L'orientamento della preghiera liturgica e dell'altare

 

 

Le trasformazioni fin qui descritte della sinagoga in funzione della liturgia cristiana permettono – come si è già detto – di riconoscere molto chiaramente la continuità e la novità nel rapporto tra Antico e Nuovo Testamento anche dal punto di vista architettonico. Prendeva così forma lo spazio per il culto cristiano vero e proprio, la celebrazione eucaristica, con il servizio della Parola ad essa ordinato. È chiaro che ulteriori sviluppi erano non solo possibili, ma necessari. Il Battesimo doveva trovare un suo spazio appropriato. Il sacramento della penitenza ha avuto una lunga evoluzione, i cui risultati dovevano trovare riscontro nella conformazione della Chiesa. La devozione popolare, nelle sue molteplici forme, ha trovato necessariamente espressione anche nello spazio liturgico.

Bisognava chiarire la questione delle immagini, trovare una giusta collocazione alla musica sacra. Ma anche il canone architettonico della liturgia della Parola e di quella sacramentale, così come noi lo conosciamo, non era affatto rigido; naturalmente di fronte a ogni evoluzione e cambiamento ci si deve chiedere che cosa corrisponde all’essenza della liturgia e che cosa allontana da essa. In relazione a questa domanda la forma degli spazi liturgici della cristianità di lingua e cultura semitica, di cui abbiamo parlato poco sopra, offre dei criteri che non è possibile trascurare.

Soprattutto, però, al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene. La fedeltà a ciò che ci è stato già donato così come la dinamica del progredire in avanti trovano in essa pari espressione.

L’uomo contemporaneo comprende poco tale “orientamento”. Mentre per l’ebraismo e per l’islam continua a essere ovvio che si deve pregare rivolti verso il luogo centrale della Rivelazione – verso Dio che si è mostrato a noi, dove e come egli si è mostrato a noi –, nel mondo occidentale è divenuto dominante un pensiero astratto che, per qualche aspetto, è persino frutto della stessa evoluzione della cultura cristiana. Dio è spirito, e Dio è dappertutto. Ciò non significa forse che la preghiera non è legata a nessun luogo e a nessuna direzione?

In effetti, noi possiamo pregare dovunque, e Dio è per noi raggiungibile dovunque. Questa universalità del pensare a Dio è conseguenza dell’universalità cristiana, dello sguardo cristiano al Dio che è al di sopra di tutti gli dei, che abbraccia il cosmo e che è più intimo a noi di noi stessi. Ma la consapevolezza di questa universalità è frutto della Rivelazione: Dio si è mostrato a noi. Solo per questo lo conosciamo, solo per questo possiamo abbandonarci con fiducia a lui nella preghiera in ogni luogo. E proprio per questo continua a essere appropriato il fatto che nella preghiera cristiana trovi espressione la dedizione fiduciosa al Dio che si è rivelato a noi. E come Dio stesso ha preso un corpo, è entrato nello spazio e nel tempo della terra, così è giusto – almeno nella preghiera liturgica comunitaria – che il nostro parlare con Dio sia “incarnato”, cristologico, si volga al Dio trinitario attraverso la mediazione del Verbo incarnato. Il simbolo cosmico del sole che sorge esprime ad un tempo l’universalità al di sopra di tutti i luoghi e mantiene comunque la concretezza della rivelazione di Dio. La nostra preghiera si colloca così nella processione dei popoli verso Dio.

Come stanno però le cose con l’altare? In quale direzione preghiamo nella liturgia eucaristica? Mentre nella costruzione delle chiese bizantine la struttura ora descritta veniva sostanzialmente mantenuta, a Roma si è andata sviluppando una diversa disposizione. Il seggio episcopale viene spostato al centro dell’abside; di conseguenza, anche l’altare viene portato nella navata centrale. Pare che nella Basilica Lateranense e in Santa Maria Maggiore le cose siano state così fino al secolo nono. Nella Basilica di San Pietro, invece, sotto il pontificato di Gregorio Magno (590-604) l’altare fu collocato vicino al seggio episcopale, probabilmente perché così veniva a trovarsi sopra la tomba di san Pietro. Trovava così espressione concreta il fatto che noi celebriamo il sacrificio del Signore nella comunione dei santi, che abbraccia ogni tempo. L’usanza di edificare l’altare sopra le tombe dei martiri risale molto indietro nel tempo ed esprime sempre lo stesso concetto: i martiri continuano lungo tutto il corso della storia il sacrificio di Cristo; essi sono, per così dire, l’altare vivente della Chiesa, che non è fatto di pietra, ma di persone che sono divenute membra del corpo di Cristo e che esprimono così il nuovo culto: il sacrificio è l’umanità che con Cristo si trasforma in amore. Sembra, poi, che la disposizione adottata nella Basilica di San Pietro sia stata imitata anche in molte altre chiese romane.

I singoli particolari di questi sviluppi sono oggetto di discussioni che, per le nostre riflessioni, rivestono scarsa importanza. Nel nostro secolo il dibattito è stato piuttosto acceso da altre innovazioni. Le indagini topografiche hanno infatti rivelato che la Basilica di San Pietro guardava verso occidente. Se, dunque, il sacerdote celebrante voleva guardare verso oriente – così come esige la tradizione liturgica cristiana –, allora egli doveva trovarsi dietro il popolo e, di conseguenza, guardava verso il popolo. In ogni caso, per influsso diretto della Basilica di San Pietro, si può ritrovare questa disposizione in tutta una serie di altre chiese.

Il rinnovamento liturgico del nostro secolo si è rifatto a questa presunta posizione del celebrante, per sviluppare sulla sua base una nuova idea di forma liturgica: l’Eucaristia deve essere celebrata versus populum (in direzione del popolo); l’altare – come si può dedurre dalla configurazione di San Pietro, ritenuta normativa, deve essere disposto in maniera tale che il sacerdote e il popolo possano guardarsi a vicenda e costituire così nel loro insieme il cerchio dei celebranti. Solo questa forma corrisponderebbe al senso della liturgia cristiana, all’impegno della partecipazione attiva. Solo così si corrisponderebbe, inoltre, all’immagine originaria dell’Ultima Cena. Queste conclusioni appaiono poi tanto convincenti che dopo il Concilio (che, di per sé, non parla di “disposizione verso il popolo”) da tutte le parti si sono eretti nuovi altari; la celebrazione orientata versus populum appare oggi come il vero frutto del rinnovamento liturgico operato dal Concilio Vaticano II. In effetti essa è la conseguenza più visibile di una nuova forma che non significa solo una diversa disposizione esteriore degli spazi liturgici, ma implica anche una nuova idea dell’essenza della liturgia come pasto comunitario.

È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della Basilica romana e della disposizione dell’altare al suo interno. Quanto meno approssimativa è poi anche l’immagine dell’Ultima Cena di Gesù. Ascoltiamo in proposito ciò che scrive Louis Bouyer: «L’idea che la celebrazione versus populum sia stata la celebrazione originaria, e soprattutto quella dell’Ultima Cena, non ha altro fondamento se non un’errata concezione di ciò che poteva essere un pasto, cristiano o meno, nell’antichità. In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, e distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma o a ferro di cavallo. Mai, dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi versus populum per presiedere un pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola» (p. 38).

A questa analisi della “forma del convito” si deve comunque aggiungere che l’Eucaristia non può certamente essere descritta adeguatamente dai termini “pasto” o “convito”. Il Signore, infatti, ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ripetere questa novità, non il banchetto come tale. Proprio per questo la novità si è molto presto liberata dal suo antico contesto e ha trovato una forma a lei propria, che era già stata anticipata dal fatto che l’Eucaristia rinvia alla croce e, quindi, alla trasformazione del sacrificio del tempio nel culto spirituale. Altra conseguenza è che la liturgia sinagogale della Parola, rinnovata e approfondita cristianamente, si fuse con la memoria della morte e resurrezione di Cristo, divenendo “Eucarestia” e, proprio in questo modo, si restò fedeli all’incarico del «fate questo».

Questa nuova immagine complessiva non poteva, in quanto tale, essere desunta semplicemente dal pasto, ma dall’insieme di tempio e di sinagoga, di Parola e di sacramento, di dimensione cosmica e storica. Essa si esprime appunto nella forma che abbiamo ritrovato nella struttura liturgica delle prime chiese della cristianità semitica. Essa è rimasta ovviamente fondamentale anche per Roma. Cito, in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche importanza o anche solo qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente… Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il presbitero a doversi volgere verso oriente; era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui» (p. 39).

La consapevolezza di questo stato di cose si andò certamente oscurando nel corso della modernità o, addirittura, andò del tutto perso, tanto nel modo di costruire le chiese che in quello di celebrare la liturgia. Solo così si può spiegare il fatto che l’orientamento comune del sacerdote e del popolo sia stato etichettato come “celebrazione verso la parete” o come “un mostrare le spalle al popolo” e che, quindi, sia apparso come qualcosa di assurdo e completamente inaccettabile. Solo così si può spiegare che l’idea del “convito” – ulteriormente ripresa nelle raffigurazioni artistiche moderne – sia divenuta ora normativa per la celebrazione liturgica dei cristiani. In verità si è così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza. Ora, infatti, il sacerdote – o, il “presidente”, come si preferisce chiamarlo – diventa il vero e proprio punto di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione. È altresì comprensibile che si cerchi poi di ridurre questo ruolo attribuitogli, distribuendo numerose attività e affidandosi alla “creatività” dei gruppi che preparano la liturgia, i quali vogliono e devono anzitutto “portare se stessi”.

L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante quello che fanno le persone che qui si incontrano e che non vogliono affatto sottomettersi a uno “schema predisposto”. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era “celebrazione verso la parete”, non significava che il sacerdote “volgeva le spalle al popolo”: egli non era poi considerato così importante. Difatti, come nella sinagoga si guardava tutti insieme verso Gerusalemme, così qui ci si rivolgeva insieme “verso il Signore”. Per usare l’espressione di uno dei padri della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, Joseph A. Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di camminare insieme verso il Signore. Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro.

Ma tutto questo non è forse romanticismo e nostalgia per il passato? La forma originaria della preghiera cristiana può dirci ancor oggi qualcosa o dobbiamo semplicemente cercare la nostra forma, la forma per il nostro tempo? Naturalmente non si può voler semplicemente imitare il passato. Ogni età deve ritrovare ed esprimere l’essenziale. Quel che importa è, quindi, scoprire questo essenziale attraverso i cambiamenti. Sarebbe certamente errato rifiutare in blocco le nuove forme del nostro secolo. Era giusto avvicinare al popolo l’altare spesso troppo lontano dai fedeli, anche se, nelle chiese cattedrali ci si poteva comunque richiamare alla tradizione dell’altare del Crocifisso, che aveva trovato posto nel passaggio dal presbiterio alla navata. Era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della Parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano l’uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro che ascoltano, i quali rielaborano nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interiormente e lo trasformano in preghiera, così che diventi risposta.

Resta, invece, essenziale il comune orientamento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell’essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma lo sguardo al Signore. Non si tratta qui di un dialogo, ma di una adorazione comune, l’andare incontro a Colui che viene. Non il cerchio chiuso in se stesso esprime l’essenza dell’evento, ma il comune andare incontro, che si esprime nell’orientamento comune.

Contro queste idee, da me già esposte in altra occasione, A. Häußling ha avanzato diverse obiezioni. Ho già toccato la prima di esse: queste idee sarebbero ricerca romantica dell’antico, erronea nostalgia del passato. Inoltre sarebbe strano il fatto che io mi richiami solo al cristianesimo antico, prescindendo da tutti i secoli seguenti. Da parte di uno specialista di liturgia si tratta di un’obiezione notevole, dato che a me sembra che il punto problematico di gran parte della moderna scienza liturgica consiste proprio nella pretesa di riconoscere soltanto l’antico come corrispondente all’originale e quindi autorevole, considerando tutto ciò che è successivo, che è stato elaborato in seguito, nel Medioevo e dopo Trento, come spazzatura. Si arriva così a delle discutibili ricostruzioni di ciò che è più antico, a dei criteri mutevoli e, quindi, a delle continue proposte di forme sempre nuove che, alla fine, finiscono per dissolvere la liturgia cresciuta con la vita.

Contro tutto ciò è importante e necessario riconoscere che non è l’antico a poter essere in sé e per sé un tale criterio e che ciò che è venuto in seguito non può essere automaticamente etichettato come estraneo alle origini. Ci può essere senz’altro un’evoluzione viva in cui il seme dell’origine giunge a maturazione e porta frutto. Dovremo ritornare su questo pensiero. Nel nostro caso, però, come si è già mostrato, non si tratta affatto di una fuga romantica nell’antico, ma della riscoperta dell’essenziale, in cui la liturgia cristiana esprime il suo orientamento permanente. Häußling, evidentemente ritiene che oggi non si può più cercare di riproporre nella liturgia l’orientamento ad est, verso il sole che sorge.

Davvero ciò non è possibile? Il cosmo non ci riguarda più? Oggi siamo davvero chiusi senza speranza nel nostro cerchio? O non è forse proprio oggi importante pregare insieme con tutta la creazione? Non è forse proprio oggi importante dare spazio alla dimensione del futuro, della speranza nel Signore che tornerà? Riconoscere, quindi, e vivere la dinamica della nuova creazione come forma essenziale della liturgia?

Un’ulteriore obiezione è che non vi è bisogno di guardare verso oriente e verso la croce, dal momento che quando il sacerdote e i fedeli si guardano reciprocamente, essi vedono nell’uomo l’immagine di Dio; di conseguenza, il giusto orientamento della preghiera è quello in cui ci si rivolge gli uni verso gli altri. Mi risulta difficile credere che il noto recensore abbia potuto sostenere seriamente una tesi di questo genere, dal momento che l’immagine di Dio nell’uomo non la si vede poi così facilmente. “Immagine di Dio” non è nell’uomo ciò che si può fotografare o che si può scorgere con uno sguardo puramente fotografico. La si può certamente vedere, ma soltanto con il nuovo vedere della fede. Si può vedere così come si può vedere in un uomo la bontà, la sincerità, la verità interiore, l’umiltà, l’amore – ciò che lo rende simile a Dio. Ma proprio per questo si deve apprendere il vedere nuovo, e anche per questo esiste l’Eucaristia.

Più importante è un’obiezione pratica. Si dovrebbe allora di nuovo cambiare tutto? Niente è più dannoso per la liturgia che il mettere continuamente tutto sottosopra, anche se apparentemente non si tratta di vere novità. Mi sembra che una via d’uscita possa venire dalla osservazione cui ho accennato all’inizio richiamandomi a delle osservazioni di Erik Peterson. La direzione verso oriente, si trovava in stretto rapporto con il «segno del Figlio dell’uomo», con la croce, che annuncia il ritorno del Signore. L’Oriente fu quindi posto molto presto in relazione con il segno della croce.

Dove non è possibile rivolgersi insieme verso oriente in maniera esplicita, la croce può servire come l’oriente interiore della fede. Essa dovrebbe trovarsi al centro dell’altare ed essere il punto cui rivolgono lo sguardo tanto il sacerdote che la comunità orante. In tal modo seguiamo l’antica invocazione pronunciata all’inizio dell’Eucaristia: «Conversi ad Dominum» – Rivolgetevi al Signore. Guardiamo insieme a colui la cui morte ha squarciato il velo del tempio, a colui che sta presso il Padre in nostro favore e ci stringe nelle sue braccia, a colui che fa di noi un nuovo tempio vivente.

Tra i fenomeni veramente assurdi degli ultimi decenni io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante l’Eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore dovrebbe essere corretto il più presto possibile e questo può avvenire senza nuovi interventi architettonici. Il Signore è il punto di riferimento. È lui il sole nascente della storia. Può trattarsi tanto della croce della passione, che rappresenta Gesù sofferente che lascia trafiggere il suo fianco per noi, da cui scaturiscono sangue ed acqua – l’Eucaristia e il Battesimo –, come pure di una croce trionfale, che esprime l’idea del ritorno e attira l’attenzione su di esso. Perché è lui, comunque, l’unico Signore: Cristo ieri, oggi e in eterno (Eb 13, 8).

 

Brano tratto da "Introduzione allo Spirito della Liturgia", Ed. San Paolo, 2001, parte II, cap. III, “L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia”

(09/02/2012)

di del Card. Joseph Ratzinzger