Nel giorno della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre 2007, è entrato in vigore il motu proprio “Summorum Pontificum“, con il quale Benedetto XVI ha riaperto nuovi spazi per l’uso liturgico del messale antico. Questo fatto rappresenta l’occasione per accennare ad alcune questioni di fondo, che potrebbero influire sulla recezione del provvedimento.
1. Il motu proprio incide in un tessuto ecclesiale in cui le polarizzazioni non mancano di certo. Esse si rivelano particolarmente accentuate quanto si tratta della questione liturgica, e non a caso. Si tratta infatti del cuore vivo della vita della Chiesa; il che - se non giustifica gli eccessi polemici - rende comunque comprensibile la passione di chi difende rispettivamente, con contrapposti argomenti, “il nuovo rito” e “il vecchio rito”, come pure il discorso di chi prospetta la possibilità di una “terza via”, che si concreterebbe nella cosiddetta “riforma della riforma”, da intendersi come soluzione diversa dal semplice ritorno all’antico. Non è questo il luogo per ripercorrere tutta questa discussione.
Va però detto che occorre insistere perché si abbia un’adeguata percezione della serietà dei problemi che emergono dall’attuale situazione del culto. Non ci si vuole riferire qui al fenomeno degli abusi liturgici gravi (che pure ci sono), bensì al tenore medio delle celebrazioni, soprattutto di quelle domenicali nelle parrocchie. Esso denota una diffusa perdita del senso del sacro, la quale si rivela in tanti dettagli, i quali diventano fortemente significativi se considerati tutti insieme, perché conferiscono alla celebrazione un particolare timbro espressivo, forse più idoneo all’espressione delle soggettività dei partecipanti, ma anche, nel contempo, meno consono all’esigenza di manifestazione del Mistero.
Si tratta del grave rischio della riduzione del Mistero - che ci precede e ci eccede - a una variabile dipendente, da intendersi quale forma della manifestazione del divino che è in noi (nella soggettività della “comunità celebrante”), secondo un’impostazione che tradisce influssi di tipo immanentistico; a questo rischio si connette la parallela "riduzione" del sacro, che può prendere le forme tanto della tendenziale soppressione dell’antitesi sacro/profano (considerata un retaggio pagano dalla quale Cristo ci avrebbe liberati), quanto dell’apertura a un soggettivismo esposto a influssi neopaganeggianti. Queste deviazioni e questi rischi non vanno attribuiti al rito post-conciliare considerato in sé stesso: rito della cui ortodossia non è lecito dubitare, esprimendo esso la “testimonianza di una fede immutata” (cfr. al riguardo il proemio dell’ordinamento generale del Messale Romano secondo la terza edizione tipica).
Essi derivano piuttosto da un inadeguato modo di celebrare, che trova la propria scaturigine in una serie di cause prossime e remote, le quali sfuggono a un’analisi semplicistica. A questo riguardo si ha l’impressione che questa situazione non sia casuale, e quindi non sia meramente riferibile a trascuratezza o sciatteria, ma sottintenda discutibili declinazioni della teologia del Mistero e dell’antropologia del sacro; il fatto che dette concezioni siano nella maggior parte dei casi inespresse, quasi latenti, complica molto le cose, perché è più difficile intervenire quando si è formato un sentire diffuso ma parzialmente inconsapevole, che permea di sé una notevole parte del clero e del laicato. La questione liturgica si colloca quindi al punto di intersezione di problemi assai seri; non è una questione meramente disciplinare, o solo estetica. Una volta che si sia preso atto di questo contesto di riferimento, occorre cercare di cogliere due profili dell’intervento pontificio, che appaiono essenziali.
2. Il primo profilo è di carattere teleologico: si tratta di un atto diretto a unire maggiormente la Chiesa attorno al suo Signore, e non certo ad accentuare le tensioni esistenti. La divisione potrebbe derivare solo dagli opposti fraintendimenti di chi volesse vedere in esso, da un lato, la legittima “rivincita” dell’Antico nei confronti del Nuovo; dall’altro, l’estrema - quasi condiscendente - concessione ai residui nostalgici dell’Antico, inidonea come tale a scalfire minimamente le posizioni conquistate dal Nuovo a seguito della riforma liturgica. Le due posizioni sono espressioni di opposti atteggiamenti, entrambi gravidi di rischi. Il primo rischio è quello del fissismo. Al riguardo bisogna osservare che la liturgia non può essere il luogo della mera esclusiva ripetizione del passato in ogni dettaglio: basti pensare alle plurisecolari vicende che, nella feconda interazione tra innovazioni liturgiche e riflessione teologica, hanno infine portato alla proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione.
Il secondo rischio, di segno opposto, conduce a piegare la liturgia a concezioni prassistiche tese a rispondere alle esignze del presente, magari con l’obiettivo di plasmare una ipotetica Chiesa rivolta al futuro, e come tale contrapposta a quella del passato. Alla radice, quindi, si rinviene il fondamentale problema del legame che c’è tra la riforma liturgica ed il Vaticano II, con il relativo “conflitto delle interpretazioni”. Orbene, il motu proprio va letto nel suo contesto di riferimento, che appare essere quello della ermeneutica della riforma, che postula il “rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa”, illustrata da Benedetto XVI nel fondamentale discorso alla curia romana per il Natale del 2005.
La formula “due usi dell’unico rito romano” costituisce la trascrizione canonica e liturgica di questa ermeneutica, e deve essere fatta oggetto, in questa prospettiva, di attento approfondimento. Certamente essa elimina alla radice ogni possibilità di configurare, per così dire, dei “partiti ecclesiastico-liturgici”: il partito tridentino e di san Pio V da un lato; il partito del Vaticano II e di Paolo VI dall’altro. La frattura diacronica è esclusa, in linea di principio, anche dalla considerazione della pari dignità intrinseca delle due forme liturgiche, la quale sembra trovare espressione nell’art. 2 del motu proprio, che riconosce ai sacerdoti di rito latino il diritto di usare, a propria scelta e senza bisogno di alcun permesso, il messale antico o quello nuovo, nelle messe celebrate senza il popolo (messe alle quali, alla stregua del successivo art. 4, possono “essere ammessi - osservate le norme del diritto - anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà'”).
Vero è che il pericolo non discende - a ben vedere - soltanto dalla possibilità di una frattura diacronica, bensì anche dall’eventualità di una frattura “sincronica”, che rappresenterebbe un superamento solo apparente della prima. Essa potrebbe derivare da una lettura minimalista del motu proprio, la quale avrebbe l’effetto di configurare un insieme di comunità ecclesiali reciprocamente isolate nelle rispettive tradizioni rituali, con il conseguente rischio di trasferire all’interno della Chiesa le dinamiche della post-modernità e del multiculturalismo. Questo pericolo è attuale, e risulta aggravato dalla diffusa esaltazione della soggettività autoreferenziale e narcisistica, che - applicata alla liturgia - tende a trovare il proprio referente in modalità cultuali differenziate in ragione dell’effetto di gratificazione indotto sui fruitori; il che costituisce, a ben vedere, la completa negazione dell’autentica natura dell’evento liturgico. Va invece affermata con forza l’esigenza di un autentico riconoscimento reciproco, che sia effettivo e non di mero principio: nel senso che il cattolico legato alla forma rituale antica dovrà sforzarsi di accogliere le ragioni e le ricchezze della forma nuova, senza precludersi in linea di principio la possibilità di attingervi prendendovi parte. E viceversa.
3. Un secondo profilo rilevante è di carattere metodologico. Il provvedimento pontificio è volto a promuovere l’ampliamento della sfera di libertà nella Chiesa, ed è assai singolare che susciti perplessità proprio in alcuni ambiti ecclesiali che delle varie manifestazioni di questa libertà hanno fatto - e non sempre a ragione - un autentico cavallo di battaglia. La questione liturgica, in questo modo, viene de-ideologizzata, e resta affidata a sviluppi che non escludono ipotesi di arricchimento reciproco, secondo l’auspicio espresso dallo stesso pontefice nella lettera ai vescovi che ha accompagnato la pubblicazione del motu proprio.
4. Non appare superfluo ricordare che Colui che presiede sia all’unità della Chiesa sia alla pluriforme varietà delle manifestazioni della sua vita è lo Spirito Santo. Il motu proprio risponde, in ultima analisi, all’esigenza di non spegnere lo Spirito, di esaminare ogni cosa e tenere ciò che è buono (cfr. 1 Tessalonicesi 5, 19-21); e proprio per questo esso è espressione della cura pastorale intesa nel suo significato più alto. Ma il nesso dello Spirito con il tema liturgico è anche un nesso intrinseco. Lo Spirito Santo è il vero invisibile mistagogo della celebrazione, che conduce la Chiesa-Sposa all’incontro con il suo Signore: “Che cos’altro è, infatti, la liturgia se non l’unisona voce dello Spirito Santo e della Sposa, la santa Chiesa, che gridano al Signore Gesù: Vieni? Cos’altro è la liturgia se non quella fonte pura e perenne di acqua viva alla quale ogni assetato può attingere gratuitamente il dono di Dio (cfr Giovanni 4,10)?” (Giovanni Paolo II, lettera apostolica "Spiritus et Sponsa").
L’orientamento impresso dallo Spirito è quindi un orientamento anagogico, di elevazione verso l'alto: in ciò - e soltanto in ciò - è possibile trovare il rimedio alle menzionate riduzioni, di tipo “passatocentrico”, “futurocentrico” o “soggettocentrico”, della natura della liturgia. Non si tratta di guardare solo indietro, o solo avanti, o solo nell’intimo del proprio “io” individuale o di gruppo. Si tratta piuttosto di guardare prima di tutto in alto, verso il Signore, che celebra la liturgia celeste, eterna; e che tornerà da Oriente quando si manifesterà nella gloria. Non è questa la sede per richiamare tutti i luoghi liturgici che esprimono questa anagogia. È sufficiente ricordare che entrambe le forme rituali del rito latino mantengono il “Sursum corda”, che risale a una tradizione assai antica e non è proprio della sola liturgia latina. Questo invito esprime l’unico tipo di sguardo che sia all’altezza del Mistero celebrato. È lo sguardo che invita ad accogliere “il Re dell’universo, invisibilmente scortato dalle angeliche schiere” (Liturgia di San Giovanni Crisostomo, Inno Cherubico), e che richiede una compunta serietà non solo esteriore: “Stiamo con timore, stiamo con tremore, stiamo nel giusto modo e prestiamo attenzione” (Liturgia eucaristica in rito armeno).
Se opportunamente sollecitato con una mistagogia appropriata, questo sguardo può guidare la Chiesa alla retta e fruttuosa celebrazione del Mistero, e condurre i cristiani a vivere con inesausta gioia il privilegio di essersi “accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione, al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele” (Ebrei 12, 22 - 24).
fonte: www.chiesa.it, 12/09/2007
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/167021
(21/12/2010)