiare è il luogo, dove la religione cristiana permea tutta l'organizzazione della vita e ogni giorno più la trasforma. La famiglia cristiana proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e la speranza della vita beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina quelli che cercano la verità (ibd.). Possiamo costatare oggi, come attuale è questa espressione del Concilio: la famiglia cristiana e cattolica è una viva accusa del mondo, accusando il mondo di peccato.

La forma peculiare dell’apostolato dei laici consiste nella testimonianza della vita di fede, di speranza e di carità: si esclude quindi un apostolato di attivismo e di interessi terreni. Possiamo individuare nel decreto sui laici un breve vademecum dell’apostolo laico, dove il Concilio insegna che la forma interna dell’apostolo laico deve essere la conformazione al Cristo sofferente e che la finalità del suo apostolato è la salvezza eterna degli uomini nel mondo. Il Concilio dice: “Si ricordino tutti che, con il culto pubblico e la preghiera, con la penitenza e la spontanea accettazione delle fatiche e delle pene della vita, con cui si conformano a Cristo sofferente (cfr. 2 Cor 4,10; Col 1,24), essi possono raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla salvezza di tutto il mondo” (Apostolicam Actuositatem, n. 16). Spesso l’apostolo laico a causa della sua fedeltà a Cristo, mette in pericolo persino la sua vita, dice il Concilio (cfr. ibd., n.17).

 

7.Il dovere di promuovere la vocazione di tutti alla santità (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

L’ultima nota essenziale dell’attività pastorale della Chiesa consiste nel promuovere la vocazione di tutti alla santità, dicendo che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, devono essere tuttavia la luce del mondo (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9). Più specificamente il Concilio tratta questo tema nel capitolo quinto della Costituzione dogmatica Lumen Gentium, nn. 39 – 42: “De universali vocatione ad sanctitatem in Ecclesia”. In ciò si può vedere il contributo veramente storico, più specifico e proprio del Concilio Vaticano II. La santità consiste in fondo nell’imitazione di Cristo, di Cristo povero e umile, di Cristo che porta la Croce, dice la Costituzione Lumen Gentium, n. 41. L’imitazione di Cristo attinge il suo culmine nel martirio, nella testimonianza coraggiosa di Cristo davanti agli uomini (cfr. ibid., n. 42). Il Concilio dice: “Tutti devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa” (ibid.).

 

III. L’autentica intenzione e finalità del Concilio Vaticano II

Per una corretta lettura dei testi del Concilio Vaticano II bisogna tener conto anche della caratteristica specifica del tempo in cui esso si è svolto. Nell’omelia di Papa Paolo VI, durante l’ultima congregazione generale del Concilio Vaticano II il 7 dicembre 1965, il Pontefice dà la seguente descrizione del periodo storico in cui si celebrava il Concilio Vaticano II: “Il tempo in cui esso si è compiuto, un tempo che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli, un tempo in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico, un tempo in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente, un tempo in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società, un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione, un tempo, infine, che registra anche nelle grandi religioni etniche del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate. In questo tempo si è celebrato il nostro Concilio a onore di Dio” (loc, cit., pp. 1063-1064).

Secondo un’espressione del Beato Papa Giovanni XXIII nel discorso tenuto in occasione dell’ultima congregazione generale della prima sessione del Concilio, il 7 dicembre 1962, l’unica finalità del Concilio e l’unica speranza e fiducia del Papa e dei Padri Conciliari consiste in questo: “Far conoscere sempre più agli uomini del nostro tempo il Vangelo di Cristo, farlo praticare di buon animo e farlo penetrare incisivamente in ogni aspetto della civiltà” (loc. cit., pp. 881-882). Può esistere un principio e un metodo pastorale più autentico e più cattolico di questo?

Nel discorso per la chiusura della prima sessione del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1962, Papa Giovanni XXIII così presentava la vera finalità del Concilio e i suoi desiderati frutti spirituali: “Perché la Santa Chiesa, ferma nella fede, rinsaldata nella speranza e più ardente nella carità, fiorisca di un nuovo e giovanile vigore, e, munita di leggi sacrosante, sia più efficiente e più risoluta nell’ampliare il Regno di Cristo” (Lettera autografa Ai Vescovi della Germania dell’11 gennaio 1962)... Allora il Regno di Cristo sulla terra sarà dilatato da una nuova crescita. Allora nel mondo risuonerà più alto e più soave il lieto annunzio dell’umana Redenzione, dal quale vengono confermati i supremi diritti di Dio Onnipotente, i vincoli di carità fraterna tra gli uomini, la pace che è stata promessa su questa terra agli uomini di buona volontà” (loc. cit., p. 891). Secondo l’intenzione e il desiderio del santo pontefice Giovanni XXIII il Concilio Vaticano II deve fortemente contribuire al seguente fine: “che nell’intera famiglia umana crescano abbondantissimi i frutti della fede, della speranza e della carità”. In questo consiste, secondo le parole di Giovanni XXIII, la singolare importanza e dignità del Concilio (cf. ibid.).

 

IV. La sfida d’interpretazioni contrastanti

Per un’interpretazione corretta è necessario tenere conto dell’intenzione manifestata negli stessi documenti conciliari e nelle parole specifiche dei Papi conciliari Giovanni XXIII e Paolo VI. Infine è necessario scoprire il filo conduttore di tutta l’opera del Concilio, che è la salus animarum, cioè l’intenzione pastorale. Questa, a sua volta, dipende ed è subordinata alla promozione del culto Divino e della gloria di Dio, cioè dipende dal primato di Dio. Questo primato di Dio nella vita ed in tutta l’attività della Chiesa è manifestato inequivocabilmente dal fatto che la costituzione sulla liturgia occupa intenzionalmente e cronologicamente il primo posto nella vasta opera del Concilio. Le sette note essenziali di una teoria e prassi pastorale si trovano esattamente nella costituzione che tratta del culto di Dio e della santificazione degli uomini, al n. 9 della Sacrosanctum Concilium, ed esse sono:
1.L’urgenza di predicare Cristo ai non credenti perché si convertano.
2.La cura massima circa la predicazione della dottrina della fede.
3.Il ruolo essenziale della penitenza nella vita della Chiesa.
4.I sacramenti come mezzi principali della salvezza e santificazione, dove l’Eucaristia occupa il posto centrale e culminante.
5.L’integrità della dottrina morale.
6.L’apostolato dei fedeli laici nella Chiesa e nella società umana.
7.La vocazione universale alla santità.
La caratteristica della rottura nell’interpretazione dei testi conciliari si manifesta in modo più stereotipato e diffuso nella tesi di una svolta antropocentrica, secolarizzante o naturalistica del Concilio Vaticano II riguardo alla tradizione ecclesiale precedente. Una delle manifestazioni più note di una tale interpretazione sbagliata è stata, p.e., la cosiddetta Teologia della Liberazione e la sua susseguente devastante prassi pastorale. Quale contrasto vi sia tra questa Teologia della Liberazione e la sua prassi ed il Concilio, appare evidente dal seguente insegnamento conciliare: “la missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d'ordine politico, economico o sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è d'ordine religioso” (cfr. Gaudium et Spes, 42). Dice poi lo stesso documento, che la natura e la missione della Chiesa non sono legate ad alcun particolare sistema politico, economico o sociale (cfr. ibid.). La Costituzione Gaudium et Spes cita le seguenti parole di Pio XII.: “Il suo Divino Fondatore, Gesù Cristo, non ha conferito alla Chiesa nessun mandato né fissato alcun fine d’ordine culturale. Lo scopo che il Cristo le assegna è strettamente religioso. La Chiesa deve condurre gli uomini a Dio, perché si donino a lui senza riserva. La Chiesa non può perdere mai di vista questo fine strettamente religioso, soprannaturale. Il senso di ogni sua attività, fino all’ultimo canone del suo Codice, non può che riferirsi ad esso direttamente o indirettamente” (Pio XII, Discorso a cultori di storia e di arte, 9 marzo 1956: AAS 48 (1956), p. 212).

Un’interpretazione di rottura di peso dottrinalmente più leggero si manifestava nel campo pastorale-liturgico. Si può menzionare a tal proposito il calo del carattere sacro e sublime della liturgia e l’introduzione di elementi gestuali più antropocentrici. Questo fenomeno si evidenzia in tre pratiche liturgiche assai note e diffuse nella quasi totalità delle parrocchie dell’orbe cattolico: la scomparsa quasi totale dell’uso della lingua latina, la ricezione del Corpo Eucaristico di Cristo direttamente sulla mano e in piedi e la celebrazione del Sacrificio Eucaristico nella modalità di un cerchio chiuso in cui sacerdote e popolo continuamente si guardano vicendevolmente in faccia. Questo modo di pregare, cioè il non essere rivolti tutti nella medesima direzione, che è un’espressione corporale e simbolica più naturale rispetto alla verità di essere tutti spiritualmente rivolti a Dio nel culto pubblico, contraddice la pratica che Gesù stesso e Suoi Apostoli hanno osservano nella preghiera pubblica sia nel tempio sia nella sinagoga. Contraddice inoltre la testimonianza unanime dei Padri e di tutta la tradizione posteriore della Chiesa orientale ed occidentale. Queste tre pratiche pastorali e liturgiche di clamorosa rottura con la legge della preghiera mantenuta dalle generazioni dei fedeli cattolici durante almeno un millennio, non trovano nessun appoggio nei testi conciliari, anzi piuttosto contraddicono sia un testo specifico del Concilio (sulla lingua latina cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 36 § 1; 54), sia la "mens", la vera intenzione dei Padri conciliari, come lo si può verificare nei Atti del Concilio.

Nel chiasso ermeneutico delle interpretazioni contrastanti e nella confusione d’applicazioni pastorali e liturgiche, appare come unico interprete autentico dei testi conciliari il Concilio stesso unitamente al Papa. Si potrebbe porre un’analogia con il clima ermeneutico confuso dei primi secoli della Chiesa, provocato da interpretazioni bibliche e dottrinali arbitrarie da parte di gruppi eteredossi. Nella sua famosa opera "De praescriptione haereticorum" Tertulliano poteva contrapporre agli eretici di diverso orientamento il fatto che solamente la Chiesa possiede la "praescriptio", cioè soltanto la Chiesa è la proprietaria legittima della fede, della parola di Dio e della tradizione. Con questo nelle dispute sulla vera interpretazione la Chiesa può respingere gli eretici "a limine fori". Soltanto la Chiesa può dire, secondo Tertuliano: “Ego sum heres Apostolorum” (Praescr., 37, 3). Parlando analogicamente, soltanto il Magistero supremo del Papa o di un possibile futuro Concilio Ecumenico potrà dire: “Ego sum heres Concilii Vaticani II”.

Nei decenni scorsi esistevano, e finora esistono, raggruppamenti all’interno della Chiesa che operano un enorme abuso del carattere pastorale del Concilio e dei suoi testi, scritti secondo questa intenzione pastorale, giacché il Concilio non voleva presentare propri insegnamenti definitivi o irreformabili. Dalla stessa natura pastorale dei testi del Concilio s’evidenzia che i suoi testi sono di principio aperti a completamenti ed ad ulteriori precisazioni dottrinali. Tenendo conto dell’ormai pluridecennale esperienza delle interpretazioni dottrinalmente e pastoralmente sbagliate e contrarie alla continuità bimillenaria della dottrina e della preghiera della fede, sorge la necessità e l’urgenza di un intervento specifico ed autorevole del Magistero pontificio per un’interpretazione autentica dei testi conciliari con completamenti e precisazioni dottrinali; una specie di "Syllabus errorum circa interpretationem Concilii Vaticani II". C’è bisogno di un nuovo Sillabo, questa volta diretto non tanto contro gli errori provenienti al di fuori dalla Chiesa, ma contro gli errori diffusi dentro della Chiesa da parte dei sostenitori della tesi della discontinuità e della rottura con sua applicazione dottrinale, liturgica e pastorale. Un tale Sillabo dovrebbe costare di due parti: la parte che segnala gli errori e la parte positiva con delle proposizioni di chiarimento, completamento e precisazione dottrinale.

S’evidenziano due raggruppamenti che sostengono la teoria della rottura. Uno di questo raggruppamento tenta di protestantizzare dottrinalmente, liturgicamente e pastoralmente la vita della Chiesa. Dal lato opposto ci sono quei gruppi tradizionalisti che, a nome della tradizione, rigettano il Concilio e si sottraggono alla sottomissione al supremo vivente Magistero della Chiesa, al visibile Capo della Chiesa, il Vicario di Cristo sulla terra, sottomettendosi per ora soltanto al Capo invisibile della Chiesa, aspettando dei tempi migliori.

Papa Paolo VI così spiegava durante il Concilio il significato del vero rinnovamento della Chiesa: “Noi pensiamo che su questa linea debba svilupparsi la psicologia nuova della Chiesa: clero e fedeli troveranno un magnifico lavoro spirituale da svolgere per il rinnovamento della vita e dell’azione secondo Cristo Signore; ed a questo lavoro Noi invitiamo i Nostri Fratelli ed i Nostri Figli: coloro che amano Cristo e la Chiesa siano con noi nel professare più chiaramente il senso della verità, proprio della tradizione dottrinale che Cristo e gli Apostoli inaugurarono; e con esso il senso della disciplina ecclesiastica e dell’unione profonda e cordiale, che tutti ci fa fidenti e solidali, come membra d’un medesimo corpo” (Paolo VI, Discorso nell’ottava sessione pubblica del Concilio Vaticano II, il 18 novembre 1965, loc. cit., p. 1054).

Papa Paolo VI, spiegando la mens del Concilio, affermava nel discorso durante l’ottava sessione pubblica: “Affinché tutti siano confortati in questo rinnovamento spirituale proponiamo alla Chiesa di ricordare piamente le parole e gli esempi degli ultimi due Nostri Predecessori, Pio XII e Giovanni XXIII, a cui la Chiesa medesima e il mondo tanto sono debitori; e disponiamo a tal fine che siano canonicamente iniziati i processi di beatificazione di quegli eccelsi e piissimi e a Noi carissimi Sommi Pontefici. Sarà così assecondato il desiderio, che per l’uno e per l’altro è stato in tal senso espresso da innumerevoli voci; sarà così assicurato alla storia il patrimonio della loro eredità spirituale; sarà evitato che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l’edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione e per quella dei secoli futuri” (Paolo VI, Allocuzione nell’ottava sessione pubblica del Concilio Vaticano II, 18 novembre 1965, loc. cit., p. 1054).

C’erano in sostanza due impedimenti perché la vera intenzione del Concilio e il suo magistero potessero portare abbondanti e durevoli frutti. L’uno si trovava fuori della Chiesa, nel violento processo di rivoluzione culturale e sociale degli anni ’60, che come ogni forte fenomeno sociale penetrava dentro la Chiesa contagiando con il suo spirito di rottura vasti ambiti di persone e d’istituzioni. L’altro impedimento si manifestava nella mancanza di sapienti e allo stesso tempo di intrepidi Pastori della Chiesa che fossero pronti a difendere la purezza e l’integrità della fede e della vita liturgica e pastorale, non lasciandosi influenzare né dalla lode né dal timore (“nec laudibus, nec timore”).

Già il Concilio di Trento affermava in uno dei suoi ultimi decreti sulla riforma generale della Chiesa: “il santo sinodo, scosso dai tanti gravissimi mali che travagliano la Chiesa, non può non ricordare che la cosa più necessaria alla Chiesa di Dio è ... scegliere pastori ottimi e idonei; a maggior ragione, in quanto il signore nostro Gesù Cristo chiederà conto del sangue di quelle pecore che dovessero perire a causa del cattivo governo di pastori negligenti e immemori del loro dovere” (Sessio XXIV, Decretum de reformatione, can. 1). Il Concilio prosegue: “Quanto a tutti coloro che per qualunque ragione hanno da parte della Santa Sede qualche diritto per intervenire nella promozione dei futuri prelati o a quelli che vi prendono parte in altro modo... il santo Concilio li esorta e li ammonisce perché si ricordino anzitutto che essi non possono fare nulla di più utile per la gloria di Dio e la salvezza dei popoli, che impegnarsi a scegliere pastori buoni e idonei a governare la Chiesa” (ibid.).

C’è dunque davvero bisogno di un Sillabo conciliare con valore dottrinale ed inoltre c’è il bisogno dell’aumento del numero di Pastori santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa, privi di ogni specie di mentalità di rottura sia in campo dottrinale, sia in campo liturgico. Infatti, questi due elementi costituiscono l’indispensabile condizione affinché la confusione dottrinale, liturgica e pastorale diminuisca notevolmente e l’opera pastorale del Concilio Vaticano II possa portare molti e durevoli frutti nello spirito della tradizione, che ci collega con lo spirito che regnava in ogni tempo, dappertutto ed in tutti veri figli della Chiesa cattolica, che è l’unica e la vera Chiesa di Dio sulla terra.

Roma, 17 dicembre 2010

 

"Concilio Ecumenico Vaticano II. Un Concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica". Convegno di studi sul Concilio Vaticano II per una sua giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa, organizzato dal Seminario Teologico "Immacolata Mediatrice" dei Francescani dell'Immacolata.

Istituto Maria SS. Bambina, via Paolo VI 21, Roma, 16-18 dicembre 2010.

fonte: http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2011/01/convegno-sul-vaticano-ii-proposte-per.html

 

(14/04/2012)

di di Mons. Athanasius Schneider *