Nella tormentata atmosfera del cinquantennio postconciliare, qualche sprazzo di luce ogni tanto s’è fatto vedere, se pur sempre accompagnato da inevitabili zone d’ombra. Era la luce accesa già dal grande Pontefice Pio XII, quando, per rimetter in sesto lo sbilanciato movimento liturgico che stava uscendo dal suo binario, promulgò l’enciclica “Mediator Dei” (20 nov. 1947) [1]. Lo sbilanciamento principale, accanto ad altri di non secondaria pericolosità, si moveva in direzione del c. d. sacerdozio comune o universale. Guarda caso, ha continuato a muoversi nella medesima direzione in tutto il predetto cinquantennio. Pio XII aveva chiaramente indicato i limiti d’un sacerdozio che è, sì, di tutt’i battezzati, non però tale da neutralizzar il sacerdozio ministeriale, come se Cristo nell’ultima Cena avesse concesso a tutt’i suoi seguaci, indistintamente, il proprio “munus” sacerdotale [2]. Poco dopo, lo stesso Vaticano II confermò tanto la dottrina del sacerdozio comune [3], quanto quella del sacerdozio ministeriale[4] e dichiarò d’ambedue l’ordinazione reciproca avendo parte l’uno e l’altro “all’unico sacerdozio di Cristo”. Tuttavia si premurò di stabilir inconfondibilmente che “il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale o gerarchico […] differiscono essenzialmente e non solo di grado” [5].
Non si può dire che una tale disposizione sia stata recepita con grande entusiasmo ed altrettanta fedeltà. Si è arrivati al limite d’un clericalismo paradossale, ribaltato, ovvero laicale, con tutt’i difetti, e talvolta anche più pronunciati, di quello dei preti. Ricordo con quanta convinta fermezza la superiora d’un monastero della Foresta Nera, dov’ero ospite negli anni immediatamente postconciliari, ad una mia osservazione rispose: “Sì, però noi tutte concelebriamo (mitfeiern)”. Lo sbilanciamento non è venuto meno col passare degli anni, anche in conseguenza del rarefarsi delle ordinazioni presbiterali e d’una presa di coscienza, oltre che d’una sempre più massiccia presenza in ambito ecclesiale da parte del mondo laicale.
Ho accennato a zone d’ombra: quella del sacerdozio comune non è l’unica, altre essendosi ad essa congiunte per avvolger la vita e l’attività d’una comunità cristiana nel buio d’una notte fonda, dove il prete spesso non è neanche in grado di star a guardare, come le stelle d’un famoso romanzo.
Eppure, anche nel buio di codesta notte il fulgore della bellezza e dell’armonia, come la misteriosa stella dei Magi, è riuscito, se non ad avvampare, a farsi almeno notare: il fulgore della sacra Liturgia. Fulgore tuttora offuscato da una riforma slegata dalla storia e da esigenze pratiche, della quale nove su dieci invocan oggi la controriforma. Mortificato da una sfrenata creatività e teatralità soggettiva a danno della sacralità dell’azione sacra. Soffocato da una legislazione che parve esaltarsi nel decretar o consentire la distruzione sistematica d’altari, balaustre, pulpiti e di quanto fosse giudicato d’impedimento alla comunicazione della comunità in linea orizzontale [6]. Quel fulgore si sprigionò, sia pur timidamente, nel momento stesso in cui fervevano, avvicendandosi, le iniziative per l’applicazione del Vaticano II e della successiva riforma liturgica: mentre questa concorreva all’autodemolizione della Chiesa, prendeva consistenza un’autoconsapevolezza liturgica che via via lasciava il segno.
Romano Amerio prendeva netta posizione contro “l’opera più imponente, più visibile, più universale e più efficace del Vaticano II”, la riforma liturgica, che definiva contraddittoria perfino rispetto “ai testi della grande assemblea” [7]. Klaus Gamber riportava all’attenzione dei Pastori, dei teologi e dello stesso popolo di Dio l’esigenza ineludibile di rivedere le decisioni ufficiali circa la costruzione dei luoghi di culto, il loro orientamento e quello dell’altare, nonché del celebrante durante il sacro rito [8]. Sull’argomento prendeva posizione anche il grande Joseph A. Jungmann, il noto autore di Missarum Sollemnia [9], mentre Manlio Sodi curava l’edizione dei sei libri della riforma tridentina [10], tra i quali, in collaborazione con A. M. Triacca, il glorioso Missale Romanum [11].
Da parte sua la Fraternità sacerdotale san Pio X, sia pur dalla scomoda posizione di voce “a latere” e priva d’ufficiale riconoscimento, continuava la sua testimonianza a favore della Tradizione con particolare accentuazione di quella liturgica. Altri scritti, non certo a valanga ma nemmeno tanto rari, si rivelavano ineccepibili tanto sul piano del riferimento alle fonti e dell’evoluzione storica, quanto su quello del valore teologico e del rapporto fra Liturgia e Fede.
I guizzi di codesto fulgore, ora più insistenti ora appena percepibili, mai però sotterranei, hanno accompagnato la lunga interminabile insopportabile fase della ricezione ed ermeneutica del Vaticano II. Nel 2007, però, un evento eccezionale: Benedetto XVI, con il motuproprio “Summorum Pontificum” [12], riconobbe come mai abrogato l’antico rito romano della c. d. Messa tridentina, promulgò norme giuridico-liturgiche perché esso potesse liberamente celebrarsi con l’uso del Messale Romano approvato nel 1962 da Giovanni XXIII e dispose l’entrata in vigore di tali disposizioni il 14 settembre di quel medesimo 2007. Nel 1984, con la “Quattuor abhinc annos” di Giovanni Paolo II, eran già state prese alcune decisioni a favore di chi avesse voluto celebrare l’Eucaristia con il rito antico: tali decisioni però vennero da non pochi ignorate e da molti, anche vescovi, osteggiate. Sembrava che la liturgia in vigore da secoli fino al 1970 fosse diventata improvvisamente blasfema; la si boicottava, la si spregiava, la si condannava [13]. Alla testa dell’indecente ed immorale contestazione, una buona parte dell’episcopato. Alcuni ecclesiastici non avevan alcun ritegno nel dire di no alla legittima domanda della Messa tradizionale ed a spalancare le porte delle loro chiese a protestanti e musulmani: “Cosiffatto è il guazzabuglio del cuore umano”!
A chi fosse rimasto sorpreso dal cioè del mio titolo, la scomposta reazione alle disposizioni suddette dovrebbe neutralizzar ogni sorpresa. Ed altrettanto il velleitario presenzialismo di quei tuttologi che si buttan a capofitto dovunque avvertono qualche stormir di fronda, trinciando giudizi a destra ed a sinistra, come se tutto dovesse passar al vaglio del loro si o del loro no. Costoro, non potendo ignorar il dibattito sulla Liturgia, ne trattarono e ne trattano dall’altezza della loro insipienza.
Quando leggo che “la celebrazione è presenza e azione di Cristo che si attualizzano nei partecipanti all’azione liturgica”, non posso reagire che con un cioè?, e confessare che non ci capisco un’acca, convinto come sono che Cristo si fa presente sacramentalmente nell’azione liturgica e non nei partecipanti alla medesima. Del pari rispondo con un cioè? a chi mi dice che “riti preghiere musiche e canti debbono iconizzare l’invisibile presenza di Cristo attraverso l’azione dello Spirito Santo”: se l’invisibile diventa icona, cessa d’esser invisibile. Chi poi dichiara che “l’attuazione dell’agire di Cristo nella celebrazione è espressione della sua presenza in mezzo a noi” merita lo stesso cioè?, perché mi ricorda l’Odo Casel non della sua “Mysterientheologie” che ha positivamente rivoluzionato lo stesso modo di parlar in termini liturgici, ma d’alcuni suoi aspetti collaterali contestabili e contestati, come la presenza di Cristo che il rito riproporrebbe secondo tutte le sue circostanze di tempo e di luogo: tali circostanze circoscrivon una persona e le sue azioni in un determinato ubi et quando, senza possibilità – se non quella sacramentale, dovuta ad una disposizione dello stesso Cristo e a ciò che san Tommaso intende con l’espressione “virtus fluens Christi”– di ripresentarsi hic et nunc.
Purtroppo il cioè? affiora anche dalle conseguenze del motuproprio “Summorum Pontificum”. Voleva avviare una pace liturgica ed ha – per colpa dei ribelli – incentivato la guerra. I due riti, impropriamente definiti ordinario e straordinario, son di per sé irriducibili: il loro unico punto di convergenza è la transustanziazione, sempre che i moderni teologi ci credan ancora e non le preferiscano la transfinalizzazione o la transignificazione. Per il resto son due ordinamenti l’uno lontano dall’altro. Non c’è corrispondenza nel calendario, non nelle memorie e nelle feste dei Santi; perfino quelle di N.S. Gesù Cristo e della Madonna son, in varie circostanze, diversamente dislocate. Abissale è la differenza delle antifone alle Lodi ed ai Vespri. La divisione dei tempi liturgici avviene secondo un rito, il nuovo, lungo un intero triennio; secondo l’altro, l’antico, in un unico anno. La stessa denominazione dei tempi è cambiata: un giovane prete oggi non sa neanche che cosa fosse la Settuagesima, o la Sessagesima e la Quinquagesima, combaciando i due ordinamenti nella sola Quaresima. Se poi l’analisi si sposta sul versante linguistico e canoro, si rizzan i capelli anche a chi ne è privo. Le orazioni sono espresse, oggi, o in un latino da quinta ginnasiale o in un volgare che talvolta più volgare non si può. Due Chiese? Certamente no, ma l’impressione è quella. “Anfibologia”, direbbe Amerio.
Per toglier ogni giustificato motivo al cioè? il Santo Padre potrebbe portar a termine l’opera iniziata con il suo “Summorum Pontificum”: coordinando gli attuali due riti, in maniera che l’uno corrisponda pienamente all’altro, rimanendo ovviamente ambedue quel che sono: un rito nuovo ed uno tradizionale.
NOTE
1) In AAS 39 (1947) 528ss.
2) Ibidem p. 553.
3) AA 3: “I laici vengon consacrati per formar un sacerdozio regale ed una nazione santa (1Ptr 2,4-10), onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e render ovunque testimonianza a Cristo”.
4) Si veda LG 20, 26, 41; CD 28; PO 5, 7, 8, 10-11, 16; OT 12.
5) LG 10.
6) E’ da poco apparso, tradotto e pubblicato dalle Suore Francescane dell’Immacolata di Città di Castello, un opuscoletto di M. Davies (1936-2004), L’Altare Cattolico, (pro manuscripto) Città di Castello 2011. L’Autore, un convertito dall’anglicanesimo e con lo stupore un po’ indignato tipico del convertito, documenta e lamenta la detta distruzione.
7) AMERIO R., Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo, a c. di E. M. Radaelli, Lindau, Torino 2009, p. 543-579
8) GAMBER K., Ritus modernus. Gesammelte Aufsätze zur Liturgiereform, (SPLi 4), Regensburg 1972; ID., Liturgie und Kirchenbau. Studien zur Geschichte der Meßfeier und des Gotteshauses in der Frühzeit, (SPLi 6), Regensburg 1976; ID., Zum Herrn hin! Fragen um Kirchenbau und Gebet nach Osten, (BSPLi 18), Regensburg 1987 (19942). Su questi medesimi argomenti e su quello più generico della sacra Liturgia in quanto tale nel postconcilio hanno scritto decine e decine d’Autori, fra i quali importantissimi LANG U. M., Conversi ad Dominum. Zu Geschichte und Theologie der christlichen Gebetsrichtung, Johannes Verlag, Friburgo 2003; RATZINGER J., Das Fest des Glaubens. Versuche zur Theologie des Gottesdienstes, Friburgo 1981 (19933); ID., Der Geist der Liturgie. Eine Einführung, Friburgo 2000; ID., Theologie der Liturgie, in “FKTh“ 18 (2002) 1-13; ID., Der Geist der Liturgie oder die Treue zum Konzil, in LJ 52 (2002) 111-115,
9) JUNGMANN J. A., Der neue Altar, in “Der Seelsorger” 37 (1967) 374-381; ID., Messe im Gottesvolk. Ein nachkonzialiarer Durchblick durch Missarumn Sollemnia, Friburgo 1970.
10) Libreria editrice vaticana, 1997-2005.
11) Ivi, 1998.
12) In AAS 99 82007) 777-781
13) Si vedan al riguardo le lucide parole con cui, nel 2001, il card. J. Ratzinger descriveva una così assurda situazione: Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, p. 379-381
fonte: blog Chiesa e postConcilio, 19/01/2012
http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2012/01/brunero-gherardini-liturgia-cioe.html
(13/03/2012)