Perchè e come mangiare la Cena del Signore

 

 

 

 

 

 

Perchè e come mangiare la Cena del Signore

Relazione all'Assemblea Ecclesiale della Diocesi di Porto - Santa Rufina
sabato 24 settembre 2011

 

di Padre Matias Augè c.m.f.

 

Nel titolo della relazione che mi è stato chiesto di svolgere troviamo indicato il taglio del discorso da fare: “perché e come mangiare la Cena del Signore”. Il “perché” fa riferimento alla comprensione dell’Eucaristia, alla sua teologia; il “come” invece alla sua celebrazione e al suo valore formativo per la vita di fede.

Ecco quindi che questo mio intervento sarà guidato da due principi ribaditi dai due ultimi pontefici: 1) “L’Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni” (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia 10); 2) “la migliore catechesi sull'Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata” (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis 64).

Per natura sua, infatti, la liturgia ha una sua efficacia pedagogica nell'introdurre i fedeli alla conoscenza del mistero celebrato. D’altra parte, la riforma della Messa non è stato solo una riforma della sua ritualità; ha comportato anche la riscoperta o sottolineatura, in continuità con una ininterrotta tradizione, di alcuni aspetti del mistero eucaristico che in tempi passati sono stati in qualche modo non pienamente valutati. Riscoprire e valutare questi aspetti dell’Eucaristia non significa svalutarne altri: riscoprire la dimensione conviviale dell’Eucaristia non significa mettere nell’ombra la sua dimensione sacrificale.

 


1. Perché mangiare la Cena del Signore

Per designare delle cose semplici, non abbiamo bisogno di parecchi nomi. Per parlare invece di una persona, possiamo utilizzare diversi nomi. E quando parliamo di Dio, moltiplichiamo i nomi: il Vivente, il Santo, l’Onnipotente, ecc. I musulmani amano recitare i novantanove nomi di Dio, sgranando il loro rosario. Noi non potremmo mai dire tutto di Dio, ma ogni nome rivela un aspetto del suo mistero. Anche l’Eucaristia è un grande mistero. Appare evidente l’incapacità e addirittura l’impossibilità di definire con un’unica parola una realtà tanto ricca che si può accostare soltanto per approssimazioni parziali.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica alcuni numeri, sotto il titolo “Come viene chiamato questo sacramento” (nn. 1328-1332), ad una breve analisi dei diversi nomi con cui parliamo dell’Eucaristia: Eucaristia, Cena del Signore, frazione del pane, Assemblea eucaristica (o “synaxis”), Memoriale (della passione e risurrezione del Signore), Santo sacrificio (o ancora: sacrificio di lode, sacrificio spirituale, sacrificio puro), Santa e divina Liturgia, Santi Misteri, Santissimo Sacramento, Comunione, Santa Messa. Notiamo inoltre che  la tradizione della Chiesa chiama “Viatico” l’Eucaristia offerta ai morenti (il CCC ne parla al n. 1392: “pane del nostro pellegrinaggio, fino al momento della morte, quando ci sarà dato come viatico”).

Dando un rapido sguardo alla storia, possiamo dire, in modo molto sintetico, che se l’antichità cristianità ha vissuto l’Eucaristia soprattutto come celebrazione comunitaria del memoriale del Signore, nella partecipazione alla comunione del suo “corpo” eucaristico ed ecclesiale insieme; nel Medioevo occidentale il centro di attenzione si è spostato sulla presenza reale di Cristo, considerata sempre meno in relazione organica alla celebrazione e vista sempre più in se stessa, in un certo senso come “valore autonomo”; mentre l’epoca postridentina è stata caratterizzata sia dalla sottolineatura del culto eucaristico, sia dall’insistenza sul valore sacrificale della Messa in chiave antiprotestante. Nessuno degli elementi che il pensiero e la pietà cristiana hanno rilevato nell’Eucaristia lungo i secoli deve essere perduto; tutti devono essere organicamente ordinati e vissuti intorno alla celebrazione del memoriale, sacrificio – convito.

L’espressione “Cena del Signore” la troviamo solo in 1Cor 11,20 allorché san Paolo rimprovera i fedeli di Corinto in questi termini: “Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore …” In questo periodo l’Eucaristia veniva celebrata insieme con un pasto, e ciò spiega la reazione di Paolo: se in questo pasto la fraternità non viene rispettata, non può trattarsi della cena del Signore. Infatti, da tutto il contesto si deduce che nella Chiesa di Corinto ciascuno consumava egoisticamente un proprio pasto estromettendo i poveri dalla convivialità. Si potrebbe affermare che per l’Apostolo Paolo dove non c’è Chiesa, intesa quale comunità solidale, non può esserci la vera cena del Signore, la vera Eucaristia.

Il contesto più importante per dare pienezza di senso ad una celebrazione eucaristica è senza dubbio l’assemblea dei credenti. Si ha Eucaristia quando il popolo di Dio è radunato. La rubrica del Messale lo esprime in modo chiaro quando all’inizio dell’Ordinario della Messa dice: “Quando il popolo si è radunato, il sacerdote con i ministri si reca all’altare …” Possiamo quindi affermare che la prima e fondamentale azione liturgica è la risposta del popolo alla chiamata di Dio e il suo costituirsi in assemblea. L’ingresso del ministro ordinato, unicamente “quando il popolo si è radunato”, attesta come l’assemblea radunata non sia unicamente opera dell’uomo, ma anzitutto opera di Dio (opus Dei). Non è il vescovo, o il presbitero, che chiama, e neppure è il popolo che si autoconvoca, ma è Dio che costituisce un gruppo di uomini e donne in comunità santa chiamandoli a sé con la sua Parola. E’ Dio che chiama il popolo a sé, e l’assemblea è anzitutto alla presenza di Dio. E’ una verità che dovrebbe attraversare tutta l’azione liturgica ed esprimersi negli atteggiamenti dei partecipanti ad essa.

Ogni comunanza di tavola è per l’orientale del tempo di Gesù un dono di pace, di fiducia, di fratellanza; la comunione conviviale è quindi comunione di vita. Ripercorrendo le pagine dell’Antico Testamento, vediamo che sedere a mensa insieme è garanzia di perdono, di protezione, di pace, di comunione, di festa, di attesa. Non è possibile pertanto prendere parte alla medesima mensa, condividere l’unico pane, se non c’è in partenza una certa comunione.
Se nel tempo di san Paolo l’Eucaristia veniva celebrata insieme con un pasto per sottolineare l’imprescindibile legame con la fraternità, oggi quando parliamo della Cena del Signore si vorrebbe riaffermare che – nel segno della cena – è il Signore il vero protagonista dell’Eucaristia, a tal punto di essere inseparabile dal suo Corpo, la Chiesa, e particolarmente dalle membra povere e indigenti.

Il pane e il vino sono simbolo di comunione. Questo pane e questo vino, diventati il Corpo e il Sangue di Cristo, sono artefici di quella sublime comunione tra noi e con Cristo che è l’essenza stessa della Chiesa. Qual è il frutto fondamentale dell’Eucaristia? Lo troviamo espresso nella preghiera eucaristica: “Ti preghiamo umilmente per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo” (Preghiera eucaristica II). L’Eucaristia fa la Chiesa.

Questa visione dell’Eucaristia viene confermata da un’altra espressione neotestamentaria adoperata per esprimere la celebrazione eucaristica: “frazione del pane”. L’atto di “spezzare il pane” costituiva presso gli ebrei l’elemento centrale di un rito “domestico” che aveva la funzione di dare inizio al pasto familiare. Pronunciando le parole “questo è il mio Corpo …”, Gesù compì la frazione del pane. In quel preciso contesto dell’ultima Cena, nel momento in cui è giunta l’ora di Gesù, la frazione del pane acquista un significato vitale e simbolico estremamente forte, perché si tratta di un gesto profetico. Gesù spezza il pane e versa il vino nel calice per significare con questo gesto simbolico la morte violenta di cui presto sarà vittima.

Oltre al significato sacrificale indicato, il gesto della frazione ha altri significati. Quando san Paolo ricorda ai cristiani di Corinto il senso di ciò che aveva loro insegnato a fare, conferma che l’espressione “frazione del pane” indica l’Eucaristia e, al tempo stesso, illustra il significato del gesto: “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16-17). Notiamo in questo testo che il concetto di comunione (koinonia – communio) è anzitutto ancorato al sacramento dell’Eucaristia, ragione per cui ancora oggi nel linguaggio della Chiesa designiamo giustamente la ricezione di questo sacramento semplicemente come “comunicarsi”. Quindi quando parliamo della Chiesa come comunione, intendiamo dire anzitutto che la Chiesa diventa un’unità non a motivo di un eventuale governo centralistico, ma dal fatto che essa trae continuamente origine dall’unico Signore che nell’unico pane la crea come unico corpo. Perciò l’unità ecclesiale ha una profondità maggiore di quella che qualsiasi associazione umana potrebbe mai raggiungere.

Come “Cena del Signore”, come “Frazione del pane” e come “Comunione”, l’Eucaristia è espressione simbolica di una esistenza comunitaria di fede. D’altra parte, il rito non si presenta mai isolato, ma è accompagnato dalla Parola che lo preserva dal rischio di un falso ritualismo e lo stimola verso continui rinnovamenti. Non può dissociarsi dall’esigenza di un vicendevole servizio nella giustizia e nell’amore. Le due denominazioni più primitive del mistero eucaristico convergono nel loro significato. La frazione del pane che indica prima di tutto un rito significa anche la condivisione del pane ed evidenzia così la dimensione ecclesiale e sociale dell’Eucaristia. D’altra parte, l’espressione cena del Signore nell’indicare principalmente un’assemblea comunitaria, senza distinzione di classi, significa prima di tutto che lo stare insieme comunitario è opera del Signore e tende a rendere presente il Signore stesso durante la cena.

Da qualsiasi parte si consideri, l’Eucaristia lega profondamente culto ed esistenza. Dal punto di vista antropologico, occorre sempre ricordare che il rito è un modo per dire il senso della vita e dello stare nella storia. La liturgia cristiana non sottrae i partecipanti alle esperienze quotidiane, ma li colloca in un’altra dimensione rispetto alla esperienza ordinaria; anzi il mangiare-bere dice in atto una relazione con l’altro, ne è il segno vivo. Nell’ordine della fede, attraverso il rito del banchetto si agisce per stabilire un contatto con tutto ciò che deve dare senso all’esistenza cristiana. Il gesto del mangiare-bere orienta i partecipanti al darsi pasquale di Gesù, per costruire la propria storia nel mettere tra parentesi le esigenze dell’ “io”, per lasciarsi trasformare dal “tu” in una chiara apertura di radicale accoglienza dell’evento pasquale. Possiamo dire che il primo e fondamentale effetto educativo della celebrazione eucaristica è quello di costringerci a uscire dalle nostre case per metterci in cammino con gli altri e formare con loro quell’assemblea che è chiamata a esprimere e ad alimentare la comunione dei figli di Dio dispersi.

Possiamo finire citando ancora Benedetto XVI che al convegno diocesano di Roma il 16 giugno 2010, ha detto, tra l’altro: “L’Eucaristia celebrata ci impone e al tempo stesso ci rende capaci di diventare, a nostra volta, pane spezzato per i fratelli, venendo incontro alle loro esigenze e donando noi stessi. Per questo una celebrazione eucaristica che non conduce ad incontrare gli uomini lì dove essi vivono, lavorano e soffrono, per portare loro l’amore di Dio, non manifesta la verità che racchiude. Per essere fedeli al mistero che si celebra sugli altari dobbiamo, come ci esorta l’apostolo Paolo, offrire i nostri corpi, noi stessi, in sacrificio spirituale gradito a Dio (cf Rm 12,1), in quelle circostanze che richiedono di far morire il nostro io e costituiscono il nostro ‘altare’ quotidiano”.

Certamente l’Eucaristia è il sacramento della presenza di Cristo, una presenza che, come ci ricorda Paolo VI nella Mysterium fidei, è reale per antonomasia “perché è anche corporale e sostanziale”. Se come dicevamo sopra, in tempi passati tale presenza è stata esaltata ma sempre meno in relazione organica alla celebrazione ma vista talvolta in se stessa, la liturgia della Messa attuale ci insegna ad approfondire questa presenza come presenza del Cristo che si dona in sacrificio per noi. A questo proposito, notiamo il progresso teologico realizzato nel cuore stesso della preghiera eucaristica: le parole consacratorie del pane nel Messale di Pio V recitano: “Accipite et manducate: hoc est corpus meum” (“Prendete e mangiate: questo è il mio corpo”). Si afferma quindi semplicemente la presenza del corpo di Cristo. Nel Messale riformato dopo il Vaticano II, si legge: “Accipite et manducate: hoc est corpus meum quod pro vobis tradetur” (“Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”). Il progresso teologico sta nel sottolineare che questo corpo di Cristo reso presente nel sacramento, è il corpo donato, offerto in sacrificio per la nostra salvezza. Nel primo caso, il Messale di Pio V prendeva il testo da Mt 26,26. Nel secondo caso, il Messale di Paolo VI prende il testo dalla Prima lettera ai Corinzi (11,24) e da san Luca (22,19).

Quando parliamo del sacrificio di Cristo cosa intendiamo dire? In questo campo la coscienza cristiana è in genere ancora largamente improntata ad una grossolana idea della teologia di espiazione risalente ad Anselmo di Canterbury. Per molti cristiani le cose stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo, costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione. Nel Nuovo Testamento invece, la situazione è quasi esattamente l’inversa. Non è l’uomo che s’accosta a Dio tributandogli un dono compensatore, ma è Dio che si avvicina all’uomo per accordarglielo. Per iniziativa stessa della sua potenza amorosa, egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia e richiamando alla vita la creatura morta.

Di conseguenza, nel Nuovo Testamento la croce si presenta primariamente come un movimento discendente, dall’alto in basso. Essa non ha affatto l’aspetto di una prestazione propiziatrice che l’umanità offre allo sdegnato Dio, bensì quello di una espressione di quel folle amore di Dio, che s’abbandona senza riserve all’umiliazione pur di redimere l’uomo; è un suo accostamento a noi, non viceversa. Con questa inversione di rotta nell’idea della espiazione, che viene a spostare addirittura l’asse dell’impostazione religiosa in genere, nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo.

Nella sfera cristiana, l’adorazione si estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato l’azione salvifica di Dio. La forma essenziale del culto cristiano si chiama quindi a ragion veduta Eucaristia, cioè rendimento di grazie.  Il sacrifico cristiano non consiste in un dare a Dio ciò che Egli non avrebbe senza di noi, bensì nel nostro farci completamente ricettivi nei suoi confronti e nel lasciarci integralmente assorbire da lui. Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del sacrificio di Cristo reso presente sacramentalmente nella Messa (cf Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 11a edizione, Queriniana, Brescia 1996, pp. 227-230).

Il sacrificio di Cristo, così come noi lo riviviamo in ogni Eucaristia, è anzitutto dono, il dono che Egli fa di sé stesso, di cui la morte è il momento culminante ma non unico. E’ l’intero mistero dell’Incarnazione, dalla sua origine e lungo l’intera vita di Cristo, che sostituisce i sacrifici antichi (cf Eb 10,5-7). Quando nell’ultima Cena Gesù prende il pane e il calice del vino, è l’intera sua esistenza che Egli prende ricapitolandola in questo gesto.

Dopo quanto abbiamo  detto, dovrebbe essere chiaro che la dimensione conviviale e quella sacrificale dell’Eucaristia sono inseparabili e sono ambedue orientate verso la vita. La forma commensale costituisce il modo più concreto di essere coinvolti nell’autodonazione di Gesù, secondo una doppia relazione: al Padre e per noi.

 


2. Come mangiare la Cena del Signore

Se l’Eucaristia è anzitutto, come dicevamo sopra, dono di Dio offerto a noi in Cristo Gesù, l’atteggiamento di chi vi partecipa si estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato e adorante l’azione salvifica di Dio. All’inizio della preghiera eucaristica, siamo invitati a rendere grazie a Dio: “Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio”. Nella dossologia finale con cui si chiude la preghiera eucaristica, il sacerdote e l’intera assemblea con lui proclamano solennemente che ciò è stato compiuto: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”.  L’essenziale dell’Eucaristia consiste nel rendere grazie, nel lodare e festeggiare Dio per la fecondità della morte e risurrezione di Gesù, alla quale Egli ci invita a comunicare. Come dice la Lettera apostolica di Giovanni Paolo II “Mane nobiscum  Domine”, l’Eucaristia “ci impegna ad un perenne ‘grazie’ per quanto abbiamo e siamo” (n.  26).
 
Negli Atti degli Apostoli (2,46-47), san Luca sottolinea il clima di “letizia” e di “lode a Dio” in cui si svolgeva la vita della prima comunità cristiana, letizia e lode che trovavano la loro espressione più esplicita nelle riunioni della comunità per celebrare l’Eucaristia o “frazione del pane”. Certamente, possiamo affermare che l’Eucaristia è una festa, un incontro fraterno e conviviale. Sarebbe però una visione limitata del mistero eucaristico ridurla a questa dimensione. Come ricorda l’Istruzione Redemptionis Sacramentum, al n. 38, riprendendo un pensiero dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, “spogliato del suo valore sacrificale, il mistero viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un qualsiasi incontro conviviale e fraterno”.

Il teologo Joseph Ratzinger, in un suo opuscolo sulla natura della celebrazione liturgica, denuncia una visione della liturgia i cui concetti dominanti “si possono riassumere nelle parole-chiave ‘creatività’, ‘libertà’, ‘festa’, ‘comunità’ ”. In seguito, volendo contrapporre a questa visione la vera natura della celebrazione liturgica, Ratzinger parte proprio dalla liturgia come festa: “la liturgia ha per sua natura il carattere della festa”, e nota che “nella festa è in gioco la libertà e nella libertà l’essere autentico che sta dietro i ruoli”. Ebbene, “nella storia delle religioni la festa ha sempre avuto carattere cosmico ed universale. Essa cerca di rispondere alla domanda sulla morte, riferendosi all’universale potenza vitale del cosmo”. Da parte sua, “l’inderivabile novità del cristianesimo è la risposta alle domande comuni di tutti gli uomini e per questo deve essere riferita ad un fondamentale contesto antropologico, senza il quale proprio questa novità rimane incompresa”.

“L’Eucaristia è per natura sua una festa della Risurrezione, Mysterium Paschae. In quanto tale porta in sé il mistero della Croce, che è appunto l’intima premessa della Risurrezione”. Ecco quindi che “la libertà che è in gioco nella festa cristiana – nell’Eucaristia – non è la libertà di inventare testi, ma la liberazione del mondo e di noi stessi dalla morte, liberazione che sola può renderci capaci di accogliere la verità e di amarci reciprocamente nella verità”. E’ chiaro quindi che “la liturgia come festa va oltre l’ambito delle realtà fattibili e fatte; essa introduce nell’ambito di ciò che è dato”. E’ quindi chiaro che se la liturgia è qualcosa di dato non è alla disponibilità creatrice della singola comunità o del singolo liturgo. “Del resto, questa non-facoltatività delle parti essenziali della liturgia è proprio anche la garanzia della vera libertà dei fedeli: solo così essi hanno la sicurezza di non trovarsi in balia di una qualsiasi trovata di un singolo o di un gruppo, ma di incontrare ciò che vincola anche il parroco, il Vescovo e il Papa e dà a tutti lo spazio della libertà per una loro personale assimilazione del mistero destinato a tutti noi”.

L’Istruzione Musicam sacram del 5 marzo 1967, al n. 11 afferma: “Si tenga presente che la vera solennità di un’azione liturgica dipende non tanto dalla forma più ricca del canto e dall’apparato più fastoso delle cerimonie, quanto piuttosto dal modo degno e religioso della celebrazione, che tiene conto dell’integrità dell’azione liturgica, dell’esecuzione cioè di tutte le sue parti, secondo la loro natura. La forma più ricca del canto e l’apparato più fastoso delle cerimonie sono sì qualche volta desiderabili, quando cioè vi sia la possibilità di fare ciò nel modo dovuto; sarebbero tuttavia contrari alla vera solennità dell’azione liturgica, se portassero ad ometterne qualche elemento, a mutarla o a compierla in modo indebito”. 

Le nostre Eucaristie sono solenni, sono festive quando le celebriamo “con grande riverenza in conformità alle prescrizioni”. Come dice la Costituzione sulla liturgia del Vaticano II, all’inizio del capitolo dedicato al mistero eucaristico, partecipiamo ad esso “comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere” (SC 48). C’è un intrecciarsi tra “educazione ai riti” e “educazione da parte dei riti”. Qualche anno fa, Francesco Alberoni, parlando della moda giovanile sul Corriere della Sera, affermava: “C’è al potere una mentalità che, nel nome della libertà, ha eliminato la forma. Ma la perdita della forma è la perdita della sostanza”.

In modo analogo, possiamo affermare lo stesso del rito come forma della celebrazione. Non si deve dimenticare che siamo eredi di una visione dell’uomo con tendenze dualistiche e figli di una cultura che ha privilegiato nell’uomo la razionalità. Ci siamo allontanati da quella parte dell’umano (affettività, poesia, estetica, gioco) che si trova alla base stessa dell’esperienza simbolico-rituale. D’altra parte, il carattere istituzionale e ripetitivo proprio del rito urta con l’emergere della soggettività che caratterizza il momento culturale attuale. I riti, come gli atti più espressivi dell’esistenza dell’uomo, vanno continuamente e ciclicamente ripetuti, confermati affinché possano essere personalizzati.

La liturgia, in particolare la liturgia della Messa, non va manipolata: è qualcosa di “ricevuto” mediante una tradizione; dice san Paolo all’inizio del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: “Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso…” (1Cor 11,23). “Se i cristiani celebrano l’Eucaristia fin dalle origini e in una forma che, sostanzialmente, non è cambiata attraverso la grande diversità dei tempi e delle liturgie, è perché ci sappiamo vincolati dal comando del Signore, dato la vigilia della sua Passione: ‘Fate questo in memoria di me’ (1Cor 11,24-25)” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1356).

E’ per obbedire a quel “fate questo in memoria di me” che celebriamo l’Eucaristia. Mi pare che  questa prospettiva, vincolata alla “norma” che è Cristo, aiuti a fondare l’esigenza di una normativa liturgica, fatta come sappiamo di indicazioni e prescrizioni di varia fisionomia, valore e portata. La celebrazione liturgica è una azione “regolata”. Del resto, non a caso, parliamo di ordo, ordines: rito, ordinamento, ordinario. La liturgia è normata, ha una norma, una lex che la regola. Perciò segni liturgici scorretti comunicano una fede scorretta, una fede che non è in sintonia con la Tradizione della Chiesa.

Lasciandosi condurre dalla volontà di obbedire alla parola di Cristo, chi ha autorità nella Chiesa ha tradotto, fin dall’inizio, il “fate questo” in tradizione rituale. Ci sono varie tradizioni rituali, disciplinate da chi è preposto a farlo, diverse tra loro nella disciplina del visibile ma accomunate dall’unico contenuto, ossia la volontà di fare quello che Gesù ha chiesto di fare. Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa (SC 26). Perciò regolare la liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo (SC 22, § 1) e nelle competenti assemblee episcopali territoriali (SC 22, § 2). Nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, può, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica (SC 22, § 3).

Nella celebrazione, nel rispetto degli altri, ciascuno deve compiere tutto e soltanto ciò che è di sua competenza (SC 28). Poi, se è vero che l’Ordinario della Messa lascia una certa libertà di scelta (canti, parole di accoglienza, atto penitenziale, preghiera universale, ecc.), si ricordi che ogni gesto e parola devono essere sobri e conformi alla natura del momento celebrativo. Non basta però evitare gli abusi. Occorre che i gesti e l’atteggiamento del corpo, sia dei ministri che del popolo, tendano a far sì che tutta la celebrazione risplenda per decoro e per nobile semplicità, si colga il vero e pieno significato delle sue diverse parti e si favorisca la partecipazione di tutti (OGMR 42).

La liturgia ha un carattere contemplativo, orienta lo sguardo e i cuori verso il volto di Cristo; si adopera di più a dipingere e rappresentare che non a spiegare e ragionare. I silenzi previsti dalle rubriche non sono da interpretare come un vuoto, ma come parte della celebrazione (OGMR 45). Essi si articolano con ciò che li precede e con ciò che li segue e mirano a inserire più intimamente i partecipanti nel mistero che si celebra, in forza delle disposizioni interne che favoriscono. E’ da evitare sia una celebrazione satura di suoni e parole, sia una celebrazione satura di lunghi silenzi che oscurano l’unità dello suo svolgimento.

La celebrazione eucaristica si configura come un luogo in cui la partecipazione del credente ingloba l’intera sua persona, intelligenza e corporeità, amore e sensibilità. La partecipazione ad essa, poi, non si esaurisce nel momento rituale, ma si proietta sulla vita quotidiana come culto esistenziale. In un antichissimo documento della prima metà del III secolo circa, la Tradizione Apostolica, dopo la descrizione del rito della Messa con cui si chiudono le celebrazioni della Veglia pasquale, si legge: “Terminato questo rituale, ciascuno si curi di compiere buone azioni, di piacere Dio e di vivere rettamente …” (n. 21). L’Eucaristia ben celebrata ha una grande forza pedagogica per la vita di fede.

 

 

(26/09/2011)

di di p. Matias Augè