La Liturgia esprime l'identità cattolica

Brani sulla liturgia tratti da "Rapporto sulla Fede", scritto da Messori a colloquio con il Card. Ratzinger nel 1985

 

di Vittorio Messori

« Pertanto – esortava il professor Ratzinger – ci si deve opporre, più decisamente di quanto sia stato fatto finora, all’appiattimento razionalistico, ai discorsi approssimativi, all’infantilismo pastorale che degradano la liturgia cattolica al rango di circolo di villaggio e la vogliono abbassare a un livello fumettistico. Anche le riforme già eseguite, specialmente riguardo al rituale, devono essere riesaminate sotto questi punti di vista ».

Mi ascolta, con l’attenzione e la pazienza consuete, mentre gli rileggo queste sue parole. Sono passati dieci anni da allora, l’autore di una simile messa in guardia non è più un semplice studioso, è il custode dell’ortodossia stessa della Chiesa. Il Ratzinger di oggi, Prefetto della fede, si riconosce ancora in questo brano?
« Interamente – non esita a rispondermi –. Anzi, da quando scrivevo queste righe altri aspetti che sarebbero stati da salvaguardare sono stati accantonati, molte ricchezze superstiti sono state dilapidate. Allora, nel 1975, molti colleghi teologi si dissero scandalizzati, o almeno sorpresi, dalla mia denuncia. Adesso, anche tra loro, sono numerosi quelli che mi hanno dato ragione, almeno parzialmente ». Si sarebbero cioè verificati ulteriori equivoci e fraintendimenti che giustificherebbero ancor più le parole severe di sei anni dopo, nel libro recente che citavamo: « Certa liturgia post-conciliare, fattasi opaca o noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre, tale da dare i brividi...

La lingua, per esempio...

Per lui, proprio nel campo liturgico – sia negli studi degli specialisti che in certe applicazioni concrete – si constaterebbe « uno degli esempi più vistosi di contrasto tra ciò che dice il testo autentico del Vaticano II e il modo con cui è stato poi recepito e applicato ».

Esempio sin troppo famoso, si sa (ed esposto al rischio di strumentalizzazioni), è quello dell’impiego del latino, sul quale il testo conciliare è esplicito: « L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini » (Sacrosanctum Conciliurn, n. 36). Più avanti, i Padri raccomandano: « Si abbia (...) cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi » (n. 54). Più avanti ancora, nello stesso documento: « Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’Ufficio divino la lingua latina » (n. 101).

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Lo vedo scuotere il capo: «Che vuole, anche questo è tra i casi di una sfasatura – purtroppo frequente in questi anni – tra il dettato del Concilio, la struttura autentica della Chiesa e del suo culto, le vere esigenze pastorali del momento e le risposte concrete di certi settori clericali. Eppure la lingua liturgica non era affatto un aspetto secondario. All’origine della frattura tra Occidente latino e Oriente greco c’è anche una questione di incomprensione linguistica. È probabile che la scomparsa della lingua liturgica comune possa rafforzare le spinte centrifughe tra le varie aree cattoliche ».

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 « La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese “simpatiche”, di trovate “accattivanti”, ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l’attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere “fatta” da tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il “successo” in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è l’assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi ».

Continua: « Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere “predeterminata”, “imperturbabile”, perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata “la vecchia rigidità rubricistica”, accusata di togliere “creatività”, ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del “fai-da-te”, banalizzandola perché l’ha resa conforme alla nostra mediocre misura ».

C’è poi un altro ordine di problemi sul quale Ratzinger vuole richiamare l’attenzione: « Il Concilio ci ha giustamente ricordato che liturgia significa anche actio, azione, e ha chiesto che ai fedeli sia assicurata una actuosa participatio, una partecipazione attiva ».

Mi sembra ottima cosa, dico.

« Certo – conferma –. E un concetto sacrosanto che però, nelle interpretazioni postconciliari, ha subito una restrizione fatale. Sorse cioè l’impressione che si avesse una “partecipazione attiva” solo dove ci fosse un’attività esteriore, verificabile: discorsi, parole, canti, omelie, letture, stringer di mani... Ma si è dimenticato che il Concilio mette nella actuosa participatio anche il silenzio, che permette una partecipazione davvero profonda, personale, concedendoci l’ascolto interiore della Parola del Signore. Ora, di questo silenzio non è restata traccia in certi riti ».

Suoni e arte per l’Eterno

E qui si aggancia un suo discorso sulla musica sacra, quella musica tradizionale dell’Occidente cattolico alla quale il Vaticano II non ha certo misurato le lodi, esortando non solo a salvare ma a incrementare « con la massima diligenza » questo che chiama « il tesoro della Chiesa »; e, dunque, dell’umanità intera.
« Invece, molti liturgisti hanno messo da parte quel tesoro, dichiarandolo “accessibile a pochi”, l’hanno accantonato in nome della “comprensibilità per tutti e in ogni momento” della liturgia postconciliare. Dunque, non più “musica sacra” – relegata, semmai, per occasioni speciali, nelle cattedrali – ma solo “musica d’uso”, canzonette, facili melodie, cose correnti ».

Anche qui il Cardinale ha facile gioco nel mostrare l’allontanamento teorico e pratico dal Concilio « secondo il quale, oltretutto, Ia musica sacra è essa stessa liturgia, non ne è un semplice abbellimento accessorio ». E, secondo lui, sarebbe anche facile mostrare come « l’abbandono della bellezza » si sia dimostrata, alla prova dei fatti, un motivo di « sconfitta pastorale ».

Dice: « È divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all’utile. L’esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia “semplice” non significa misera o a buon mercato: c’è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica ». «Anche qui – continua – si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della “partecipazione attiva”: ma questa “partecipazione” non può forse significare anche il percepire con lo sprito, con i sensi? Non c’è proprio nulla di “attivo” nell’ascoltare, nell’intuire, nel commuoversi? Non c’è qui un rimpicciolire l’uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo di far cantare tutto il popolo, opporsi alla “musica d’uso”: significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali ».

Questo discorso sulla musica sacra – intesa anche come simbolo di presenza della bellezza “gratuita” nella Chiesa – sta particolarmente a cuore a Joseph Ratzinger che vi ha dedicato pagine vibranti: « Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica “corrente” cade nell’inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche “città della gloria”, luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più profonde dell’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano ».
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 « L’unica, vera apologia del cristianesimo può ridursi a due argomenti: i santi che la Chiesa ha espresso e l’arte che è germinata nel suo grembo. Il Signore è reso credibile dalla magnificenza della santità e da quella dell’arte esplose dentro la comunità credente, più che dalle astute scappatoie che l’apologetica ha elaborato per giustificare i lati oscuri di cui purtroppo abbondano le vicende umane della Chiesa. Se la Chiesa deve continuare a convertire, dunque a umanizzare il mondo, come può rinunciare nella sua liturgia alla bellezza, che è unita in modo inestricabile all’amore e insieme allo splendore della Resurrezione? No, i cristiani non devono accontentarsi facilmente, devono continuare a fare della loro Chiesa un focolare del bello – dunque del vero – senza il quale il mondo diventa il primo girone dell’inferno ».

Mi parla di un teologo famoso, uno dei leaders del pensiero post-conciliare che gli confessava senza problemi di sentirsi un “barbaro”. Commenta: « Un teologo che non ami l’arte, la poesia, la musica, la natura, può essere pericoloso. Questa cecità e sordità al bello non è secondaria, si riflette necessariamente anche nella sua teologia».

Solennità, non trionfalismo

Ancora in questa linea, Ratzinger non è affatto persuaso della validità di certe accuse di “trionfalismo”, nel nome delle quali si sarebbe gettato via con eccessiva facilità molto dell’antica solennità liturgica: « Non è affatto trionfalismo la solennità del culto con cui la Chiesa esprime la bellezza di Dio, la gioia della fede, la vittoria della verità e della luce sull’errore e sulle tenebre. La ricchezza liturgica non è ricchezza di una qualche casta sacerdotale; è ricchezza di tutti, anche dei poveri, che infatti la desiderano e non se ne scandalizzano affatto. Tutta la storia della pietà popolare mostra che anche i più miseri sono sempre stati disposti istintivamente e spontaneamente a privarsi persino del necessario pur di rendere onore con la bellezza, senza alcuna tirchieria, al loro Signore e Dio ».

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« Per un certo modernismo neo-clericale il problema della gente sarebbe il sentirsi oppressa dai “tabù sacrali”. Ma questo, semmai, è il problema loro, di clericali in crisi. Il dramma dei nostri contemporanei è, al contrario, il vivere in un mondo sempre più di una profanità senza speranza. L’esigenza vera oggi diffusa non è quella di una liturgia secolarizzata, ma, al contrario, di un nuovo incontro con il Sacro attraverso un culto che faccia riconoscere la presenza dell’Eterno ».

Ma è sotto accusa, per lui, anche quello che definisce « l’archeologismo romantico di certi professori di liturgia, secondo i quali tutto ciò che si è fatto dopo Gregorio I Magno sarebbe da eliminare come un’incrostazione, un segno di decadenza. A criterio del rinnovamento liturgico non hanno posto la domanda: “Come deve essere oggi? “, ma l’altra: “Come era allora? “. Si dimentica che la Chiesa è viva, che la sua liturgia non può éssere pietrificata in ciò che si faceva nella città di Roma prima del Medio Evo. In realtà, la Chiesa medievale (o anche, in certi casi, la Chiesa barocca) hanno proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la legge cattolica della sempre migliore e più profonda conoscenza del patrimonio che ci è stato affidato. Il puro arcaismo non serve, così come non serve la pura modernizzazione ».

Per Ratzinger, poi, la vita cultuale del cattolico non può essere ridotta al solo aspetto “comunitario”: deve continuare ad esserci un posto anche per la devozione privata, seppure ordinata al “pregare insieme”, cioè alla liturgia.

Eucaristia: nel cuore della fede

Aggiunge poi: « La liturgia, per alcuni sembra ridursi alla sola eucaristia, vista quasi sotto l’unico aspetto del “banchetto fraterno”. Ma la messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l’ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. E la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo: dunque, la sua efficacia salvifica si estende a tutti gli uomini, presenti e assenti, vivi e morti. Dobbiamo riprendere coscienza che l’eucaristia non è priva di valore se non si riceve la Comunione: in questa consapevolezza, problemi drammaticamente urgenti come l’ammissione al sacramento dei divorziati risposati possono perdere molto del loro peso opprimente ».

Vorrei capire meglio, dico.

« Se l’eucaristia — spiega — è vissuta solo come il banchetto di una comunità di amici, chi è escluso dalla ricezione dei Sacri Doni è davvero tagliato fuori dalla fraternità. Ma se si torna alla visione completa della messa (pasto fraterno e insieme sacrificio del Signore, che ha forza ed efficacia in sé, per chi vi si unisce nella fede), allora anche chi non mangia quel pane partecipa egualmente, nella sua misura, dei doni offerti a tutti gli altri ».

All’eucaristia e al problema del suo “ministro” (che può essere solo chi sia stato ordinato in quel « sacerdozio ministeriale o gerarchico » il quale, riconferma il Concilio, « differisce essenzialmente e non solo di grado » dal « sacerdozio comune dei fedeli », Lumen Gentium, n. 10) il card. Ratzinger ha dedicato uno dei primi documenti ufficiali a sua firma della Congregazione per la fede. Nel « tentativo di staccare l’eucaristia dal legame necessario con il sacerdozio gerarchico », vede un altro aspetto di certa “banalizzazione” del mistero del Sacramento.
È lo stesso pericolo che individua nella caduta dell’adorazione davanti al tabernacolo: « Si è dimenticato — dice — che l’adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione “individualistica” ma della prosecuzione o della preparazione, del momento comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli “archeologi” della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella processione non c’era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire,di portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato ».

«Non c’è solo la messa »

Aggiunge: « L’eucaristia è il nucleo centrale della nostra vita cultuale, ma perché possa esserne il centro abbisogna di un insieme completo in cui vivere. Tutte le inchieste sugli effetti della riforma liturgica mostrano che certa insistenza pastorale solo sulla messa finisce per svalutarla, perché è come situata nel vuoto, non preparata e non seguita com’è da altri atti liturgici. L’eucaristia presuppone gli altri sacramenti e ad essi rinvia. Ma l’eucaristia presuppone anche la preghiera in famiglia e la preghiera comunitaria extra-liturgica ».

A cosa pensa in particolare?

« Penso a due delle più ricche e feconde preghiere della cristianità, che portano sempre e di nuovo nella grande corrente eucaristica: la Via Crucis e il Rosario. Dipende anche dal fatto che abbiamo disimparato queste preghiere se noi oggi ci troviamo esposti in modo così insidioso alle lusinghe di pratiche religiose asiatiche ».

Infatti, osserva, « se recitato come tradizione vuole, il Rosario porta a cullarci nel ritmo della tranquillità che ci rende docili e sereni e che dà un nome alla pace: Gesù, il frutto benedetto di Maria; Maria, che ha nascosto nella pace raccolta del suo cuore la Parola vivente e poté così diventare madre della Parola incarnata. Maria è dunque l’ideale dell’autentica vita liturgica. È la Madre della Chiesa anche perché ci addita il compito e la meta più alta del nostro culto: la gloria di Dio, da cui viene la salvezza degli uomini ».


V. Messori, Rapporto sulla Fede. Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Ed. San Paolo, 1985, p. 123 ss.