«Nel giubileo sacerdotale di monsignor Reali la Chiesa di Porto-Santa Rufina si stringe con affetto attorno al suo vescovo emerito per ringraziare il Signore del suo ministero fecondo e per fare memoria dei diciannove anni in cui don Gino ha servito con grande amore la nostra diocesi». Le parole del vescovo Gianrico Ruzza, amministratore apostolico, esprimono la gioia dei fedeli riuniti il 31 luglio al Centro pastorale diocesano per festeggiare assieme il vescovo Reali. Alla Messa di ringraziamento erano presenti tra gli altri il cardinale titolare Beniamino Stella, prefetto emerito della congregazione per il Clero, il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della congregazione per le cause dei santi, l’arcivescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro Riccardo Fontana e diversi vescovi del Lazio. Lazio Sette ha incontrato monsignor Reali per ripercorrere la storia della sua vita attraverso le cinque immagini scelte dal presule come ricordo: la Madonna addolorata di Norcia, Santa Rita, ritratta nella cassa solenne che si trova a Cascia, la vocazione di Pietro e Andrea sulla facciata della basilica di San Pietro ‘extra moenia’ a Spoleto, il riccio del pastorale usato per diciannove anni, che riproduce il bassorilievo della nave di Portus e la Madonna di Ceri. A nome della diocesi il vescovo Ruzza ha fatto dono al vescovo Reali di un'icona con l'immagine di Santa Rita della cassa solenne.
Monsignor Reali, perché la scelta di queste cinque immagini?
Ognuna di esse segna uno snodo della mia vita con la prima e l’ultima che rappresentano Maria sotto due diversi titoli: Madre addolorata e Madre della misericordia. La scelta mariana esprime l’affidamento della mia vita alla Vergine Maria. Quello del dolore è il primo volto della Madonna che ho conosciuto, a lei è intitolata la mia parrocchia di origine, a Ruscio di Monteleone di Spoleto. Il mio parroco, don Sestilio Silvestri, faceva spesso riferimento all’Addolorata. Pensare e contemplare la sofferenza della Madre di Dio ai piedi della croce ha segnato la mia crescita insegnandomi a partecipare alla sofferenza delle persone, in particolare degli ultimi. È una delle chiavi che ci ricordano che siamo tutti figli di uno stesso Padre, che ci affida a una Madre, e per questo siamo chiamati a sostenerci come fratelli.
La Vergine di Ceri ci ricorda quale sia lo stile di questa fraternità.
La Madre della misericordia, che la nostra Chiesa portuense venera come protettrice, fa parte di quella tradizione che raffigura la Vergine in maniera più serena, una madre che prende per mano i suoi figli e li fa crescere nell’amore dando se stessa come testimonianza di amore. La Madonna di Ceri è, tra le diverse immagini mariane esistenti nel territorio, quella che ha conservato forte l’attrazione con il pellegrinaggio annuale delle comunità. La misericordia è il volto di Dio che Gesù non si stanca di ripetere ai discepoli: siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Guardando a Maria comprendiamo quale debba essere l’atteggiamento del cristiano: Dio è amore e comanda amore ai suoi discepoli. Egli indica a ciascuno il percorso della misericordia da fare assieme a quanti si incontrano. La misericordia vince la superbia, l’egoismo, l’arroganza, l’arrivismo, la tristezza... ogni tentazione di mettere la parola “io” al posto di “Dio”. Egli vuole invece che viviamo nella parola “noi” e che pronunciamo con tutti la condivisione, l’accoglienza senza se e senza ma. Questo chiediamo nel ‘Padre nostro’ quando invochiamo il Signore perché non ci abbandoni alla tentazione e perché ci guidi alla santità, strada possibile per tutti: siate santi perché io sono santo.
Quale percorso ci insegna santa Rita in questa direzione?
Santa Rita è stata per me il primo volto della santità. Fin da piccolo tutti mi hanno parlato di lei e mi hanno detto della sua storia, della sua carità espressa attraverso il dono dei miracoli, della sua dedizione alla famiglia attraverso un percorso di sofferenza e di intercessione. L’immagine abituale di santa Rita la presenta vestita da monaca nel momento della preghiera con la spina della passione infissa sulla fronte. L’immagine che ho scelto è diversa, tantoché i più fanno fatica a riconoscere la santa. Qui Rita è stata dipinta appena 10 anni dopo la sua morte da chi l’aveva conosciuta. È ritratta con il vestito abituale delle donne del suo tempo, con la spina in mano che dice del dolore, ma anzitutto della vittoria sul dolore, ed è questo il significato della croce per i cristiani. È proprio l’esperienza del dolore a renderci familiare santa Rita. Anche san Benedetto e san Francesco, così familiari nella mia terra, hanno accompagnato la mia scelta per la vita sacerdotale.
La vocazione di Pietro e Andrea è un chiaro riferimento al sacerdozio.
Questa formella si trova a Spoleto sulla facciata della chiesa parrocchiale di San Pietro, la basilica che è posta all’inizio della via del monte Luco, la montagna che sovrasta la città. In questa immagine ho visto proposta totalmente la vita sacerdotale, per me tutta dedita fin dall’inizio al servizio parrocchiale. Appena un mese dopo l’ordinazione mi sono state affidate alcune piccole comunità del comune di Norcia, dove ho potuto sostenere i confratelli più anziani e da essi imparare tanto. Ai numerosi e diversificati servizi a livello diocesano ho voluto sempre accompagnare il ministero parrocchiale, perché credo che il contatto con la gente con le sue difficoltà e con le sue gioie permette di rimanere ancorati alla realtà e di ricordare che la vita è un dono per tutti. La mia scelta di accogliere la vocazione al sacerdozio è debitrice del segno lasciato da tanti confratelli che hanno dedicato tutta la vita alla parrocchia, trovandovi la felicità, quella promessa da Gesù quando incontrò i primi discepoli e propose loro di diventare pescatori di uomini. Loro lasciarono le reti e il padre e lo seguirono.
Nell’altra immagine il riferimento è al suo servizio episcopale dedicato per quasi vent’anni alla Chiesa di Porto-Santa Rufina.
Mi pare sempre sorprendente l’immagine del pastorale, il bastone del vescovo, simbolo della guida del gregge di Dio. Fu per me una grande sorpresa la decisione del papa Giovanni Paolo II di affidarmi la diocesi di Porto-Santa Rufina. Da molti anni collaboravo con il mio vescovo e avevo avuto modo di vedere da vicino il suo lavoro, pieno di fatica e di complicazioni. Ora il Papa affidava a me una diocesi grande con tutte le urgenze della periferia romana, della sua campagna e del mare; un territorio che si era velocemente trasformato senza adeguate strutture e ancora prima senza il personale necessario. Posso dire che il significato del pastorale continua a suscitarmi rispetto e mi stimola alla maggiore dedizione quando penso alla barca riprodotta nel riccio. È la barca di Cristo, la Chiesa, ed è un simbolo che richiama l’antichità della nostra diocesi e la sua fisionomia: aperta e accogliente come ‘Portus’, l’attuale Fiumicino, il porto attorno al quale ebbe origine la prima comunità cristiana, guidata dal vescovo Ippolito. Egli, insieme alle giovani sorelle Rufina e Seconda, continua a proteggere questa Chiesa. Sono loro, i martiri, che ci ammoniscono di non anteporre nulla all’amore di Cristo.
Simone Ciampanella