«Usciamo dai nostri recinti sacri per annunciare il Vangelo»

Il vescovo Reali ha riaperto al culto la chiesa dei Santi Marco e Pio X a Pantan Monastero

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«Possiamo entrare un momento?», domandano alcuni giovani davanti al portone della chiesa di Pantan Monastero. È il sabato della scorsa settimana, fervono i preparativi per la riapertura del tempio dedicato ai Santi Marco Evangelista e Pio X dopo il restauro iniziato a gennaio. I ragazzi lavorano lì vicino. Don Krzysztof Dudała, il parroco, li fa entrare, anche se poco prima aveva chiesto ai collaboratori di non far accedere nessuno prima della celebrazione di riapertura. Ma, una parrocchia è un po’ come una famiglia dove i più grandi cedono al desiderio dei figli. Varcano la porta e i volti si fanno sorriso e stupore. Non intendono andare oltre eppure don Cristoforo (tutti lo chiamano così per non storpiare la pronuncia polacca del nome…) li spinge ad andare verso l’altare. Ringraziano e tornano alle loro occupazioni.

Questa chiesa continua ad essere un luogo centrale nella vita del quartiere, che è cresciuto attorno ad essa. E oggi dopo aver ritrovato la luce della sua fondazione attira dei ragazzi come quelli di allora oggi diventati padri e nonni in questa comunità alla periferia di Roma. Perché «la chiesa è viva e sempre in costruzione, come elemento vitale per tutta la comunità, sia dei credenti che dei lontani», spiega poche ore dopo don Cristoforo all’inizio della celebrazione presieduta dal vescovo Gino Reali, a cui il parroco esprime la gratitudine degli abitanti.

Il sacerdote raccoglie 100 anni di storia di Pantano: l’arrivo delle prime quattro famiglie di veneti, la guida di don Gustavo Cece, storico parroco per 42 anni, i suoi successori don Franco Arcieri e don Gianni Sangiorgio, ora a Cerveteri, rimasto lì per 23 anni. «La chiesa, per questo quartiere, è sempre stata un punto fermo, una casa. Non solo la casa di Dio, ma casa di gioia, a volte casa del dolore ma anche del conforto, la casa dove i nostri figli, i nostri padri, i nostri fratelli e le nostre sorelle si sono nutriti dei sacramenti e della grazia di Dio». Parole quasi per suggestione a commento del tabernacolo ideato e progettato da Gianluigi Saddi, autore di tutto il presbiterio, e realizzato da Erika Lavosi e Diego Venanzi. Dodici lastre, gli apostoli, ad adorare lo spazio più sacro, il sancta sanctorum. Scure come la terra lavorata dalla fatica dei contadini veneti. Rettangolari come i mattoni portati uno a uno dai quei coloni assorbiti nella costruzione delle loro abitazioni e della loro chiesa.

Tante parrocchie della diocesi hanno storia simile: costruire la propria casa e insieme edificare quella di tutti. Custodire il luogo della fede significa allora onorare i sacrifici dei padri, «per la speranza dei figli» dice la targa posta a memoria di questo intervento reso possibile grazie ai fondi 8xmille della Chiesa cattolica. «È stato un impegno da parte di tutti, Cei, diocesi e parrocchia, promosso e sostenuto dal nostro vescovo, a cui dico grazie» dice l’economo della diocesi Egildo Spada, illustrando l’intervento e il suo costo di oltre 430mila euro.

L’ufficio tecnico e l’economato della diocesi con Saddi responsabile unico del progetto, il progettista e direttore dei lavori Riccardo Moschella, la ditta Housingest Network SrL di Giovanni De Luca, il responsabile della sicurezza Leonardo Fabi, le maestranze, tra cui Giorgio Diaconita, Fiorello Capatana, Liviu Cusiac, Valentino Mihai, Massimiliano Amadio, gli artisti, i parrocchiani. Ogni centimetro restaurato porta la firma di questo gruppo unito per restituire nel più breve tempo possibile e con la massima dedizione il tempio alla sua gente, presente numerosa il 28 novembre nei limiti delle normative anti-Covid e collegata attraverso i media della diocesi.

«Signore, fa splendere il tuo volto e noi saremo salvi», il salmo del primo giorno di Avvento spinge per istinto gli occhi dell’assemblea sul Cristo pantocrator. Il mosaico inserito nell’abside trent’anni fa come promessa del lavoro di oggi, che un nuovo altare affida alla comunità. «Dedichiamo l’altare della nostra chiesa chiedendo al Signore che qui “il povero trovi misericordia, l’oppresso ottenga libertà vera e ogni uomo goda della dignità dei tuoi figli, finché tutti giungano alla gioia piena nella santa Gerusalemme del cielo”», liturgia e carità devono vivere assieme afferma il vescovo nell’omelia.

«Ricordiamo i tanti altari eretti sul nostro territorio sui quali si offrono i sacrifici della povertà, della solitudine e della disperazione; ci sono tanti santuari della malattia e della sofferenza dove si consumano giorni e notti di dolore e di abbandono» allora, sottolinea, «dobbiamo uscire dai nostri recinti sacri per annunciare il Vangelo di Gesù e testimoniare lo stile delle Beatitudini alle persone che non varcano le soglie delle nostre chiese». Dunque non solo spazi ecclesiali, quelli dell’edificio sacro, ma, «nuovi luoghi ecclesiali», quelli «che intendono rinnovare l’azione missionaria secondo quell’audacia e creatività continuamente riproposte da papa Francesco», oltre ogni indugio e timore.

Il rito della dedicazione riprende. Le reliquie rubate e ritrovate grazie ai Carabinieri vengono ad abitare la pietra viva. Il Crisma versato sulla mensa cattura lo sguardo di chi non ha mai visto questo gesto antico, mentre dal grande braciere sale l’incenso: l’altare è dedicato per sempre a Gesù, sacerdote e vittima per il sacrificio, mistero in cui i cristiani credono, nell’attesa che nel vangelo di Marco Cristo chiede di vivere ogni momento finché «il padrone di casa ritornerà».

Simone Ciampanella

foto Filippo Lentini

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