La mensa sulla quale la Chiesa celebra i santi Misteri
di don Enrico Finotti
Per comprendere in profondità la natura e la funzione dell’altare nella liturgia cattolica è indispensabile una adeguata indagine storica sulla sua origine e sul suo coerente sviluppo. Essa tuttavia non basterà. Infatti, si potranno capire le successive scelte storiche in ordine all’altare approfondendo la teologia sottesa, in base alla quale l’altare assunse forme e arredi consoni alla visione teologica che si voleva trasmettere.
Mensa, Ara e Croce
E’ normale che venga individuata l’origine dell’altare cristiano nella mensa del cenacolo, sulla quale nostro Signore istituì il Sacrificio eucaristico e il Convivio sacro del suo Corpo e del suo Sangue. Veramente la mensa dell’ultima cena è il referente originario e originante dell’unico e definitivo Sacrificio del Nuovo Testamento. Da qui parte quell’oblazione pura che dall’oriente all’occidente è offerta fra le genti e in ogni luogo (Ml 1, 11). Occorre tuttavia approfondire e non fermarsi ad una facile visione superficiale, che potrebbe svuotare quel Sacrificio della sua profonda sostanza per fissarsi nella debole espressione di un ordinario convito umanitario ed usuale.
In realtà, quando la famiglia ebraica si riuniva per la cena pasquale si relazionava in modo intimo e indissolubile con l’altare del tempio di Gerusalemme, sul quale in antecedenza veniva immolato l’agnello, che portato sulla mensa domestica consentiva la celebrazione della Pasqua. Senza quella vittima sacrificata sull’ara del tempio e trasferita poi sulla mensa delle case, la cena pasquale perdeva la sua identità. La relazione all’immolazione dell’agnello nel tempio era tanto necessaria che, per celebrare la Pasqua, si doveva alloggiare a Gerusalemme o nelle vicinanze. Non era, infatti, possibile stare fuori Gerusalemme, ossia lontani dal tempio, perché dal tempio veniva l’agnello immolato e ad esso rimandava. La cena pasquale ebraica era dunque una cena sacrificale, un banchetto mediante il quale si partecipava della vittima sacrificale. Ed ecco che mensa ed ara si trovano intimamente unite, geneticamente e indissolubilmente interiori l’una all’altra. Tolta l’ara è compromessa totalmente la natura di quella specifica mensa imbandita per la cena pasquale.
Nel cenacolo però il Signore opera la novità e crea la realtà di quello che fino ad ora era figurato nelle antiche profezie e nel sacrificio dell’agnello. Egli immola incruentamente se stesso nel contesto ancora visibile del segno profetico dell’agnello, che come ombra sta ormai per scomparire e cedere il posto alla realtà, Cristo Gesù, col suo Corpo e il suo Sangue immolati nelle specie sacramentali del pane e del vino. E’ evidente che, nel mentre lo sguardo del Signore si ritrae ormai dalla figura dell’agnello che passa e dall’ara del tempio su cui fu immolato, si fissa con divina preveggenza e immedesimazione mistica sull’ara della Croce, che lo attende sul Calvario. Egli, infatti, anticipa sacramentalmente sulla mensa della cena e nella forma del convito il sacrificio cruento che avrebbe offerto di li a poco sull’altare della Croce. La Croce, quindi entra nel cenacolo si pianta sulla sua mensa e, mentre l’antica ara del tempio si ritira, avendo assolto la sua funzione profetica, si erge ormai sovrana quale sostanza interiore di ciò che si compie nell’ultima cena e che si ripeterà per tutti i secoli fino alla fine del mondo per comando del Signore: Fate questo in memoria di me.
Mensa, Ara e Croce, ecco i tre simboli interiori e indissolubili del mistero grande che si compie nell’istante consacratorio quando il Signore, pronunziando le parole divine - Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…-, istituisce il Sacrificio perenne, senza più tramonto. Le tre figure di riferimento – mensa, ara e croce – prima ancora di trovare espressione fisica nell’altare cristiano sono presenti nella sostanza stessa dell’atto sacrificale di Cristo e costituiscono, ancor prima di trovare la loro traduzione materiale nella liturgia, la forma interiore dell’atto sacrificale del Signore. Nel Cenacolo è visibile solo la Mensa, l’Ara del tempio è richiamata dall’agnello immolato, la Croce ancora non si vede, ma tutto è presente e unitario nella mente divina e nel cuore amante del Salvatore.
A questo punto si comprende bene perché la Chiesa, avuta la libertà religiosa (IV sec.) poté procedere alla costruzione dell’altare cristiano nel modo che la storia e l’arte ci attestano. Appena possibile la semplice mensa lignea, usata nelle case nei secoli della persecuzione, divenne l’altare marmoreo in tutto simile all’ara sia ebraica che pagana, ma eloquente per esprimere ciò che l’Eucarestia era in realtà, il Sacrificio di Cristo. Al contempo tale ara monumentale e preziosa non abbandonò la mensa, ma la assunse in sé adattandosi ad accogliere i santi doni conviviali e rivestendosi con una candida tovaglia. Infine, quando la Croce gloriosa del Signore potè essere rappresentata come un vessillo di vittoria e annunziare al contempo la sua Morte, la sua Risurrezione, la sua Ascensione e la sua mirabile Venuta nella gloria, non tardò a trovare il suo posto più logico e conveniente proprio sulla mensa di quell’ara sulla quale il sacrificio della Croce si attualizzava sacramentalmente.
Ed ecco che Mensa, Ara e Croce, possono costituire anche in modo visibile, nello splendore delle basiliche monumentali e nella solennità dei riti pontificali, il segno materiale e prezioso del mistero che si compie sotto la coltre del sacramento. Non si trattò certamente di una corruzione della semplicità delle origini, ma di uno sviluppo necessario e legittimo, coerente con la struttura interiore del mistero e che si esprimerà nel pensiero cristiano nella successiva sistemazione teologica relativa al dogma eucaristico. In tal senso, la Mensa, l’Ara e la Croce, sono talmente collegate alle dimensioni costitutive del mistero fin dalla sua istituzione da essere ormai ingredienti liturgici insopprimibili nell’edificazione dell’altare cristiano. Esso, infatti, per esprimere in modo completo ed equilibrato l’intero mistero del Sacrificio conviviale dell’eucaristia, dovrà avere la monumentalità dell’Ara, la dignità della Mensa e la gloria del vessillo della santa Croce.
L’altare sta in alto
L’altare sta in alto e se non eleva perde la sua natura più vera. Si può in tal modo affermare una semplice regola: all’altare si ascende come al battistero si discende. Se l’etimologia alta-ara potrebbe essere ancora discussa e non da tutti è accettata, la storia dell’ altare cristiano e ancor prima di quello ebraico e pagano, afferma la sua posizione elevata. In particolare, non potendo accedere all’altare mediante i gradini per questioni di purità cultuale, nel tempio di Gerusalemme si saliva mediante una rampa (Es 20, 24-26). Ma è soprattutto nell’approfondire l’atto liturgico che si celebra sull’altare, il sacrificio, che emerge in tutta chiarezza la necessità della posizione alquanto elevata dell’altare.
Nell’offerta del sacrificio si cerca il rapporto con Dio, ci si eleva a lui e tutta la ritualità porta a proiettarsi verso il cielo, lì dove l’intuito religioso universale contempla il trono di Dio: il corpo sale i gradini dell’altare, le mani si elevano verso l’alto, lo sguardo fissa le profondità sideree dei cieli. Ecco le movenze più spontanee che il sacerdote assume nell’azione sacrificale, ed è logico che tale spinta interiore sia tradotta visibilmente nei gesti del corpo e fissata materialmente nella posizione alta e maestosa dell’altare. Possiamo allora individuare nella struttura interiore (metafisica) dell’altare due movimenti profondamente correlati e concordi nell’esprimere la direzione ascendente. L’altare sale verso la Maestà divina e segue le volute dell’incenso che ascendono in sacrificio di soave odore. Esso guarda certamente il popolo, ma non per muoversi verso di esso, quanto per attrarlo nella sua ascesa cultuale.
Per questo l’altare assumerà una posizione otticamente centrale, ben visibile da tutta l’assemblea liturgica, per poter trainare dolcemente il popolo di Dio nel movimento ascendente dell’oblazione sacrificale, che sulla sua mensa si compie nel mistero sacramentale. E’ quindi consono alla natura più intima dell’altare salire e far salire tutti coloro che all’altare volgono lo sguardo adorante verso la contemplazione della Gloria divina. Il moto esattamente inverso, invece, si produce per la mensa. Essa deve discendere e rivolgersi fisicamente il più possibile verso i fedeli. Essa, infatti, porge la vittima immolata quale cibo e bevanda di salvezza. Questo moto del discendere e del rendersi prossima all’assemblea liturgica le è quindi necessario e connaturale ed è pienamente conforme al suo stesso essere mensa che nutre. Questo duplice ruolo di altare che ascende e attrae e di mensa che discende e si avvicina ai fedeli si esplica nella liturgia eucaristica che distingue la prece consacratoria in cui si compie il sacrificio, dai riti di comunione in cui la vittima immolata è data in cibo ai commensali.
Possiamo allora rilevare che gli altari storici esprimevano la loro natura ascendente-sacrificale e, senza mai rinunciare alla mensa in essi incorporata, la integravano ulteriormente con la balaustra, che nella sua posizione bassa e prossima ai fedeli consentiva la distribuzione del Corpo del Signore. Gli altari postconciliari, invece sembrano aver abbandonato il loro moto saliente in favore di una totale riduzione al loro ruolo di mensa. In tal modo essi non sono più in alto, ma in piano e fisicamente il più possibile prossimi all’assemblea. Il moto discendente e rivolto al popolo proprio della mensa è diventato esclusivo e totalizzante. Tale realtà si nota anche negli altari resi definitivi e anche dedicati, certamente solidi nella loro struttura marmorea, ma sempre e solo mensa. In altri termini si potrebbe dire che l’intera celebrazione del Sacrificio eucaristico è ridotta prevalentemente al rito di comunione. Certamente il Sacrificio si compie, ma la nuova configurazione dell’altare non lo esprime più come prima avendo rinunciato a modellare in se stesso le caratteristiche classiche che sono proprie dell’ara sacrificale. Per questo fu facile anche la rimozione così vasta della balaustra, avendo l’altare stesso assunta la sua funzione.
Ebbene, oggi si ode l’allarme del Magistero sulla crisi della dimensione sacrificale dell’Eucaristia. Non potrebbe essere opportuna allora una nuova e più profonda riflessione sulle modalità liturgiche dell’altare? E’ da ritenere ormai acquisita ed insuperabile la conformazione dell’altare alla forma della sola mensa, senza più ricuperare anche quella dell’ara elevata e maestosa? Non potrebbe nel tempo questa riduzione dell’altare condizionare l’equilibrio del dogma eucaristico, che si trasmette nel cuore dei fedeli primariamente nella correttezza del rito e dei luoghi liturgici che ad esso sono connessi? Gli altari storici sono da congedare definitivamente e il loro ruolo è ormai del tutto museale? La storia della Chiesa e della sua liturgia non è forse ancora aperta ad uno sviluppo coerente ed organico, che potrebbe trovare per l’altare nuove sintesi in perfetto accordo con la tradizione dei secoli? Credo che il Santo Padre Benedetto XVI stia richiamando alla Chiesa proprio queste problematiche e in tal senso il suo Magistero ha la forza della profezia.
> FONTE : http://www.zenit.org/article-25298?l=italian
L’altare nella storia
La storia dell’altare cristiano è molto varia e manifesta la ricchezza insondabile del mistero della nostra fede. Ogni epoca presenta caratteristiche proprie e si esprime con genialità, secondo le diverse sottolineature e sensibilità teologiche dell’identico dogma della fede. Possiamo catalogare quattro fasi nello sviluppo dell’altare: l’altare antico, medioevale, barocco e attuale.
L’altare antico col ciborio
Il ciborio conferisce all’altare antico una dignità speciale senza intaccarne la struttura, ma circondandola di venerazione e di solennità. Mediante il ciborio la piccola massa dell’altare si impone nello spazio vasto e solenne della basilica e ne è assicurata la sua centralità. Le sue colonne rimandano all’immagine biblica della “Sapienza che si è costruita la casa e ha intagliato le sue sette colonne…ha preparato il vino e ha imbandito la tavola” (Pr 9, 1-2) e la loro staticità afferma la solidità del mistero dell’Incarnazione. Tutto questo si realizza veramente nel sacro Convito dell’Eucaristia. La sua copertura ispira anche l’epiclesi visiva dello Spirito Santo, che è invocazione sempre presente nel divin Sacrificio e la sua cupola apre sull’orizzonte celeste e sovrasta quell’altare sul quale veramente, in mysterio, il cielo discende sulla terra.
L’altare medioevale col dorsale
L’erezione del dorsale che si sviluppa dall’epoca gotica fino ai nostri giorni dimostra visivamente la necessità di descrivere con il genio dell’arte le dimensioni del mistero che sull’altare si compie. Sia gli eventi della vita del Signore, come quelle della Madonna e dei Santi non sono che aspetti parziali e applicazioni particolari dell’unico sacrificio di Cristo, che viene attuato sacramentalmente nella celebrazione. La varietà dei temi descritti nelle pale degli altari e nelle monumentali strutture dorsali che si sviluppano e salgono dalla mensa dell’altare sono la proclamazione visiva dei mirabili e molteplici frutti dell’unico Sacrificio di Cristo. Il mistero eucaristico si traduce mediante il genio dell’arte nell’infinito prisma dei Santi, che ne sono i frutti eccelsi e il segno glorioso della sua intima ed inesauribile vitalità. Ciò che l’occidente ha espresso col dorsale dell’altare, l’oriente lo esprime con l’iconostasi. Mentre il primo mostra al popolo le meraviglie della grazia sovrastando il sacerdote nell’atto di compiere il divin sacrificio, l’iconostasi orientale comunica al popolo lo splendore dei misteri e dei santi velando il sacerdote che celebra la divina liturgia. Oriente e occidente quindi si trovano d’accordo nella necessità di educare al mistero con la bellezza dell’arte, che a guisa di viticci nasce dall’altare, lo circonda e lo sovrasta offrendo i tanti capolavori secolari dei nostri altari.
L’altare barocco col tabernacolo
Col Concilio Tridentino il tabernacolo viene permanentemente intronizzato sull’altare e in tal modo si sana la secolare bipolarità tra altare e tabernacolo dei secoli precedenti. Effettivamente il tabernacolo ha il suo luogo proprio sulla mensa dell’altare dove il Sacramento nasce, il Sacrificio è offerto e il Pane santo è donato. Nessun luogo è più consono al tabernacolo che quello dell’altare stesso, che così rimane sempre vivo e ‘acceso’ anche fuori della celebrazione. Niente può conferire maggior dignità ed identità all’altare come il Santissimo Sacramento. Infatti, mentre l’altare rimane pur sempre un simbolo sacro, il Sacramento è la presenza viva e personale di Colui che è realmente e permanentemente ‘altare, vittima e sacerdote’. A livello di principio quindi il legame altare e tabernacolo è indissolubile e ogni separazione è sempre precaria e fonte di possibile squilibrio.
L’altare attuale verso il popolo
L’intento pastorale della recente riforma liturgica ha offerto la possibilità - non l’obbligatorietà - della celebrazione verso il popolo. Essa permette certamente molte opportunità, soprattutto pastorali, e consente di evidenziare aspetti che arricchiscono il modo di celebrare il divin Sacrificio. E’ tuttavia necessario non assolutizzare questa concessione e non indulgere ad un nuovo fissismo su una forma ancora recente in via di valutazione. L’apertura mentale ai secoli della storia liturgica, unita ad una inevitabile indagine teologica, deve rendere disponibile la Chiesa a soluzioni varie e a prospettive di nuove sintesi.
Fino al Vaticano II le diverse tipologie degli altari, espressioni delle diverse epoche storiche, di differenti visioni teologiche, di diverse prestazioni liturgiche e di gusti e tecniche artistiche successive sono vissute insieme in pace. I sacerdoti e i fedeli non avevano difficoltà a riconoscere in forme diverse di altari e in stili differenti l’unico altare cristiano che, dall’origine, cammina nel tempo assumendo il genio dei secoli. Si celebrava con spontaneità e senza percepire difficoltà alcuna sull’altare antico, su quello rinascimentale, su quello barocco e su quello di recente costruzione. Dopo il Vaticano II sembra che quella continuità pacifica e normale si sia interrotta. Tutti gli altari precedenti improvvisamente sono stati congedati come inadatti. Essi certo sono ancora ammirati, ma dichiarati inutilizzabili. Vi è quindi una frattura tra il prima e il dopo, fatto che non si era verificato in passato, ma le forme nuove degli altari non cancellavano le precedenti e con esse convivevano in pace. Ed ecco che nelle nostre chiese storiche dalle più piccole alle grandi basiliche l’altar maggiore di sempre domina sovrano, ma resta muto e spoglio di ogni sua insegna. Osserva dall’alto della sua maestà una struttura debole, spessissimo mobile, di dimensioni ridotte che riceve ormai da anni gli onori liturgici e offre la sua mensa alla celebrazione del gran Sacrificio.
Cosa è avvenuto? Come mai questo congedo illimitato di tutti gli altari storici? Saranno licenziati per sempre? Essi ricevono la visita guidata dei turisti, sono fotografati, ammirati, descritti in appositi opuscoli e suscitano tanto stupore, sia nella loro architettura monumentale, come nella preziosità dei loro materiali e nella genialità delle loro sculture e pitture, ma il loro sguardo sembra triste. Essi non sono più l’altar maggiore e non possono più pretendere gli onori liturgici. La loro splendida arte li assicura almeno in ordine alla loro sussistenza. Ma non tutti ebbero tale sorte: alcuni di loro furono mutilati o anche del tutto rimossi. I loro migliori amici sembrano essere proprio fuori della chiesa. Coloro che stanno in chiesa li guardano piuttosto male e se potessero … Ma quelli che in qualche modo li osservano da lontano e li visitano quasi da ospiti, li valutano e sempre più si sono organizzati per evitare la loro estinzione.
Perché è successo questo fenomeno? Certamente hanno influito due cause, che se buone nel principio, hanno degenerato in applicazioni estreme: la possibilità di celebrare rivolti al popolo e l’intento pastorale di essere il più possibile vicini all’assemblea. Ed ecco che estremizzando queste indicazioni ci si risolse in modo univoco a celebrare assolutamente, sempre e in ogni chiesa verso il popolo. Inoltre si intese la vicinanza al popolo come una prossimità fisica a tutti gli effetti, ossia la visibilità ottica, che richiede distanza ed è più efficace in ordine alla partecipazione, era ritenuta anticonciliare e ogni maestà doveva essere del tutto rimossa dalla forma dell’altare. Esso doveva assumere la rigorosa ed esclusiva forma di una comune mensa. Sguardo al popolo e vicinanza fisica ad esso intesa in modo plebiscitario non poté che congedare ogni altro altare precedente e renderlo inutilizzabile.
Con questi criteri l’altare con dorsale è del tutto giudicato inabile, ma anche l’antico altare con ciborio può essere lasciato in ombra perché troppo lontano dalla gente. Ma fissare in modo assoluto e insuperabile i due criteri sopra esposti e dichiararli gratuitamente dettati conciliari è difforme dalla realtà. Né il Concilio ha imposto la celebrazione verso il popolo, né ha dichiarato l’inabilità dgli altari storici, né ha ordinato una vicinanza fisica all’assemblea ottenuta ad ogni prezzo. Si tratta allora di uscire dal pregiudizio così diffuso nel postconcilio e di ripensare ad una opportuna riconciliazione.
Credo che non sia possibile, relegare nell’inutilità e nell’abbandono i grandi altari storici, ma la liturgia stessa ne avrebbe giovamento se, rispettando dovutamente e intelligentemente il genio e la tipologia della diverse chiese si celebrasse in modo diversificato. Allora non vi sarà frattura, ma continuità e, soprattutto, si potrà uscire da quella situazione provvisoria di altari fragili e inadatti, che da decenni ormai occupano le zone presbiterali.
Credo che il messaggio del Papa Benedetto XVI nel celebrare sull’altare della cappella Sistina sia su questa linea e intenda suscitare una mentalità al riguardo più equilibrata, possibilista e meno fissista.
FONTE: http://www.zenit.org/article-25489?l=italian