dieci parole per descrivere la musica liturgica

Dal sito ZENIT riportiamo una serie di interessanti articoli del M° Aurelio Porfiri sulla musica sacra

 

di Aurelio Porfiri

 

Molti si domandano, e a ragione, quali caratteristiche dovrebbe avere la musica liturgica. Il Magistero della Chiesa ha fatto sentire la sua voce e ha indicato alcune qualità che la musica liturgica deve possedere. Non si puo’ dimenticare la voce possente del Motu Proprio “Tra le sollecitudini” di san Pio X del 1903. I documenti magisteriali successivi ribadiranno quelle qualità apportando alcune chiose suggerite dal mutare dei tempi. Personalmente mi sono anche chiesto quali sono per me le caratteristiche che la musica liturgica deve possedere per essere chiamata “liturgica”.

Quelle che seguiranno sono le mie personali risposte, ispirate nel profondo dal Magistero della Chiesa e che anche guardano, come la Scrittura ci insegna, ai “segni dei tempi”. Le chiamerò le dieci “E” della musica liturgica, una sorta di decalogo liturgico-musicale per i nostri tempi. Come detto, la mia riflessione è fortemente basata sugli insegnamenti della Chiesa in materia di musica per la liturgia, ma ci saranno inflessioni personali che sviluppano alcuni punti, forse anche in maniera imprevista. Perche’ la lettera E? Sembra che nell’antichità semitica il segno che indicava questa lettera designasse un uomo nell’atto della preghiera (forse ripreso dalla civiltà egiziana). Non sono stato ancora in grado di verificare la correttezza di questa informazione ma in ogni caso l’immagine mi sembra bella e quindi la uso per questo scritto.

 

Dunque, la musica liturgica. Essa deve essere: Ecclesiale, Eccellente, Eccedente, Estatica, Estetica, Espressiva, Edificante, Elegante, Educante, Espandente.

 

ECCLESIALE. Certo sembrerà scontato che si dica che la musica liturgica deve essere e sentire con la voce della Chiesa ma in realtà questo è uno dei punti nodali per capire il giusto ruolo della musica nella liturgia. Noi non creiamo la liturgia, essa ci è donata dal Signore e la Chiesa ne garantisce la celebrazione. Essendo la musica “parte integrante” della liturgia, ne partecipa di questa natura ecclesiale. Il musicista liturgico deve “sentire cum Ecclesia”, come diceva Sant’Ignazio di Loyola.

Questo sentire ecclesiale non significa appiattimento della propria personalità, ma significa immergere il ruscello in un mare più grande per approdi più temerari. Il musicista deve sapere cosa la Chiesa vuole da lui ma nel contempo non vergognarsi di far sapere cosa lui vorrebbe dalla Chiesa, come il ministero della musica liturgica possa essere sempre più efficiente ed efficace. Stare sempre con la Chiesa vuol dire seguirne le direttive ma anche contribuire all’approfondimento delle questioni. Darsi da fare ma anche creare pensieri nuovi che nascono dalla Tradizione. Rinnovamento nella Tradizione (notare la T maiuscola), si direbbe con terminologia ecclesiale. Nei giorni in cui scrivo questo articolo, il Papa si trova in viaggio verso la Spagna dove consacrerà la Cattedrale della “Sagrada Familia”, monumentale opera d’arte dell’architetto Gaudi’. Ai giornalisti sull’aereo, sollecitato da una domanda sul senso di questa consacrazione, il Papa rispondeva così:

“Gaudi’ ha avuto questo coraggio di inserirsi nella grande tradizione delle cattedrali, di osare nel suo secolo, con una visione totalmente nuova, di nuovo questa realta’: cattedrale, luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo in una grande solennità, e questo coraggio di stare nella tradizione ma di una creatività nuova che rinnova la tradizione e dimostra così l’unita’ e il progresso della storia, e’ una cosa bella”.

Queste parole sono molto belle ed interessanti. Io credo che Benedetto XVI con pochi pensieri abbia veramente centrato il cuore del problema e questo può essere anche applicato alla musica liturgica. Essa è ecclesiale quando sta nella Tradizione ma creando nuovamente, essa dimostra che la storia è una in quanto progredisce o progredisce proprio perché è una. Non è il progresso cieco, il cammino ineluttabile dello Spirito nella storia per cui quello che c’è oggi è meglio di quello che c’era ieri. Ecco la visione ecclesiale, confortata dalle parole improvvisate ma ovviamente meditate a lungo del Papa. La storia è il luogo in cui la Salvezza è stata annunciata ma la Salvezza è al di fuori della storia. Dio si è fatto storia per mostrarci come dalla storia possiamo tornare a Dio.

In questo senso, ecco perché non si può ridurre la musica liturgica allo storico, al quotidiano, al contingente. Essa, pur nella natura limitata delle cose umane, deve farsi segno dell’altrove, segno dell’incontro sulla soglia tra tempo ed eternità, segno di passaggio dal “qui” al “non ancora”. Riprendendo un famoso verso di Clemente Rebora, la musica liturgica è “imminenza d’attesa”. Con questo non si vuole farne qualcosa di immateriale. E’ ovvio che ci si serve degli strumenti comunicativi che la grammatica musicale offre, ma essi vanno usati non per affossarci nella storia e nel quotidiano, ma per questo viaggio oltre la soglia che al momento ci lascia solo intravedere.
 

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ECCELLENTE. Qui bisogna fare attenzione al senso che si dà a questa parola. Dire che la musica per la liturgia deve essere buona musica è una cosa scontata. Meno scontata è la risposta quando si domanda a molti musicisti in cosa consiste questa bontà. Infatti, spesso per i nostri cari musicisti questa bontà coincide con la musica che fanno loro. Ora, questo può essere vero in alcuni casi ma non, ovviamente, in tutti.

La parola “eccellente” (dal latino Ex-cellere, spingere fuori) ci dice soprattutto un qualcosa di molto importante: la musica liturgica deve essere frutto di uno sforzo di perfezione, essa deve tendere alla perfezione, come tutto, in funzione della perfezione del Padre Celeste. Per questo la faciloneria non le si addice. Per spingere fuori, o spingere oltre, si deve essere nel luogo da cui si spinge. Questo luogo è la tradizione ecclesiale tramandataci dai millenni di storia. Per spingerla oltre bisogna trovarcisi dentro e per trovarcisi dentro bisogna praticarla e studiarla. Non si può migliorare che dal di dentro. Dal di fuori si fanno solo inutili giri di palazzo. Ecco perché la parola “eccellente” mi sembra molto significativa per la musica liturgica e comprende anche la “bontà di forme” invocata da san Pio X nel suo Motu Proprio come qualità della musica di chiesa:

“Deve essere arte vera, non essendo possibile altrimenti che abbia sull’animo di chi l’ascolta quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni”.

Certo, ci possono essere diverse opinioni su cosa si intende per arte vera, ma io credo che nessuno può negare che il bagaglio tecnico sia momento necessario ed imprescindibile per raggiungere l’efficacia artistica. Forse dovremmo considerare questo punto in contrasto con alcuni orientamenti moderni, dove il criterio è quello dello spontaneismo. Purtroppo non si considera che la spontaneità, se correttamente intesa, è un grande valore. Quanta musica o arte dei grandi ci sembra spontanea, uscita fuori senza fatica o sforzo alcuno. Ma noi sappiamo anche che per raggiungere questa semplicità ci vogliono anni e anni di lavoro. Viva la spontaneità come approdo finale, ma attenzione allo spontaneismo che sta alla prima come il sentimento al sentimentalismo. Lo studioso Jeremy S. Biegbe, in suo bel libro chiamato “Theology, Music and Time” chiama un capitolo in cui parla di improvvisazione “liberating constraint”, “obbligazione che libera”. Credo che questa frase potrebbe descrivere il processo di cui parlo. Per essere liberi, spontanei, semplici bisogna prima costringersi, proprio perché di partenza siamo limitati, lo studio ci porta ad aprire nuovi spazi rispetto a quelli angusti del nostro piccolo mondo. Quindi non faccio una questione di titoli accademici, non è che chi non ha certi titoli per forza è peggio di chi ce li ha. E’ una questione di metodo che si acquista tramite lo studio accademico con conseguente titolo ma anche senza di questo. Per secoli musicisti e pittori hanno fatto a meno di titoli accademici ma imparavano l’arte facendola.

L’approdo della vita cristiana è la santità. Non c’e’ dubbio che la vita liturgica sia una via alla santità e così lo è la musica per la liturgia. Se pur essa è tecnicamente perfetta, ma non è “per la liturgia”, non serve allo scopo, non ha quella efficacia ricordata da san Pio X. Ricordiamo come il nesso “musica e liturgia” è inscindibile se si vuole veramente capire il ruolo di questa forma espressiva nell’atto di culto. Non mi nascondo che questa relazione non è a due, ma a tre e il terzo polo di questo triangolo è la cultura. Ma su questo si dovrà tornare in seguito perché tema troppo vasto e delicato. Dicevamo che la musica per la liturgia deve essere santa. Questa non è una novità, già san Pio X lo diceva nel famoso Motu Proprio:

“Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanita’, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta da parte degli esecutori”.

Questo, al numero 112, la Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium, anche lo dice chiaramente:

“La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d’inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne. Il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra Scrittura, sia dai Padri, sia dai romani Pontefici; costoro recentemente, a cominciare da S. Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel culto divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia dando alla preghiera un’espressione più soave e favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggiore solennità i riti sacri”.

Questo punto meriterebbe un commento quasi parola per parola, ma per il momento basta soffermarsi sulla frase “la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica”: la qualità della musica viene dalla sua capacità di farsi preghiera liturgica. Ma la preghiera liturgica è il momento più alto della vita cristiana, Culmine e Fonte. Quindi la musica non può che essere eccellente, non puo’ che porsi come momento di superamento del quotidiano pur servendosi degli strumenti del quotidiano. Il liturgista Roberto Tagliaferri dice con efficacia:

“Il linguaggio nasce da uno scarto, da una differenza tra noi e le cose, da una breccia incolmabile, che se da una parte ci impedisce la perfetta identità con noi stessi e col mondo, perché ci sentiamo senza sosta buttati fuori, verso le cose, dall’altra questo compito inesausto di superare il limite ci apre all’illimitato, che intravediamo dietro al limite. Questa è la maledizione, ma anche la grandezza dell’uomo. Egli pensa di colmare definitivamente questa breccia, di poter trasgredire definitivamente il limite e riconquistare la sua origine: questa è la sua dannazione, perché egli rischia di trasformare una mediazione culturale-linguistica in un assoluto. Nel linguaggio però l’uomo può anche sperimentare l’illimitato, la presenza dell’assoluto, perché in ogni acquisizione parziale si trova rilanciato verso un inedito traguardo, secondo un dinamismo senza soluzione di continuità: questa è la sua singolare grandezza” (La Violazione del Mondo. Ricerche di Epistemologia Liturgica. C.L.V. Pag., 214).

Attraverso il limite ci incamminiamo nell’illimitato. Ma, come detto sopra, questo linguaggio deve possedere lo “scarto simbolico”, servirsi dei mezzi del quotidiano ma non facendosi “quotidiano”. Ecco la soluzione a molti dei problemi della musica liturgica, se solo si capisse questo. Nessuno condanna la musica pop o di consumo. Personalmente anche la ascolto e la trovo piacevole. Ma so fare una differenza fra quello che ascolto nella mia vita quotidiana e ciò che devo ascoltare nella liturgia, proprio per la natura particolare e “terribile” di questa azione rituale. Congiungersi alla Tradizione viene spesso solo inteso in senso temporale ma in realtà è un processo spirituale: significa, come detto da don Tagliaferri, “riconquistare l’origine”, significa ristabilire l’ordine sfigurato dal peccato. Ecco perché il quotidiano non suona bene. La musica liturgica, perché liturgica, vive la tensione fra l’origine e il compimento, essa non vuole il presente ma vuole l’eterno. L’essere liturgico “anima” la musica, le dà una vita soprannaturale. Essa, quando unita all’azione liturgica (tanto più santa…) ci rappresenta l’ordine primordiale ferito dal disordine del peccato. Il filosofo Erich Przywara ci dice che l’arte cristiana è “sospesa tra eternita’ e caducita’” (Bello, Sacro, Cristiano in La Filosofia dell’Arte Sacra). Essa è cosmica. Forse un nome nuovo, che mai nessuno ha tentato sarebbe “musica cosmica”. Qui ci dobbiamo abbandonare alla riflessione di Divo Barsotti:

“Nelle religioni asiatiche lo spazio sacro si impone sempre per il culto, ma non necessariamente uno spazio chiuso; nel tantrismo, per esempio, vi è lo spazio in cui viene celebrato un certo culto, riconsacrato dallo sciamano o dal sacerdote; ma questo spazio non è chiuso. Perché, invece, nella religione jahvista, e non soltanto in questa, lo spazio è chiuso, difeso da mura e chiuso in alto? Perché il cosmo stesso è chiuso. Kosmos dice ordine, non dice uno spazio senza confine. C’è un confine preciso. E’ un ambiente, è una casa, è un regno in cui l’uomo deve trovarsi, deve abitare e deve regnare. Anche lo spazio sacro della religione sciamana ha dei confini precisi: lo stregone segna i confini dello spazio sacro, però non ci sono mura a difesa di questo spazio. Questo spazio non è chiuso. L’essere chiuso mi sembra che sia un richiamo all’ordine che è proprio del cosmo – tutto converge verso l’unità. Ma non è soltanto ordine: dice qualcosa di concluso perché perfetto in sé” (La Messa. p. 22-23).

Musica liturgica è ristabilire l’ordine un tempo perduto. Essa ristabilendo l’ordine scompagina il disordine in cui viviamo e che noi pensiamo sia la vita vera. Ecco perché Divo Barsotti sempre ripeteva che la vita vera è Cristo, la nostra non è che apparenza. Ecco il potere dell’arte e della musica: con la materia, smaterializza la materia.

 

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ECCEDENTE. Questa parola potrà forse sorprendere ma in realtà è una delle più importanti. Eccedente, che viene ancora una volta dal latino (ex-cedere, andare fuori), è quando si supera una certa quantità di una data cosa. In effetti, nel nostro caso, cosa si chiede di eccedere? Si chiede che la musica liturgica non coincida con la musica, ecceda la musica che ascoltiamo quotidianamente. Eccedente significa qualcosa che si protende oltre. La liturgia è una dimensione altra rispetto a quella della vita quotidiana, quindi dobbiamo fare in modo che la musica liturgica sia in grado di far compiere al fedele quello che viene definito come “scarto simbolico”. Questo ci viene spiegato dallo psicoterapeuta Giuseppe Sovernigo nel suo libro “Il Rito e l’Uomo”:

“Altre persone, prese dalla febbre di celebrare 'Gesù nella vita', come reazione contro il conservatorismo rituale, vivono un’altra trappola per il rito che sottrae ad esso la possibilità di funzionare. Queste persone presumono di situare il linguaggio, gesti, oggetti, nel quotidiano. Per poter funzionare il rito richiede un minimo di scarto simbolico rispetto al linguaggio, ai gesti, agli atteggiamenti della vita normale”.

E’ chiaro che questo problema dello scarto simbolico non è un problema che si può eludere e non è un problema che si deve chiudere nelle anguste categorie del progressismo o del conservatorismo. Si può far anche riferimento ai testi di don Roberto Tagliaferri sulla “liminalità”, la liturgia come soglia sull’altrove. Insomma, la musica per la liturgia non puo’ essere la musica che si ascolta nel quotidiano. Ciò non vuol dire che non si possa far uso di alcune parti di quei linguaggi più usati nella musica popolare, ma questo va fatto in modo che i linguaggi possano essere trasformati dal contesto di provenienza per essere fruibili nel contesto di arrivo. I musicisti hanno sempre saputo sapientemente attingere da materiali anche profani per le loro produzioni liturgiche ma con la loro perizia sapevano come trasformare elementi del profano ed integrarli nell’ordito liturgico. E’ una operazione che richiede perizia e conoscenza di come i linguaggi funzionano, non può essere data nelle mani di tutti. Solo mani esperte sanno rendere “santo” quello che non lo è di partenza. E c’e’ anche da dire che non tutto lo può essere, se si vuole essere sinceri. Personalmente, non credo ci dovrebbe mai essere spazio per batterie o chitarre elettriche in una celebrazione liturgica (ma mi sembra che anche la Chiesa con il suo Magistero abbia fissato più di un paletto che si e’ poi agilmente dribblato).

A questo punto spunta sempre fuori “l’esperto” che ci informa che anche nel passato i musicisti prendevano musiche profane tout court aggiungendovi un testo sacro. Quindi…Questo sarebbe giusto, ma l’informazione andrebbe fornita completa. In quel passato, la musica che dominava era la musica di chiesa, quindi anche la musica profana era totalmente derivante dalle melodie liturgiche. In questo senso, quando essa tornava ad un uso liturgico, in un certo senso era come se tornasse a casa. Non dico che fosse sempre appropriato e in effetti la Chiesa fece sentire la propria voce anche a questo riguardo, ma non si può fare il paragone con l’oggi, quando la musica che domina è la musica di consumo. Nulla contro quest’ultima, ma ovviamente le sue priorità sono diverse da quelle della musica liturgica. Talvolta può essere usata per l'evangelizzazione extra liturgica, per spettacoli, musical, film e ogni forma artistica che può suscitare sentimenti religiosi nel pubblico usando un genere a loro familiare. Questo lo vedo molto positivamente. Ma la liturgia è un’altra cosa e si muove su un’altra dimensione e per noi è atto supremo di fede.

La musica per la liturgia deve muoversi su un altro piano. Io credo che si dovrebbe enfatizzare la distinzione fra sentimento religioso e azione liturgica per capire il problema della musica nella liturgia. Nessuno nega che anche musica pop, rock o samba possano suscitare sentimenti che avvicinino le persone ad una generica esperienza religiosa, se questo è ciò che le musiche stesse si vanno proponendo. Ma una cosa è la mutevolezza del sentimento religioso, altra è la presenza “liturgica”, una presenza che non si avvera per via di sentimento ma per via di rivelazione. Quindi ciò che ci viene chiesto non è di aumentare la nostra capacità emotiva per raggiungere il soprannaturale ma di arrendere le nostre emozioni ad una bellezza che si svela, che è Cristo. Ora, l’uso delle emozioni è diverso: in un caso le emozioni vengono sollecitate, in un certo senso, dall’interno del mondo quotidiano del ricevente; nell’altro l’emozione si protende all’esterno, nel nuovo mondo creato dalla musica liturgica. Essa non cerca di farci entrare in noi stessi (il noi quotidiano) ma cerca di farci uscire da noi stessi per rientrarci in un modo più adeguato (il noi soprannaturale). Bisogna distinguere tra il naturale e il soprannaturale. In una prospettiva naturale la musica pop in Chiesa va benissimo, ma in una prospettiva soprannaturale essa non compie il suo scopo.

In un bell’articolo su arte e teologia, il famoso teologo Karl Rahner tesseva le lodi dell’arte e della sua importanza anche rispetto alla teologia. Ma ad un certo punto faceva l’affermazione che ogni musica diviene liturgica se il testo è liturgico. Qui credo si sia sbagliato di grosso. Non è il solo. Anche in un testo (che peraltro su altri argomenti è molto ben fatto) di un famoso liturgista italiano ho letto la stessa affermazione: la musica diviene liturgica se il testo è liturgico. Non sono d’accordo. Una marcia militare non diviene un canto per la celebrazione se gli mettiamo il testo liturgico a ricalcare la melodia. Un canto gregoriano non diviene una canzone di protesta se gli metto un testo adeguato a questo genere. Questo è anche contro tutto ciò che le neuroscienze ci sanno dire su come funzioniamo. Quando noi ascoltiamo i suoni dall’esterno il cervello usa un sistema chiamato “categorizzazione”. In un certo senso, detto semplicemente, mette gli stimoli auditori che riceve in certe categorie che già preesistono per cultura o altro. Quindi, pur se una persona ascoltasse per venti anni solo musica liturgica di impronta “pop”, il cervello comunque la leggerebbe anche in paragone con l’uso predominante di questo tipo di musica, che non è quello liturgico. In un certo senso l’uso di questa musica manda un messaggio ambiguo e non è adeguata allo scopo che si prefigge. Ecco perchè penso sempre di più che la musica per la liturgia non sia la musica di consumo. Bisogna comprendere il mondo, ma senza bisogno di esserne sopraffatti.

 

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ESTATICA. Quando dico che la musica per la liturgia deve essere “estatica”, credo che devo essere cauto nello spiegare il senso che voglio dare a questa affermazione. In effetti, questa parola assume diversi significati a seconda dei contesti in cui la si usa (con questo nome è anche chiamata una droga). La parola in questione viene dal greco ek-stasis che significa “fuori di sé”. Ora, dire che si è fuori di sé non ha una valenza positiva nella nostra cultura, sembra quasi un insulto. Ma spero di dimostrare che per me questa parola deve essere inclusa nelle caratteristiche della musica liturgica per la sua profonda valenza spirituale.

In uno studio pubblicato sulla rivista “Science”, l’estasi (insieme a creatività e stato psicotico) è così definita:“Questi stati sono contrassegnati da un graduale volgersi interiormente verso una dimensione mentale a spese di quella fisica” (Roland Fischer 1971. A Cartography of the Ecstatic and Meditative States. Science, 174, 4012. Mia traduzione dall’inglese). Non deve sorprendere che l’estasi viene avvicinata con questa definizione a creatività e stato psicotico. Tutte queste dimensioni sono un’uscita da ciò che percepiamo come noi stessi, anche se il modo di uscita (e di rientrata, come vedremo) variano fra i diversi stati. In effetti già i greci avevano affrontato questo problema, la dimensione estatica della musica. Questo già accadeva nel periodo che oggi gli storici definiscono come “mitologico”. Sappiamo che in questo periodo, diverse storie e leggende venivano usate per dare un senso alla realtà e alla vita dei nostri greci e una di queste era quella riferita ad Apollo e Dioniso. Chi erano costoro? Erano due fratelli, per lo meno da parte di padre, il quale era nientedimeno che Zeus, il padre e dominatore della vasta pletora di divinità che abitavano il Monte Olimpo. Questi due fratelli, a loro volta divinità, erano considerati come ispiratori e “patroni” della musica. La parte interessante è che loro rappresentavano due aspetti in un certo senso contrastanti della musica: Apollo era ordine, razionalità, luminosità; Dioniso era caos, irrequietezza, tenebrosità ed estasi. Già, la nostra estasi era associata con il lato dionisiaco della musica ma questo non ci dovrebbe ingannare, in quanto la questione non si ferma di certo qui.

In effetti questi due stili si possono veramente separare, in quanto tutti e due sono necessari per la produzione di opere d’arte. Questa riflessione ci porta ad un pensatore che solitamente non viene associato al cristianesimo, Friedrich Nietzsche (1844-1900). Nella sua opera “La nascita della Tragedia” egli rivela come questi due aspetti dell’apollineo e del dionisiaco siano in contraddizione solo in apparenza, poiché essi sono parte di un paradosso: entrambi sono necessari per un’opera d’arte. In effetti il rischio è la separazione dell’elemento apollineo da quello dionisiaco. Il tema dell’estasi è un tema che naturalmente ha implicazioni profonde in campo cristiano. In che modo possiamo collegare questo stato (attraverso anche la apparente dicotomia apollineo-dionisiaca) alla musica per la liturgia? Io credo che qui dobbiamo ascoltare il pensiero di sant’Agostino, che per me è il punto di snodo per la riflessione che andiamo facendo:

“Cos’è che ti attrae nel mondo? Cosa vorresti lodare? Cosa amare? Da qualunque parte ti volgi con i sensi del corpo, ti si parano dinnanzi il cielo e la terra; ma qualunque cosa ami sulla terra è terreno, qualunque cosa ami nello stesso cielo è corporeo. Eppure tu queste cose, sparse ovunque nel creato, le ami e le elogi; ma come non lodare l’autore di queste cose che lodi? Effettivamente fino ad ora sei vissuta troppo ingolfata [nelle cose materiali]; frustrata dalla molteplicità dei tuoi desideri, ne porti le ferite. Sei piagata, divisa in una quantità di amori, sempre inquieta, mai serena. Raccogliti in te stessa! Se fuori di te c’è qualcosa che ti piace, cerca chi ne sia l’autore. Sulla terra non c’è nulla che, ad esempio, valga più di questa o quella cosa: dell’oro, dell’argento, degli animali, degli alberi, di tutte le cose belle. Pensa a tutta la terra! E nel cielo cosa c’è che sia piu’ meraviglioso del sole, della luna e delle stelle? Pensa all’immensità del cielo. Tutte queste creature nel loro insieme sono perfette in bontà perché Dio fece tutte le cose perfettamente buone. Ovunque risalta la bellezza dell’opera la quale a sua volta ti indirizza all’artefice” (Esposizione sul Salmo 145,5).

La bellezza del mondo creato ci rimanda ad un’altra bellezza. E questo possiamo anche sperimentarlo, come detto in precedenza, ascoltando un brano di musica che ci mette dentro una nostalgia per qualcosa che non riusciamo a fare nostro. Raccogliti in te stessa! Ecco la frase che credo possa anche connotare la funzione della musica liturgica. Essa, è estatica proprio perché ci raccoglie in noi stessi. Ma non dicevamo che estasi vuol dire andare fuori? Certo, ma anche qui è un paradosso. Estasi vuol dire andare fuori dall’essere materiale per ritrovarsi nell’essere interiore.

Nel libro decimo delle Confessioni, al capitolo sesto, il nostro santo ci apre una porta piena di luce che ci porta a vedere tutto quello che si è detto sopra in una prospettiva interessante: “Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale; non lo splendore della luce, così chiaro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio”.

Quello a cui ci richiama il grande santo è una educazione al guardare, non solo intesa come vedere con gli occhi, ma intesa anche come educazione dei sensi per indirizzarli al loro giusto fine e calibrarli alle esigenze dell’essere interiore. Dobbiamo riscoprire in noi la capacità di avere sensi puri. Se non erro Confucio ha detto che gli occhi sono la custodia della nostra pace interiore. E’ ovviamente vero. La capacità di dominare i nostri pensieri generati da quello che ci tenta nella bellezza esteriore (che non ha colpa del modo in cui la guardiamo) è centrale nel controllo delle passioni. La musica liturgica deve essere questo momento di passaggio tra l’essere esteriore, materiale e l’essere interiore. Questo passaggio avviene attraverso l’estasi, un'estasi che non è perdersi nell’indefinito caos (che era un po' il tipo estatico dei riti dionisiaci), ma un perdersi in un ordine che ancora non capiamo ma a cui ci avviciniamo giorno dopo giorno. Ecco perché non ogni musica può essere definita liturgica, essa non è semplicemente un testo con alcune note per cantare. Essa è un momento in cui l’anima deve avere la capacità di raccogliersi in se stessa, ma non nell’essere materiale ma in quello interiore.

Qualche giorno fa ascoltavo un brano di musica intesa per la liturgia con accompagnamento di strumenti tipici della musica di consumo. Mi rendevo conto come il brano, che da un punto di vista puramente sensuale poteva anche essere piacevole, non facesse altro che confermare coloro che lo eseguivano e ascoltavano nella loro materialità, non c’era la possibilità di fare il salto perché tutto era inscritto nell’orizzonte di senso quotidiano. Altri generi hanno invece la capacità di farci fare un salto di tipo estatico (attraverso l’estetico che vedremo meglio più in là). Questo salto è al di fuori di noi ma per ritornare in noi, il noi vero e immutabile.

Di passaggio vorrei fare riferimento a Paul Tillich (1886-1978) uno dei filosofi più noti in campo protestante. In un suo articolo del 1960 (Art and Ultimate Reality) egli ci offre cinque tipi di esperienza religiosa: sacramentale, mistica, profetico-contestatrice, religiosa, estatico-spirituale. Soffermiamoci su quella estatico-spirituale. Nell’esperienza religiosa di tipo estatico-spirituale, le persone e le individualità sono accettate ma la forma in un certo senso tenta di forzare i limiti, tende a qualcosa che meglio esprima la forza del messaggio che contiene, si placa in forme stabilite che però tendono ad aprirsi a qualcos’altro. Possiamo trovare l’esempio di questo in un famoso dipinto di Emil Nolde del 1909 chiamato “Pentecoste”. Anche molta musica del XX secolo può essere iscritta in questa categoria, con il suo continuo tentativo di forzare le prigioni della forma per raggiungere una maggiore perfezione espressiva. L’espressionismo, sarà l’incarnazione più riuscita di questo tipo di esperienza religiosa. Per Tillich, quest’ultimo stile è il più adeguato per l’espressione dell’esperienza religiosa anche se nell’articolo che andiamo esponendo il nostro mette in guardia dal pericolo del soggettivismo, che in questo caso è fortemente in agguato. In effetti, questo rischio è veramente presente. Fino a che punto si può forzare la forma per meglio esprimere un contenuto? E quando la forma è forzata veramente il contenuto ne viene fuori in modo migliore? Come dirò di seguito con Giovanni Paolo II, certamente l’artista si affaccia su un abisso di luce e deve cercare di ridonare agli altri questo Splendor Paternae Gloriae che per alcuni istanti gli è dato di contemplare. Il compito del musicista liturgico è compito altissimo.

Non posso dimenticare qui Divo Barsotti, uno dei miei autori prediletti a cui ho dedicato un libro che esplora le implicanze del suo pensiero per la liturgia. Per Barsotti la realtà unica e vera è Gesù, ma una realtà che a noi sembra assente, anche se è l’unica vera. Come ricongiungersi a questa vera realtà se non uscendo dalla realta’ materiale che a noi sembra vera anche se non è la verità essenziale?“Alla Messa pontificale di Sua Eminenza. – Ho visto per visione intellettuale Gesù come una luce che sorgendo si dilatasse così da assorbire in sé Firenze, il mondo, le cose, gli uomini -– tutto. Non era più alcuna cosa, né uomo – Lui solo” (24 Dicembre 1945, pag. 163 in “La fuga immobile”).

E’interessante questa “visione intellettuale” che accade proprio nella notte di Natale. Cristo incarnato è la vera e sola realtà. Attraverso la sua Incarnazione siamo partecipi della vera realtà della nostra esistenza. Egli è la vera presenza che abita in noi (Agostino...), quella presenza da cui noi fuggiamo e a cui solo dobbiamo tornare. Così ritrovare Lui significa anche ritrovare noi stessi (ecco la fuga immobile). Vorrei chiarire che questo non è disprezzo della realtà materiale, non è docetismo, che insegnava che il corpo di Gesù era solo apparenza. Questo è semplicemente ordine di grandezza, per cui la realtà suprema infinitamente supera la realtà particolare e quindi è più vera di essa in quanto vera per essenza e non semplicemente per partecipazione. La musica liturgica è contatto con la realtà essenziale, non con la realtà particolare. Quindi non può derivare pedissequamente dalla realtà particolare. La musica liturgica è un ponte sull’eternità. Giovanni Paolo II, nella sua Lettera agli Artisti, faceva presente questo concetto in maniera estremamente efficace:

“Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del processo creativo; quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito. Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria”.

Certamente di questo attimo di illuminazione era partecipe Divo Barsotti. In quella notte di cui sopra, il padre si sarà sicuramente soffermato a contemplare la bellezza del Prefazio: “Quia per incarnati Verbi mysterium nova mentis nostrae lux tuae claritatis infulsit: ut dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur”. “perché, attraverso il mistero della Parola incarnata, una nuova luce del tuo splendore ha riempito gli occhi della nostra mente: così che quando vediamo Dio visibilmente, attraverso Lui possiamo essere rapiti all’amore delle cose invisibili”.

Questa riflessione di Barsotti, ci porterà alla riflessione sul ruolo dell’estetica nella musica liturgica, che sarà oggetto del prossimo contributo. Quale bellezza ci salverà? Domanda ancora migliore: quale Bellezza ci ha salvato? La musica per la liturgia è una espressione di questa Bellezza, se essa adempie alla sua funzione.

 

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ESTETICA. Qualche anno fa, discutevo con un liturgista su alcune questioni riguardanti il rapporto fra liturgia in latino e liturgia in lingua volgare. Essendo un musicista ponevo il problema dell’importanza dei repertori musicali liturgici “tradizionali” in lingua latina. Si badi bene: non che questi siano la cosa fondante quando si parla di liturgia, ma certamente, come ho già detto in precedenza, non è qualcosa che va trascurata a cuor leggero. Se si ha un tesoro si deve farne buon uso, anche se questo tesoro dovesse mostrare alcune ingiurie del tempo.

Ora, questo liturgista mi faceva osservare che non bisogna rapportarsi a questi temi con una mentalità da esteta. Io, lo confesso, sul momento fui sorpreso da quest’osservazione, in quanto avevo nel mio dizionario mentale una precisa idea del termine “esteta” e del suo uso: praticamente è l’amore della bellezza fine a se stessa. Nel caso suggerito dal buon liturgista, la gente non amerebbe certi repertori per la loro valenza rituale (sono sicuro che questi termini così accostati farebbero felice il liturgista in questione) ma li amerebbe in se stessi. Rimasi sorpreso allora, come detto, ma oggi penso saprei rispondere meglio. In effetti il problema di allora era che non avevo chiaro il significato del termine estetica e ne facevo l’uso che la quotidianità mi imponeva. Ora credo di inquadrare il tema in modo migliore e per questo cerco di mettere ordine.

Innanzitutto bisogna introdurre il nostro primo protagonista, Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762). Non è un personaggio molto conosciuto al di fuori dei circoli filosofici ma dobbiamo dedicargli un poco di attenzione per un paio di motivi. Il primo è che alcune sue tesi saranno oggetto di riflessione da parte di un filosofo che avrà un’influenza enorme sulla storia del pensiero successivo, fino ai nostri giorni: Immanuel Kant; l’altra è che egli sarà il primo nella storia ad usare il termine “estetica” per denotare la conoscenza sensibile (“Aesthetica…est scientia cognitionis sensitiuae”, come appare nel suo volume dedicato a questo tema), che si serve dei sensi e per formulare una teoria dell’arte. Essa sta vicino alla logica, che è conoscenza intellettuale.

Nel suo volume del 1750, che prende appunto il nome di “Aesthetica”, egli espone la sua visione filosofica ed intellettuale. Ma il concetto di “estetica” come scienza filosofica a se stante si trova già in questo autore in un lavoro del 1735, “Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus” (Meditazioni filosofiche su alcune caratteristiche del Poema vedi Hammermeister, Kai (2002). The German Aesthetic Tradition. Cambridge, United Kingdom: Cambridge University Press. Pag. 3). Quindi, la storia accredita questo autore come colui che inserisce nel dibattito filosofico questo termine. Ora, come detto dal nostro amico Baumgarten, l’estetica è conoscenza sensibile, quindi l’esteta è colui che conosce attraverso i sensi. Da questo punto di vista, siamo tutti esteti. Mi si potrebbe controbattere che la conoscenza di tipo intellettuale è superiore a quella sensibile; non so bene se questa distinzione ancora possa reggere dopo gli studi sul cervello (la conoscenza intellettuale in effetti accade tramite i sensi, quindi ogni conoscenza è “estetica”) degli ultimi decenni ma basterebbe osservare che il ruolo ricoperto dalla nostra parte emozionale viene ora ritenuto estremamente importante. In uno studio recente (Ralph A., Spezio M, 2006), si metteva in luce come l’amigdala (parte del nostro cervello che ha un ruolo fondamentale nel controllo delle emozioni) giochi un ruolo fondamentale nel nostro essere sociale (e la liturgia è anche un momento sociale in cui il popolo di Dio si ritrova):

“Noi sosteniamo che, pur se è chiaro che le rappresentazioni del comportamento sociale non sono contenute nell’amigdala, la più prudente interpretazione dei dati acquisiti è che l’amigdala gioca un ruolo fondamentale nel guidare il comportamento sociale sulla base del contesto socio ambientale. Quindi, appare essere richiesta per la normale cognizione sociale” (Ralph A., Spezio M. (2006). Role of the Amygdala in Processing Visual Social Stymuli. Progress in Brain Research. 156, 363-378, mia traduzione dall’inglese).

Insomma, non siamo proprio quegli essere razionali che ci piacerebbe essere. Già la teoria chiamata del “Triune Brain” sviluppata dal neuro scienziato americano Paul D. MacLean negli anni Sessanta, ci diceva che le nostre reazioni sono prima istintive ed emozionali e poi razionali. Quindi, la percezione (ecco la parolina magica) gioca un ruolo fondamentale nel modo in cui siamo ed essere esteti non è un difetto ma è il nostro modo di essere nel mondo. Ma è tutto così semplice? Ovviamente no. In effetti quel liturgista qualche piccola ragione l’aveva, in quanto si impone una distinzione tra esteta ed estetico (ma vedremo che la parte di ragione di quel liturgista rimane comunque piccola); e qui subentra il nostro secondo protagonista, un prete di origine italiana ma tedesco di formazione: Romano Guardini. Egli fu enormemente influente nel Movimento Liturgico, specialmente per un suo testo chiamato “Lo Spirito della Liturgia”. Da questo testo vorrei citare un passaggio:

“Il bello è lo splendore del vero”, dice la scolastica. A noi uomini d’oggi questa affermazione sa di freddo intellettualismo. Se riflettiamo, però che questa sentenza scaturisce dallo spirito di uomini, che furono architetti incomparabili di pensieri, che disciplinarono concetti, fissarono conclusioni, elevarono sistemi audaci come le loro cattedrali, tutto questo ci ammonisce a penetrar più addentro il significato di queste parole. “Verità” non significa arida precisione di concetti, bensì adeguato inserimento nell’essere, interiore validità vitale; significa la forza e pienezza integrale di un’esistenza ricca di contenuto. E la bellezza è il gioioso splendore che ne promana, quando la verità nascosta all’ora giusta può rivelarsi, quando l’apparenza esteriore in ogni suo particolare è la pura e piena espressione della realtà interiore.
Dunque, perfezione espressiva e non solo in superficie, ma dall’inizio primo dell’attività formante: si può definire con maggiore profondità e insieme brevità l’essenza del bello? Al bello, pertanto, rende giustizia solo chi rispetta questo ordine e lo intende come lo splendore della verità ontologica perfettamente espressa. Ma si presenta un grande pericolo, tale da essere difficilmente evitabile per molte nature; il pericolo di invertire l’ordine stabilito, di anteporre la bellezza alla verità, oppure di rendere del tutto indipendente la prima dalla seconda; la perfezione formale dal contenuto, l’espressione dall’anima e dal senso. E’ appunto questo il pericolo della visione del mondo estetica, che finisce poi in snervato estetismo” (Pagg. 88-89).

Ora, in questo intenso passaggio di Romano Guardini troviamo elementi di forte riflessione: la bellezza è lo splendore di una verità, ma chi si ferma al dato primo senza voler accedere alla verità ivi contenuta pecca di “estetismo”, in questo caso inteso in un senso peggiorativo. Quindi il peccato è in chi si ferma alla superficie della bellezza: ma chi ama certi repertori concepiti come artisticamente elevati (come può essere il canto gregoriano o la polifonia rinascimentale o tutto quello che viene fatto con arte per la liturgia) non è per questo un “esteta” (nel senso guardiniano negativo). Il problema non è nei repertori ma nell’uso che se ne fa. Infatti, Guardini ci dice l’esatto contrario di quello che il mio amico liturgista voleva implicare: quando c’è bellezza, la verità splende più fortemente. Il problema è semmai come questi repertori si adeguano alla verità della liturgia.

Io sostengo che una liturgia rinnovata celebrata degnamente non può che accogliere e fare uso di ciò che di bello (e ancora utilizzabile) viene offerto dal patrimonio di musica liturgica che abbiamo. E che i moderni compositori non possono che beneficiare nel guardare a nuove forme poggiandosi sulle spalle dei giganti. Ma se il problema non è nei repertori, allora qualunque cosa va bene? Qui non sarei così sicuro. Si può fare un cattivo uso di repertori adeguati non significa che si può fare un buon uso di repertori inadeguati. La bellezza estetica della musica liturgica sta proprio nel suo adeguarsi alla verità profonda della liturgia, nel essere specchio della bellezza del “più bello dei figli dell’uomo”, nel riconoscere che ci si trova di fronte ad una realtà che ci supera.

Un mio direttore spirituale mi diceva che se sei in una buca e vuoi uscire devi trovare un appiglio esteriore. Questa esattamente è la differenza fra la vera musica liturgica e quella inadeguata: con la seconda ci si appiglia a se stessi e non ci si eleva veramente. Attraverso le vie della nostra percezione noi sentiamo, vediamo, ascoltiamo, odoriamo; l’uso sapiente di questi sensi ci aiuta ad elevarci ad una realtà che ci supera infinitamente. Il modo in cui facciamo bella la musica e la liturgia non è un vizio da esteti ma è un’esigenza che dobbiamo ritrovare in quanto essere umani. Abbiamo pensato di razionalizzare, verbalizzare la liturgia ma, probabilmente, le cose non funzionano in questo modo.

 

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ESPRESSIVA. Una domenica qualunque, mi trovavo in una parrocchia per assistere alla Messa. Ovviamente, per deformazione professionale, ero particolarmente attento ai canti che erano eseguiti e quindi anche in quella occasione il mio orecchio poneva particolare attenzione ai suoni che venivano da un gruppetto che era ormeggiato nei primi banchi della navata centrale. Questo gruppo si dava da fare nella performance, che era praticamente costituita dal repertorio beat aggiornato alle ultime produzioni ricalcanti questo stile. Impugnavano le loro chitarre con malcelata confidenza e baldanza e, fatti sicuri di un microfono a pericolosa distanza di sicurezza, ce la mettevano proprio tutta. Osservavo questi fedeli impegnati nell’animazione e potevo veramente vedere che ponevano tutta la loro buona volontà nel rendere quello che andavano cantando “espressivo”.

Non essendo convinto (tuttora) che quel repertorio sia adeguato alle celebrazioni liturgiche mi chiesi quale doveva essere il rapporto fra la loro buona volontà e il risultato. Mi sembra di poter fare alcune osservazioni: la prima è che solitamente questi gruppi esprimono un’appartenenza, in questo caso quella dell’essere giovani che viene mediata da un certo tipo di musica che si ascolta. La seconda è che quest’appartenenza non deve essere in contrasto con l’appartenenza liturgica. Mi spiego. Nella liturgia noi non celebriamo il presente, ma ci apriamo all’eterno. E’ vero che ogni musica vive nel presente ed è fatta di presente ma è anche vero che ci sono alcuni tipi di musica che sono veramente segno e simbolo del quotidiano. Come già detto, la musica pop è la regina di questi repertori, ed esprime tipicamente ansie e gioie e sentimenti pienamente iscritti nella nostra vita di tutti i giorni, chi più chi meno. Quando chiedo ai miei studenti perché a loro piace la musica pop o rock, mi dicono che si sentono “comodi”, rappresentati. Su questo non ho nulla da dire. Ma nella liturgia noi non ci rappresentiamo di per sé come gruppo (giovani, anziani, dopolavoro…) ma come comunità liturgica, come popolo di Dio. Non siamo noi che viviamo, direbbe san Paolo, ma Cristo che vive in noi. Quindi, tutto ciò che denota un’appartenenza sociale può essere inadeguato.

Mi rendo conto che ci si prodiga in liturgie per tutte le categorie sociali e questo se ben inteso è anche un bene: ma bisogna sempre tenere presente che esse dovrebbero poi essere inserite nell’ambiente liturgico del popolo di Dio, non il contrario. Ci possono essere rare eccezioni (i bambini per esempio o categorie svantaggiate) ma tutti siamo membra dell’unico corpo, ciò che celebriamo è il corpo, non le membra. Quindi sì alle liturgie per i bambini, per i militari, per i giovani ma no alle liturgie dei bambini, dei militari o dei giovani (o di chicchessia). L’espressività della musica liturgica non dovrebbe derivare dall’essere espressione della parzialità ma dovrebbe aprirsi ad una certa universalità (e questa in effetti era una delle caratteristiche che richiedeva san Pio X nel suo Motu Proprio). Quindi bisognerebbe riscoprire l’oggettività della musica liturgica come via alla rappresentazione efficace e mediata delle emozioni che proviamo. Oggettivo non significa non sentimentale ma significa che esprime il sentimento della collettività liturgica, l’insieme della Chiesa terrestre e celeste. Non è una rivendicazione di categoria ma un anelito che unisce il cielo e la terra. Anche qui vorrei chiedere aiuto a Romano Guardini:

“Il singolo deve rinunziare a pensar a modo proprio e a percorrere le vie proprie, giacché deve perseguire fini e intenti e seguire pensieri e vie, che la liturgia gli propone. Deve rinunziare per essa a disporre di sé; deve pregare con gli altri anziché procedere per conto proprio; ascoltare, anziché riflettere tra sé e sé; attenersi alla norma, anziché muoversi secondo il proprio volere. Compito dell’individuo è inoltre di 'realizzare' il mondo delle idee liturgiche; deve uscire dalla cerchia consueta dei suoi pensieri e appropriarsi un mondo spirituale piu’ vasto e comprensivo; deve andar oltre i suoi scopi personali per accogliere le finalità formative della grande comunità liturgica umana ” (“Introduzione allo Spirito della Liturgia, Pagg. 39-40).

Credo che sia espresso chiaramente il concetto che cerco di far passare: la musica liturgica non esprime l’io, ma il noi liturgico. Essa è oggettiva nel senso che si pone come scopo quello di mediare l’inconoscibile e quindi esprime ciò che è inesprimibile. Se ci si pone solo da un lato della relazione liturgica (Naturale/Soprannaturale) manca ovviamente l’elemento fondante dell’agire liturgico. Il problema dell’appartenenza sociale non è ovviamente limitato a chi fa la musica per la chiesa di tipo pop, ma anche a chi si nasconde spesso dietro repertori come il canto gregoriano o la polifonia per difendere un’idea del passato che probabilmente è anche irreale. Come ripeto, in questo caso la colpa non è dei repertori ma di chi ne fa l’abuso. Quindi qual è la differenza? La differenza è che nel caso della musica di tipo pop, l’appartenza è insita nella musica stessa, mentre nel secondo caso l’appartenenza è in chi fa un uso sbagliato di un repertorio che di per sé non appartiene a nessuno, se non alla Chiesa come affermato in documenti magisteriali.

Guardini anche diceva che la liturgia nel suo insieme non è favorevole all’esuberanza dei sentimenti. Io credo che questo andrebbe meditato attentamente. In effetti l’esuberanza dei sentimenti, quando prolungata e ostentata, mi fa pensare ad uno squilibrio che possiamo addirittura far riconoscere da quel mistico alla rovescia (come lo chiamava un professore di mia conoscenza) che risponde al nome di Friederich Nietzsche. Egli, ne “La Nascita della Tragedia”, suggeriva che l’unione tra l’apolinneo (ordine e misura) e il dionisiaco (disordine e estasi) dà vita alla tragedia greca. Questi due elementi non sono quindi in contraddizione se non in modo paradossale. Ecco, quando il dionisiaco prende il sopravvento si verifica uno squilibrio espressivo. La musica pop accentua fortemente l’elemento ritmico, proprio delle danze. Questo elemento è ovviamente fondamentale per la musica tutta ma nella pop è messo in particolare prevalenza, con un carattere di tipo ossessivo. Non è ovviamente un problema per la musica pop ma lo è probabilmente quando trasposto nella liturgia. La musica liturgica è espressiva nel senso corale del termine. Non sono io che mi elevo da solo alle altezze inaudite, ma le mie ali sul vento del canto nuovo sbattono all’unisono con mille altre ali per ritrovarsi insieme in un nuovo e più azzurro cielo.

 

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EDIFICANTE. Quante volte nei vari discorsi che si fanno sulla musica per la liturgia, si sente usare questa parola, “edificante”? Certo è una parola che ha qualche cosa di affascinante ma anche di sfuggente. Anche in questo caso sono preso dalla voglia di andare a verificare l’etimologia del termine. Già, perché è facile riscontrare che tutte le definizioni che andiamo cercando, tutte le parole che impieghiamo, possono essere talvolta lette da varie direzioni. Quindi, cercare di delimitare le possibili interpretazioni, a mio modesto avviso, può aiutare a non debordare.

L’etimologia del nostro termine è in effetti molto affascinante. Viene dal latino aedes, che significa “abitazione” e ficare, “fare”. Ma ciò che è veramente interessante è che nella radice sanscrita di aedes sembra ci sia il significato di “infuocato”. Quindi si passerebbe da fare una casa a fare fuoco. Come possiamo passare questi significati nella musica liturgica? In effetti, il secondo significato è a mio avviso anche più pregnante del primo. Purtroppo, fin dai secoli scorsi ci siamo abituati a dare al termine “edificante” un significato prettamente moralistico, le “letture edificanti”, per esempio. Con questo si denotava un certo tipo di letture che si conformavano ad una legge morale stabilita da un certo potere. In realta’ io credo che il termine “edificare”, anche e soprattutto in chiave cattolica, abbia una valenza lievemente diversa: più che basarsi esclusivamente sulla conferma di qualcosa si basa su un processo di purificazione, che inevitabilmente porta con sé pena e tormento. La musica liturgica è edificante non se ci risponde ma se ci interroga. Interrogare in questo caso ha una valenza quasi socratica, cercare di sollecitare l’uomo interiore a venire fuori (concetto che già abbiamo incontrato quando si è avuto a che fare con altre parole). Come detto in precedenza, non è la musica che conferma la nostra identità (anche se in parte ed indirettamente può svolgere questa funzione) ma è la musica che ci trasporta verso un altrove rispetto all’ambiente sociale in cui ci troviamo ad esistere. Ecco perché penso che la musica pop, che svolge una importante funzione fortemente sociale, non sia adatta alla celebrazione, semplicemente ha un’altra ragione di essere. Io credo che possiamo citare alcuni passaggi dalla Scrittura che vanno nella direzione di quanto vado affermando:

“Certo, come ha passato al crogiuolo costoro non altrimenti che per saggiare il loro cuore, così ora non vuole far vendetta di noi, ma è a fine di correzione che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino” (Gdt 8, 27).

Il Signore prova coloro che gli sono vicino, non li gratifica ma li pone al cimento della prova. Io credo la musica liturgica debba essere per noi un supporto ad affrontare questa prova, edificante perché con il suo fuoco prepari in noi l’ambiente adatto a farci coraggiosi nell’affrontare la tempesta. Troppo cattolicesimo degli anni recenti ha cercato di eliminare questo elemento di pena e sofferenza, come se la vita fosse tutta gioia e sorrisi ma io credo questo sia un profondo travisamento della vera dottrina cristiana. Anche nelle liturgie, secondo una certa vulgata recente, bisogna sempre essere in preda ad una specie di gioia perenne perché il Signore è risorto, eliminando l’elemento sacrificale che ha portato a questa resurrezione. Non fanno meglio, si badi bene, coloro che si beano “esteticamente” di musica rinascimentale e canto gregoriano fermandosi al dato puramente sensuale di questa esperienza (come diceva Guardini che abbiamo citato qualche tempo fa). In entrambi i casi, si evita il fuoco. Ecco perché io penso che la musica liturgica debba essere portatrice di questo “fuoco”, e non tranquillizzarci. Se ci deve santificare (gloria di Dio e santificazione dei fedeli è lo scopo della musica liturgica secondo la Sacrosanctum Concilium) dobbiamo ricordare che i santi non erano tanto persone che portavano tranquillità, quanto persone che ci interrogavano e che seguivano in questo l’esempio di Gesù che non scendeva certo a patti con il conformismo del suo tempo. Dio ci scruta e ci conosce:

“Poiché egli conosce la mia condotta, se mi prova al crogiuolo come oro puro io ne esco” (Gb 23, 10).

Ecco cosa significa che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Egli conosce la nostra debolezza e ci è vicino nell’ora della prova. Ci vuole pronti alla conversione ma essa è sofferenza, talvolta fino all’estremo dell’annichilimento di fronte alla sua volontà che non riusciamo a comprendere. Quale esempio più magnificente di quello di Giobbe? E ci sono altri esempi come questo nella Scrittura. La musica liturgica è parte di questo processo di purificazione, ci introduce con la sua pedagogia particolare nel crogiuolo della purificazione che talvolta noi percepiamo come caotico perché non riusciamo a vedere la cosa nella sua interezza. Vediamo la sofferenza ma non ne percepiamo il ruolo. La musica liturgica è veramente liturgica quando ci introduce nel sacro. Vorrei a questo punto citare una interessante riflessione del liturgista Giorgio Bonaccorso:

“Il sacro non ammette costrizioni, restrizioni o definizioni; non ammette regole precostituite né leggi necessarie. Esso è dalla parte del caos. Il profano, anche da questo punto di vista, è il suo opposto. Nell’esistenza quotidiana, retta dalla profanità, vi sono leggi e regole, senza le quali non si potrebbe vivere. Il profano è dalla parte del cosmo. Ma anche il rito è fatto di regole senza le quali non potrebbe esistere. Il rito è cosmo e, in questo senso, appartiene al profano. Si tratta, però, di un cosmo che, per il modo delle sue regole, ossia delle sue azioni e dei suoi simboli, rimanda alle origini precosmiche, caotiche, e, per questo, appartiene al sacro. Il rito è tra il cosmo e il caos, tra il profano e il sacro. Non è possibile all’uomo un rapporto immediato col sacro, né sarebbe, per lui, sopportabile la caduta nel caos. Il rito appare, così, come la mediazione indispensabile grazie alla quale l’uomo può aprirsi all’origine ultima del suo essere, al sacro, senza essere divorato dal vortice di quell’origine. La liturgia, rito cristiano, è la grazia concessa all’umanità di accedere a Dio senza morire per averlo visto.” (Giorgio Bonaccorso, “Il rito e l’altro”, Libreria Editrice Vaticana, pag. 38).

Ecco perché la musica liturgica deve attenersi al dato rituale, perché esso è mediazione che ci permette di accedere ad una dimensione a cui altrimenti non potremmo accedere. Ma questa dimensione non è una risposta, almeno non ancora: essa è una domanda. E questa domanda tormenta la nostra carne associandoci al Sacrificio supremo. In effetti quando si parla di edificazione nella liturgia (e quindi della musica per la stessa, perché le due cose non possono essere separate), viene in mente questo passaggio dalla Sacrosanctum Concilium:

“In tal modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica coloro che sono nella Chiesa per farne un tempio santo nel Signore, un’abitazione di Dio nello Spirito, fino a raggiungere misura della pienezza di Cristo, nello stesso tempo e in modo mirabile fortifica le loro energie perché possano predicare il Cristo” (n. 2).

Ci si dice che in modo mirabile la liturgia (e quindi la musica) fortifica le nostre energie, ci rende forti perché ci prepara alla prova. La nostra esistenza vive di notti oscure, come del resto accadeva ai santi. Madre Teresa di Calcutta, l’emblema della santità per molti di noi, diceva in una sua lettera:

“Se mai diventerò una santa, sarò di sicuro una santa dell’oscurità. Sarò continuamente assente dal Paradiso per accendere la luce a coloro che, sulla terra, vivono nell’oscurità” ("Sii la mia luce", BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, p. 236).

Una santa dell’oscurità, una santa che viveva quelli che in un mio articolo su di lei per la rivista “L’Emanuele” definivo “i buchi neri dell’anima”. Io fortemente credo che la musica liturgica debba essere edificante in questo senso forte, non semplicemente in un senso estetico moralistico. Quando essa illuminerà lo splendore della nostra miseria ci sentiremo forse più fragili, ma sicuramente più veri.

 

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ELEGANTE. Un giorno splendente di sole, mentre camminavo per le vie di Hong Kong, fui colpito da qualcosa che al momento mi apparve come inusuale. Non so perché, proprio quel giorno, venni distratto da quella particolare visione che forse era capitata sotto i miei occhi già altre volte. Cosa c’era di speciale in quel giorno in Hong Kong? Chiunque abbia visitato Hong Kong sa come questa città ha tutte le caratteristiche di una metropoli, grazie anche ai suoi sette milioni e mezzo di abitanti concentrati in non molto spazio. Hong Kong è un brulicare di palazzoni e grattacieli che svettano da Kowloon ai Nuovi Territori. A me piace molto Hong Kong, anche il giorno prima di cominciare questo articolo ero lì per una conferenza e quindi le immagini di questa città sono ancora fresche in me.

Ma cosa mi colpì in quell’assolato giorno di alcuni anni fa? Era un edificio, tanto per cambiare, ma questo edificio aveva qualcosa di diverso dagli altri. Sembrava non solo una meraviglia architettonica perfettamente funzionale, ma aveva qualcosa nella sua struttura che suggeriva immagini di dilettevole proporzionalità. Nella maniera in cui la facciata era organizzata non c’era solo la fredda e prevedibile geometria ma c’era una qualche ricercatezza a cui non sapevo dare un nome ma che la mia mente sentiva dover essere come familiare, nel senso platonico dell’ideale, nel ritrovare cioè qualcosa che già esiste nel mondo iperuranico delle idee. Avendo avuto qualche tempo per riflettere su questa strana sensazione che il palazzo faceva provare ai miei sensi, cercai una parola che definisse questa esperienza estetica (nel senso etimologico del termine, “io sento”). Pensai un po’ e una parola mi venne alla mente: questo edificio appariva “elegante”.

Già, elegante. Io credo che questa parola sia sottointesa in tante definizioni che si cercano di dare alla musica per la liturgia. Quando essa è ben fatta se ne apprezza il disegno, la struttura, la costruzione; insomma, l’eleganza. Io credo sia questa l’interpretazione giusta della definizione di musica per la liturgia data da san Pio X nel suo fondamentale Motu Proprio; accanto ad universalità e santità, egli pone la “bontà di forme”. Nella nostra epoca moderna sembra difficile definire univocamente la “bontà di forme” visto che siamo immersi in così tanti stili diversi e ancora più numerosi stili frutto di contaminazioni. Ma io credo che un aiuto nel dirimere questa questione viene proprio dall’uso del termine “eleganza”. Quale che sia lo stile usato, esso deve essere elegante, che significa armonicamente proporzionato e funzionale (ma non in senso solo pratico, ma soprattutto in senso estetico) allo scopo per cui si pone ad esistere. Nella sua Enciclica Musicae Sacrae Disciplina del 1955, Pio XII affermava: “Fra i molti e grandi doni dei quali Dio, in cui è armonia di perfetta concordia e somma coerenza, ha arricchito l’uomo, creato a sua “immagine e somiglianza” (cf Gn 1, 26), deve annoverarsi la musica, la quale, insieme con le altre arti liberali contribuisce al gaudio spirituale e al diletto dell’animo”.

Se la musica per la liturgia deve riflettere in qualche modo la bellezza di Dio per offrirla al godimento del fedele, non posso che fare mia la bella frase di cui sopra: “armonia di perfetta concordia e somma coerenza”; non credo ci sia definizione migliore di eleganza. La musica per la liturgia deve essere una armonia che deriva dalla perfetta concordia. Concordia che contiene il termine “corde”, cuore. Significa non semplicemente che tutti seguono un certo indirizzo di comportamento, ma che questo modo di essere della musica è perfettamente connaturato a se stessa, generando così una armonia perfetta perché derivante da una “volontà” perfetta intrinseca alla musica stessa, una volontà che va al suo stesso cuore. Tramite il lavoro dell’imperfetto compositore, la musica in un certo senso ritrova se stessa nella sua concezione più pura ed alta.

Io credo che uno degli esempi più essenziali di questo sia il mottetto Sicut Cervus di Giovanni Pierluigi da Palestrina. Quando mi capitava di parlarne con alcuni dei miei venerati Maestri, le definizioni giravano sempre intorno alla perfezione formale di questo brano. Sembra che ogni nota sia esattamente dove deve essere, sembra che in un certo senso la musica rivendichi la sua origine soprannaturale vincendo momentaneamente le imperfezioni e debolezze umane dell’artigiano che l’ha prodotta. Questa è suprema eleganza, questo equilibrio perfetto che si può ammirare ma che non si può che bramare di riprodurre. Ecco cosa ne risulta, la somma coerenza di cui parlava il Papa Pio XII. La musica deve tendere a questa estrema funzionalità, non intendendo questo termine nel suo senso più basso e volgare di uso pratico (come tanta musica per la liturgia di oggi e di ieri), ma nel senso di esaltazione delle sue caratteristiche (ecclesiale, estetica, edificante e via dicendo) che facciano in modo di renderla un esempio di suprema armonia. Certamente, non tutti i modelli possono essere altissimi come quello citato in precedenza e anch'io penso che non si debba solo trovare questi modelli nel passato. Ma cercare l’eleganza nella forma credo sia un obiettivo fondamentale di ogni composizione che ha una finalità liturgica.

E' chiaro che l’eleganza esiste anche in tanta altra musica non liturgica: in ogni caso io penso che non ci sia buona musica liturgica se essa non è elegante. Vorrei prendere l’esempio di una forma musicale, la Fuga. I musicisti sanno che questa forma è in sostanza un meccanismo in cui le entrate delle voci e la ripartizione delle varie parti sono, in un certo senso, fortemente regolamentate. Ma un conto è il mero rispetto di una certa regola, un conto è una fuga di Bach. Questa è elegante, non solo funzionale e coerente a se stessa, ma anche creatrice di una bellezza che va oltre la regola che pure non disdegna di rispettare. Eleganza significa non urlato, significa congruente all’uso ma non in senso meccanicistico, significa emozionante nel suo senso più pieno e totale e non nel suo senso parziale ed immediato. L’eleganza si riscopre con la cura della forma, cercando di tenersi lontani dal formalismo. Ma il formalismo è solo una delle possibili eresie, l’altra è quella che Martin Mosebach definisce “l’eresia dell’informe”, titolo di un suo famoso libro abbastanza critico della riforma liturgica. Ma in effetti questa ultima eresia è ciò che ci è dato vivere.

Io non credo che il problema sia la nuova Messa, io credo che il problema sia il culto dello spontaneismo fine a se stesso. Se l’improvvisazione non è inserita in una sapienza acquisita è vuoto spontaneismo. Gli antichi greci improvvisavano le loro melodie ma si servivano di norme ben precise, nomoi, che ne delimitavano le possibilità e ne frenavano gli eccessi. Si è pensato che il culto dello spontaneismo giovanile, delle “cose fatte con il cuore”, del moderno senza radici avrebbe portato buoni frutti. In realtà i frutti non sono mai arrivati e ci si è allontanati così tanto che persino le composizioni nate per la nuova liturgia ma composte con sapienza ed eleganza fanno fatica a farsi strada nella sciatteria predominante. Torniamo all’eleganza, alla misura, alla sapienza delle proporzioni: riscopriremo le leggi segrete che fanno delle cose discordanti una perfetta e risonante armonia.

 

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EDUCANTE. Anni fa, parecchi anni fa, fui chiamato a suonare l’organo per una celebrazione domenicale in una bella chiesa del centro di Roma. Questo succedeva di tanto in tanto, per quella chiesa, in quanto avevo una certa dimestichezza con il rettore, un monsignore che lavorava in Curia. Ricordo che la messa della domenica sera era abbastanza frequentata. Ma mi sentivo un poco a disagio in quella chiesa. Infatti, la celebrazione era praticamente un pretesto per le spiegazioni del monsignore in questione. Non c’era parte che non veniva preceduta o seguita da un sermoncino che ci spiegava perché dovevamo sedere, alzarci, darci la mano, dire quella preghiera o quell’invocazione.

Ogni messa, in questo modo, acquistava una lunghezza che andava ben al di là del necessario. Ma alcune persone erano affascinate da quest’ andazzo, probabilmente confondendo il protagonista nella liturgia, che non è il sacerdote, fosse pure il Papa, ma è Cristo. Quando il sacerdote diviene l’attrazione c’e’ senz’altro qualcosa che non va. Mi è venuta in mente questa situazione quando ho cominciato a riflettere sul modo in cui la musica liturgica è educante. In effetti il problema è nell’uso di questa parola. Che cosa significa educare? Possiamo senz’altro distinguere due accezioni del termine stesso, una quella che propriamente chiamiamo “educazione”, l’altra che definiamo “scolarizzazione”. Io credo che per la liturgia (e la musica che come ripeto sempre non può essere scissa dalla liturgia stessa), il primo termine è valido, mentre il secondo è deleterio, se non pericoloso.

La “scolarizzazione” è quella fase delimitata nel tempo in cui siamo chiamati ad acquisire certe nozioni per il conseguimento di alcuni gradi scolastici. Certamente essa è parte dell’educazione ma non la esaurisce. La scolarizzazione è scandita su certi parametri che la società stabilisce ed ha un andamento standardizzato per tutti gli studenti. Essa non è negativa di per sé ma non ha senso se non è inserita nella idea molto più vasta e profonda di “educazione”. Ex-ducere, “condurre fuori”, è concetto molto più ampio e importante. Significa che l’insegnante ha l’abilità di risvegliare nello studente alcune potenzialità che già risiedono in lui, facendo in modo che questi elementi vitali diano senso ad alcune informazioni in grado di permetterne la crescita sana e armoniosa. Educazione non è un concetto scolastico, ma ha un significato molto più ampio. La pura scolarizzazione (che non dovrebbe esistere) procede da fuori a dentro (insegnante-studente), l’educazione procede da dentro a fuori (studente-insegnante). Nel primo caso il protagonista è l’insegnante, nel secondo è lo studente.

Nel caso della messa di cui sopra, mi sembra evidente che il protagonista era colui che si inseriva in ogni momento possibile della stessa, spostando l’attenzione dal celebrato al celebrante. In un certo senso trattava l’assemblea come un manipolo di studenti da indottrinare, rendendoli passivi alla vera natura della celebrazione pur se ufficialmente richiamava sempre l’assemblea ad essere “più coinvolta”. Ma la domanda che io non ho mai posto è: più coinvolta in che cosa? Ecco, in un certo senso questo celebrante applicava un metodo puramente “scolastico” alla liturgia: il fedele andrebbe alla messa per ricevere nozioni più o meno catechistiche, per conseguire un certo corpus di conoscenza ritenuta necessaria.

Ma la messa non è per questo scopo. La messa vuole risvegliare l’uomo interiore, la messa è in questo senso veramente “educante”. Così la musica per la liturgia non parla alle nostre menti ma parla alle nostre anime nella cui profondità il nostro io spirituale aspetta di essere richiamato alla vita. Ecco perché la musica per la liturgia non è musica mondana, essa è nel mondo ma non è di questo mondo. Se saremo capaci di riscoprire il significato profondo del termine “educazione”, credo non potremmo che capire sempre più in che modo la musica per la liturgia può essere “educante”. Nel rito straordinario della messa, la parte che oggi definiamo “liturgia della parola”, veniva definita “didattica”. Perché didattica? In quanto siamo in ascolto della parola di Dio. Infatti Dio parla a noi attraverso i suoi ministri. Ma l’attenzione non deve mai essere spostata sui ministri stessi, in quanto essi sono un tramite, non il termine ultimo. Ecco perché, anche nel canto, la Chiesa ha sempre consigliato di evitare eccessi solistici (pur se in varie epoche questi hanno finito per predominare). Il solista sposta l’attenzione sull’individuo piuttosto che sul corpo mistico che è la Chiesa, in un certo senso disturba una dinamica che è propria della liturgia. Certo questo non va esagerato ma va tenuto a mente. Le parole in questo senso di san Pio X nel suo celebre Motu Proprio del 1903 sono chiare:

“Tranne le melodie proprie del celebrante all’altare e dei ministri, le quali devono sempre essere in solo canto gregoriano senza alcun accompagnamento d’organo, tutto il resto del canto liturgico è proprio del coro dei leviti, e perciò i cantori di chiesa, anche se sono secolari, fanno propriamente le veci del coro ecclesiastico. Per conseguenza le musiche che propongono devono, almeno nella loro massima parte, conservare il carattere di musica da coro. Con ciò non s’intende del tutto esclusa la voce sola. Ma questa non deve mai predominare nella funzione, così che la più gran parte del testo liturgico sia così eseguita; piuttosto deve avere il carattere di semplice accenno o spunto melodico ed essere strettamente legata al resto della composizione a forma di coro” (12).

Questo passaggio che offre anche altri spunti che andrebbero discussi appropriatamente, credo ci dia una interessante visione di come la Chiesa vede il ruolo del solista nella celebrazione. Come nella musica liturgica non si devono avere voci che predominino, così nella liturgia stessa nessuno è protagonista se non Cristo. Ecco in che modo la liturgia e la sua musica sono educanti. San Pio X fu senz’altro un Papa amante della musica, specialmente della musica liturgica. Ma vediamo anche cosa altri Papi hanno detto su questo argomento e sulla funzione educante della musica.

Occupiamoci di Pio XI. In una bolla del 20 dicembre 1928, “Divini Cultus Sanctitatem” il Pontefice ritorna sul tema della musica liturgica sulla scia del Motu Proprio di san Pio X, reiterando l’importanza della educazione artistica dei giovani che si apprestano agli studi per il sacerdozio. Nella lettera decretale “Geminata Laetitia” (1 aprile 1934) con cui viene proclamato santo don Giovanni Bosco afferma: “coronò con l’insegnamento della musica l’educazione artistica dei giovani, e adottò nei suoi laboratori i macchinari più moderni e perfetti”. Bella questa immagine della musica come coronamento della formazione artistica. Questo sembra adombrare l’insegnamento della classicità greca sulla musica come strumento di educazione morale; per questo motivo Platone spesso metteva in guardia sui pericoli che da essa potevano derivare. E a questi pericoli ha pensato lo stesso Pio XI in una sua lettera enciclica che aveva come oggetto, pensate un po’, il cinema:

“Inoltre, le vicende raffigurate nel cinema sono svolte da uomini e donne particolarmente scelti per le loro doti naturali e per l’uso di espedienti tali, che possono anche divenire strumento di seduzione, soprattutto per la gioventù. Il cinema vuole per di più, a suo servizio, il lusso delle scenografie, la piacevolezza della musica, il realismo inverecondo, ed ogni forma di capriccio nello stravagante” (Vigilanti Cura, 29 giugno 1936).

Pio XII, Eugenio Pacelli, era un buon violinista, così si può dire a ragione che aveva un particolare interesse per l’arte musicale. Nella fondamentale enciclica “Mediator Dei” si occupa di musica sempre in connessione con la liturgia. Qualcosa di più centrato sulla musica in se stessa troviamo nell’enciclica sulla musica sacra “Musicae Sacrae Disciplina” del 25 dicembre 1955:

“Fra i molti e grandi doni di natura dei quali Dio, in cui è armonia di perfetta concordia e somma coerenza, ha arricchito l’uomo, creato a sua 'immagine e somiglianza' (cf. Gn 1, 26), deve annoverarsi la musica, la quale, insieme con le altre arti liberali, contribuisce al gaudio spirituale e al diletto dell’animo. A ragione così scrive di essa Agostino: 'La musica, cioè la dottrina e l’arte del ben modulare, a monito di grandi cose è stata concessa dalla divina liberalità anche ai mortali dotati di anima razionale'”.

La citazione, tratta dall’epistola 161 del grande santo, ci riporta alla doppia dimensione della musica, concessa per il gaudio dello spirito e il diletto dell’animo ma pure diretta all’anima razionale. Paolo VI, in un discorso ai partecipanti alla manifestazione “Un colore al mondo” del 16 aprile 1971 diceva:

“Fa sempre piacere a Noi ricevere giovani, specialmente se vengono da lontano e se, come voi fate, dedicano il loro talento artistico ad una buona causa, com’è quella di infondere nei coetanei, attraverso la musica e il canto, il senso della speranza, il sano ottimismo, il calore della fratellanza umana e cristiana”.

Nel Messaggio per la VII giornata delle comunicazioni sociali del primo maggio 1973, il Papa apre al tema della musica (con altre arti) come mezzo di diffusione del messaggio di verità, bontà e bellezza, cioè del messaggio cristiano. In occasione del quinto centenario della nascita di Michelangelo (29 febbraio 1976) il Papa dichiarava in una omelia:

“Cioè l’arte, specialmente l’arte, come ogni attività umana, deve essere tesa in uno sforzo di sublimazione, come la musica, come la poesia, come il lavoro, come il pensiero, come la preghiera, deve rivolgersi in alto”.

L’arte (e quindi la musica) come purificazione dal di dentro, come sforzo di portare fuori le forze spirituali che spesso dormono in noi.

Veniamo a Giovanni Paolo II. Non era certamente un musicista nel senso tecnico del termine, ma sappiamo che nella sua gioventù amava condurre il coro di canto gregoriano della sua parrocchia in Polonia:

“Da studente don Karol Wojtyla era venuto a contatto con il movimento di rinnovamento liturgico, e a San Floriano si applicò a metterne in pratica alcune idee. Costituì un gruppo per discutere gli scritti del teologo Pius Parsch, che spiegavano ai cattolici, per i quali il culto era a volte difficile da mettere in rapporto con la vita quotidiana, la ricca trama della liturgia. Poi, in un’epoca in cui la ricca tradizione musicale della Chiesa in materia di canto era in genere riservata ai monasteri, avviò un coro studentesco cui insegnò, perché potesse cantare varie parti della messa, il canto gregoriano” (George Weigel, “Testimone della speranza” – Oscar saggi Mondadori, Milano 2001, 121).

Nel maggio del 1951 questo coro cominciò a cantare per la prima volta eseguendo la Messa de Angelis. E il giovane Karol tentò anche di coinvolgere delle studentesse in questa esperienza. Insomma, la musica faceva certo parte del mondo di Karol Wojtyla, lui che era attore e drammaturgo sicuramente aveva per la stessa musica una sensibilità molto particolare. Durante l’Udienza del 17 settembre 1980, da Papa dunque, salutando un gruppo musicale proveniente dal Giappone dichiarava:

“Attraverso la musica il cuore è innalzato al Creatore di tutte le cose, e quindi non c’è da meravigliarsi se la musica è stata curata e promossa nei templi del vostro paese”.

La musica, espressione di bellezza, ci riporta e richiama alla bellezza originaria, al Creatore. La nostra partecipazione è possibile per l’Incarnazione di Gesù, Figlio di Dio che ha assunto la natura umana e redento tutte le cose. Nella lettera agli artisti del 4 aprile 1999 ci offre una riflessione folgorante:

“Un'esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la percezione folgorante della bellezza percepita nel momento creativo: quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante agli occhi del loro spirito. Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria”.

Questo affacciarsi su un abisso di luce è quello che il musicista sperimenta, e l’intuizione del Papa in questo documento è veramente importante. Questo abisso di luce ha veramente carattere educante, è questo abisso di luce che per solo pochi istanti si posa nella nostra anima che ci permette un’esperienza che non saremmo capaci di compiere altrimenti; l’arte liturgica è la rivelazione di questo abisso di luce. Papa Benedetto XVI non è solo un’amante della musica, ma è anche un musicista, un appassionato pianista. Alla musica ha dedicato pagine anche nel suo precedente “mestiere” di cardinale. Da Papa ha spesso parlato della musica, anche rievocando la sua personale esperienza con essa:

“Nel guardare indietro alla mia vita, ringrazio Iddio per avermi posto accanto la musica quasi come una compagna di viaggio, che sempre mi ha offerto conforto e gioia. Ringrazio anche le persone che, fin dai primi anni della mia infanzia, mi hanno avvicinato a questa fonte di ispirazione e di serenità. Ringrazio coloro che uniscono musica e preghiera nella lode armoniosa di Dio e delle sue opere: essi ci aiutano a glorificare il Creatore e Redentore del mondo, che è opera meravigliosa delle sue mani. Ecco il mio auspicio: che la grandezza e la bellezza della musica possano donare anche a voi, cari amici, nuova e continua ispirazione per costruire un mondo di amore, di solidarietà e di pace” (16 aprile 2007, in occasione di un concerto offerto per gli 80 anni del Papa).

Parole ancora più impegnative in occasione di un altro concerto offerto in suo onore:

“La musica, di fatto, ha la capacità di rimandare, al di là di se stessa, al Creatore di ogni armonia, suscitando in noi risonanze che sono come un sintonizzarsi con la bellezza e la verità di Dio – con quella realtà che nessuna sapienza umana e nessuna filosofia possono mai esprimere” (4 settembre 2007).

Credo che questa meditazione vada al cuore di ciò che intendo esprimere. La vera musica liturgica fa risuonare in noi voci che giacciono spesso inascoltate nei recessi della nostra anima. Ecco come si fa educante, quando è bella e vera.

 

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ESPANDENTE. Al termine di queste dieci parole per la musica liturgica, ci troviamo a che fare con il termine “espandente”, che in effetti le sintetizza e riassume tutte. Ex-pandere, viene dal latino e significa praticamente “stendere, dilatare”. Certo, visto così il significato si approssima a quello di eccedente, ma io li vedo in modo diverso. Eccedere è uno scarto fra la cosa e quell’in più di cui possiamo godere, espandente è un processo di estensione interno alla cosa. In che senso la musica liturgica è espandente? Nel senso che la musica liturgica allarga gli spazi della nostra anima, quando essa è vera musica liturgica. La musica liturgica non ci deve confermare, come già detto innumerevoli volte, ma essa deve essere un porto da cui la nostra anima possa salpare verso altri approdi. La musica liturgica, nel suo intimo, è escatologica, è verso l’altrove. Non è il “qui” che ne costituisce l’animus, piuttosto è il “non ancora”.

Qualche volta mi capita di ascoltare musica con testi cristiani, specie di gruppo americani. C’è un gruppo molto popolare chiamato “Point of Grace”. Queste donne cantano (anche bene) testi ispirati dal Vangelo, con musiche di chiara impronta pop. Le canzoni sono molto orecchiabili e piacevoli e trovano un vasto pubblico: ma non è musica liturgica, sarebbe fuori posto durante una liturgia. La musica delle “Point of Grace” (come molti altri gruppi) parla all’uomo e alla donna nel loro quotidiano, cerca di fare in modo che essi possano ascoltare messaggi diversi da quelli passati dallo stesso tipo di musica, ma con testi diversi.

La musica liturgica vera ci porta via dal quotidiano, ci permette di affacciarci in una dimensione che ancora non ci appartiene. La musica liturgica ci permette di toccare il cielo, anche se solo per pochi momenti. Con la vera musica liturgica l’anima è sempre in viaggio. Ma c’è il problema vero: come fare perché questa musica liturgica possa essere sempre espandente? E qui entrano in gioco fattori legati molto alla quotidianità che rendono difficile il viaggio se non, a tratti, impossibile.

Nella musica liturgica, si è passati improvvisamente dal professionismo al volontariato, proprio quando l’apporto di professionisti preparati sarebbe stato ancora più necessario per accompagnare la svolta. Professionisti formati alle nuove richieste che provenivano dai documenti conciliari e dai successivi aggiustamenti. Il musicista liturgico, così come chiunque opera in questo ambito, deve avere una preparazione veramente profonda non soltanto nel campo suo proprio, ma anche in altri, così da poter partecipare e contribuire più profondamente alla celebrazione. Ecco perché si richiede una preparazione professionale al musicista e come tale deve essere trattato. Questo è uno dei grandi mali della mentalità ecclesiale moderna: il musicista non deve essere pagato, figuriamoci chi suona in chiesa. Ma perché? Quando si fa questa domanda ti tirano fuori tutti i discorsi che si va in chiesa per fede, non per soldi e via dicendo. Ma tutti capiamo che questo discorso è molto mal posto. Certo nessuno deve pagarmi per pregare in chiesa, ma se io presto un servizio alla comunità, è giusto che la stessa mi metta nelle condizioni di poterlo fare liberamente.

Tutti coloro che hanno studiato musica sanno quanto sia anche costoso dal punto di vista economico e come comporti un notevole dispendio di energie e tempo. In Italia la mentalità, specie, devo dire, in molto clero, non accenna a cambiare. Diverso è in altri paesi. Nei paesi di area anglosassone per esempio non è un problema il fatto che chi svolge un servizio professionale, anche nell'ambito della musica, deve essere stipendiato. Negli Stati Uniti molti vivono facendo questo mestiere (cosa da noi impensabile, me compreso). Sono pagati e pienamente coinvolti nella vita della loro parrocchia o cattedrale. Hanno spesso più di un coro e la musica che cantano è sovente di autori contemporanei. In Italia questo è quasi impensabile. Ogni autore è un’isola a sé, sempre pronto a giudicare con la parola “musicaccia” quello che non è fatto da lui. O nella migliore delle ipotesi mostra rispetto per altri autori ma sempre mantenendosene ben lontani. Credetemi, le eccezioni sono poche. Io penso ci voglia coraggio nel fare delle scelte e degli investimenti nella liturgia. Investimenti anche materiali. Allora occorrerà quel cambiamento di qualità della nostra musica liturgica, si creerà un repertorio (in parte esistono già molte composizioni di ottimo livello di vari autori, laici e sacerdoti) che potrà un giorno forse essere considerato un modello qualora anche il progetto rituale suggerito dal Concilio sarà modificato (magari da un altro Concilio, tra molti molti anni) per rendere la liturgia sempre più fedele al mandato di Gesù Cristo. A quel punto, forse, la musica liturgica sarà espandente. Ma purtroppo c’e’ sempre tanta ipocrisia che rende difficili i cambiamenti.

Il Papa Benedetto XVI ci indica i documenti conciliari, quindi anche quello sulla liturgia, in continuità con la tradizione della Chiesa (vedi il famoso discorso alla Curia Romana del 2005). Tradizione che non va vista, parlando ancora di musica liturgica, come una collezione di repertori e brani mirabili ma piuttosto come la presenza di una costante che dà vita e senso a quello che si va svolgendo. Se gli autori della grande polifonia rinascimentale sono considerati parte della tradizione non è perché loro eseguissero solo i brani di gregoriano ma perché nei loro stessi brani, avevano trovato un criterio che garantiva la continuità con la tradizione precedente. La continuità attuale va quindi cercata nella riscoperta di questo criterio fondamentale che informerà tutti i tentativi che si fanno nel campo. Qual è questo criterio? È l’aderenza piena e assoluta al rito che si va svolgendo. Ma allora la bontà della composizione non è importante? Lo è proprio perché aderisce a questo criterio. I linguaggi liturgici (non solo quello verbale) comunicano per via emozionale qualcosa del mistero della celebrazione, ecco perché ci “espandono”. Non è la musica ma il suo contatto con il mistero che si celebra, la sua forte unione. Per essere a servizio di questa comunicazione, bisogna essere esperti e in grado di piegare la materia (sonora, visiva…) ad esigenze così alte. Quindi la bontà della composizione è importante non in se stessa ma in rapporto a questo discorso. Ci può essere un brano che è scritto benissimo ma che non è adatto alla celebrazione e non rappresenta quindi una continuità con la tradizione precedente. Pensiamo a certi salmi barocchi che durano più di mezz’ora. Quando li ascolto penso che sono bellissimi ma non possono avere oggi un ruolo nelle nostre celebrazioni. Sono stati composti per una diversa idea del rito, rispettabile ma non più attuale. Un’idea che anche tradiva l’essenza del rito romano straordinario (come lo chiamiamo oggi). Ma a che punto è la nostra ricerca di “un canto nuovo” da affiancare a quelli della grande tradizione che ancora rispondono alle esigenze attuali?

Se gli operatori musicali nostrani provano a pensare ad autori contemporanei entrati effettivamente nell’uso delle comunità che celebrano l’eucarestia, penso che non possano non constatare la rarità. Togliendo i canti immediatamente successivi al Concilio, che andavano a riempire un vuoto per chi voleva celebrare in lingua vernacolare, pochi altri si sono imposti negli ultimi vent’anni. Certo, ci sono anche quegli autori che si esprimono con un linguaggio molto simile, se non uguale a quello della musica cosiddetta “leggera”, e le composizioni emanate dai movimenti ecclesiali. E gli autori più accademicamente preparati? Questi non brillano in genere per la loro diffusione. Onestà intellettuale vorrebbe che ci si domandasse: perché? Cosa non va in chi fruisce di queste musiche? E, soprattutto, cosa non va in chi le compone? Forse non riescono a farsi rappresentanti del senso orante di una comunità che prega nell’oggi e non rappresentano che se stessi? E già, perché sarebbe ora che onestamente ci si ponesse la domanda sul perché alcuni autori, pur ricolmi di sapienza accademica, non funzionano molto, non passano. Non è qui da dimenticare come ammonimento la massima napoleonica secondo cui spesso i popoli si governano facendo leva sui loro vizi più che sulle loro virtù. Ma alla fine dei conti, questa frase non toglie tutti i problemi che provengono da quell’interrogativo. Certo, è vero che ricalcando certi modelli musicali che si rifanno a quella che, prendendo a prestito la definizione data da un celebre semiologo, viene definita la “competenza musicale comune”, si ottiene un accesso più immediato alla massa delle persone. Ma noi che crediamo che la musica liturgica debba avere una funzione espandente, un arricchimento di chi la fruisce (arricchimento emotivo visto nella prospettiva di quello che si diceva sopra), ci chiediamo se questo stesso arricchimento viene lo stesso garantito facendo leva su facili emozionalismi. L’emozione non è il fine della liturgia ma un vettore fondamentale che ti permette di accedere ad altro. Suscitare un facile emozionalismo superficiale, senza un approfondimento compositivo, spirituale ed estetico è ugualmente utile a chi frequenta a vario titolo le celebrazioni? Le emozioni, in se stesse, sono un terreno pericoloso e molto scivoloso, bisogna maneggiarle con cura.

Dunque perché alcuni non funzionano, pur se ottimamente preparati tecnicamente e preparati liturgicamente? Io credo sia dovuto a un corto circuito comunicativo. Se noi siamo appassionati di archeologia e frequentiamo le lezioni di un dottissimo professore che ci parla delle prime case sul Palatino con dovizia estrema di particolari ma con linguaggio ridondante, lungo nel periodare, baroccheggiante, noi, pur se interessati sconteremmo la pena di dover seguire un’esposizione percepita genericamente come “pesante”. Ma se lo stesso professore dicesse proprio le stesse medesime cose, con un linguaggio chiaro, coinvolgente e che, soprattutto, tiene bene a mente chi lo ascolta, che poi è lo scopo fondamentale per cui quel tizio sta lì a parlare, non ci sembrerebbe tutto ciò più invitante? Certamente, ne sono sicuro. Così per molti compositori. Talvolta sembrano non dare attenzione a chi poi, praticamente, dovrà fruire del loro lavoro. Io credo che un bravo compositore ai giorni nostri, per capire la gente che dovrà fruire del suo lavoro, debba guardare la televisione, andare al cinema, capire come i cantautori più interessanti costruiscono i loro testi, debba leggere i giornali, insomma debba essere un’esegeta del momento presente, l’unico che ci è dato vivere e che sconteremo per tutta la vita. Certo non deve fare solo quello, ma quello non gli deve essere ignoto. Io invece conosco molti musicisti per la liturgia chiusi all’esterno e alle sollecitazioni culturali dell’oggi, assolutamente contrari ad ogni contaminazione con la musica moderna e popolare. Molti grandi compositori del passato, fortunatamente non la pensavano come loro. Insomma, per molti è meglio dire che la massa è ignorante. Invece, cogliendo le sollecitazioni del mondo che ci circonda, con l’abilità di farle divenire arte, laddove possibile, si renderà quel servizio che ci qualificherà, oltre che come bravi artisti, anche come i servi “fedeli e saggi” (Vangelo di Luca 12, 41-48), citati dal Papa nel discorso alla Curia Romana del 2005. Si badi bene: io non dico che bisogna copiare da cinema o cantautori, ma credo sia interessante capire come essi comunichino e cosa possono insegnarci sulle persone che concretamente vanno ad assistere alle nostre liturgie. Talvolta chiudiamo la musica liturgica in un ghetto soffocante per paura di rovinarla con il risultato di farle mancare l’aria.

Come far sì che la musica liturgica favorisca ancora quell’incontro mirabile tra il cielo e la terra che solo nella liturgia trova la sua massima espressione? Innanzitutto con l’adesione piena e completa al rito e alle sue dinamiche funzionali, come più volte ripetuto. Quando un giovane mi chiederà un consiglio e io sarò abbastanza vecchio da darglielo, su cosa sia la cosa più importante nella musica liturgica, forse gli dirò: “osserva e medita il rito”. E’ straordinario pensare a quante profonde implicazioni ci siano dietro alla dinamica rituale. La musica liturgica e il rito sono unite intimamente. Se solo avessimo occhi puri per guardare cosa vuol dire la forza di un rito, avremmo tutto quello che ci è necessario per esserne trasformati.

 

 

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