Roma, 09 Aprile 2020
Carissimi,
la mancanza della Messa Crismale, certo, ci rattrista ma non ci priva di nulla di essenziale perché non riesce a vincere la ricchezza dei doni e di significati del Giovedì Santo e dell’intero Triduo pasquale. La Messa Crismale con la benedizione degli Oli è stata solo rinviata, ma pensiamo ai sacramenti per i quali quell’olio viene benedetto. La semplificazione dell’intera liturgia del Triduo, che perde l’accensione del fuoco all’esterno del tempio e la lavanda dei piedi, non ci impedisce di pensare che il discepolo è caratterizzato dal servizio e dalla luce. Ogni proposta e tema, perciò, rimane presente nella nostra riflessione e nella preghiera.
Allora, sento legittimo recuperare il messaggio che ci viene dal gesto compiuto da Gesù nell’ultima cena quando, così leggiamo nel vangelo di Giovanni, «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto». La lavanda dei piedi, che mostra il valore dei segni della liturgia, ci fa pensare immediatamente a Gesù servo e alla comune vocazione al servizio.
Fratelli e sorelle, nella domenica della Palme abbiamo rivissuto l’ingresso di Gesù a Gerusalemme con le parole dell’evangelista Matteo. «Osanna al figlio di Davide» cantano le persone accalcate tra la folla, convinte di poter vedere il Messia annunciato dalle Scritture, il liberatore di Israele che torna grande, vittorioso, invincibile. Una settimana dopo, l’accoglienza si trasforma in abbandono, la gioia in odio, non più «Sia benedetto» ma «Sia crocifisso».
Anche noi siamo tra quelle persone, con il nostro cuore, ogni giorno della nostra vita. Ci costruiamo il nostro Gesù, esigendone l’intervento salvifico, quello che riteniamo più giusto, più adatto alla nostra storia. E quando la risposta non conferma i nostri piani non capiamo, e allora rifiutiamo Cristo, fino ad arrivare a maledirlo, fino a cancellare le parole di Isaia: «Non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» che il profeta aveva detto per lui, anticipando la sua Passione.
Durante il processo, Gesù rimane in silenzio davanti ai giudici, come ugualmente tante volte lo troviamo silenzioso davanti a noi, davanti all’umanità. E poi la domanda del sommo sacerdote: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio?». È la domanda decisiva, quella che viene immediata anche a noi nei momenti più bui, nelle situazioni in cui non riusciamo a vedere Gesù o forse ne abbiamo soltanto paura perché intuiamo quanto lui ci chiederà. Egli, vero Dio e vero uomo, rispondendo a Caifa, non nascose la sua identità e la sua missione, non si giustificò, ma davanti al sommo sacerdote affermò il cuore della fede dei discepoli: «d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo».
Il Signore rivelò di essere il Messia atteso, ma il vero Messia, quello inviato dal Padre non quello voluto dagli uomini. Egli sarà salvatore di tutte le genti, il giudice che alla fine dei tempi vaglierà il cuore dei discepoli sul comandamento più grande: ama Dio, ama il tuo prossimo. Le vesti squarciate del sommo sacerdote dicono l’atteggiamento di rigetto dell’umanità rispetto a parole inaudite. Parole che pesano perché chiedono un cambiamento profondo della vita. Ma, è lui, Gesù, ad insegnarci cosa sia l’amore e a volere i suoi in cammino su questa verità. Allora, dobbiamo squarciare non le vesti ma il cuore, lasciarlo aperto alla venuta di Dio, lasciargli lo spazio per accogliere ed ascoltare la sua Misericordia.
Fratelli e sorelle, vorrei ricordare alcune parole che papa Francesco disse durante la preghiera del 27 marzo. Non c’era nessuno ad ascoltarle ma esse sono arrivate dappertutto assieme a quelle straordinarie immagini del colonnato del Bernini aperto fino ad abbracciare il mondo intero. Il Papa commentava nel capitolo quarto del Vangelo di Marco l’episodio della traversata del mare. Gesù chiede agli apostoli «“Passiamo all'altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé nella barca… Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?”. Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”».
Il Papa Francesco spiegava: «L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai».
Nel dramma della pandemia stiamo sperimentando la difficoltà di riconoscere Gesù, di vederlo, e sentiamo tutta l’incapacità di comprendere il mistero della sofferenza e della morte; oggi avvertiamo di poter riconoscere il Signore in quel «perché» che egli pronunciò sulla croce, e capiamo che egli ha scelto di soffrire con gli uomini. Il Figlio obbediente nel sacrificio ha avuto fede nel Padre, oltre ogni logica, e Lui lo risuscita aprendo la salvezza a tutti. Questo è l’insegnamento del Giovedì Santo, abitualmente arricchito dalla visita ai “sepolcri” e l’adorazione prolungata dell’Eucaristia, questo è l’insegnamento del Venerdì santo e di tutto il Triduo pasquale.
Fratelli e sorelle, rimaniamo saldi nella speranza della Pasqua, che quest’anno ci vede distanti dalle celebrazioni più solenni, ognuno nella propria abitazione e ci sentiamo più che mai responsabili gli uni degli altri. Stando a casa nostra contribuiamo al bene di tutti e aiutiamo chi dedica il suo tempo e il lavoro e la sua generosità a curare le persone colpite dal coronavirus. Sentiamo che la comunione non manca, anzi avvertiamo che si rafforza. Se manca l’incontro vicino, immediato, in cambio si guadagna una nuova esperienza di tempo, che non è più fare, ma stare. Nelle nostre case riscopriamo le relazioni con i familiari, quelle tra i genitori e con i figli; con gli amici nella loro essenzialità; con i vicini di cui ora riconosciamo il volto benevolo, forse prima evitato. Nei nostri quartieri e nelle nostre città stiamo sperimentando la potenza della solidarietà, o meglio della carità, rafforzando quella già presente e osservando quella spontanea, nata perché l’umanità è più forte, capace di vincere l’individualismo, la tentazione più insidiosa del nostro tempo.
Ed ora, permettetemi di rivolgermi ai sacerdoti e ai diaconi, che nella comunità hanno un servizio speciale. Il nostro è un servizio carico di responsabilità e molte volte lo sentiamo tanto faticoso. Abbiamo bisogno del sostegno di tutta la comunità, che è anzitutto una vicinanza spirituale che ha il suo punto di forza nella preghiera.
Sulle difficoltà della vita di noi sacerdoti segnalo la riflessione che Papa Francesco ha consegnato al Clero Romano il 27 febbraio scorso. Il tema scelto dal Papa è stato quello delle amarezze nella vita del prete e voglio citarlo nella parte introduttiva dove il Papa spiega le ragioni della sua scelta.
Queste le parole di Papa Francesco: «Non desidero tanto riflettere sulle tribolazioni che derivano dalla missione del presbitero: sono cose molto note e già ampiamente diagnosticate. Desidero parlare con voi, in questa occasione, di un sottile nemico che trova molti modi per camuffarsi e nascondersi e come un parassita lentamente ci ruba la gioia della vocazione a cui un giorno siamo stati chiamati. Voglio parlarvi di quell’amarezza focalizzata intorno al rapporto con la fede, il Vescovo, i confratelli. Sappiamo che possono esistere altre radici e situazioni…
Guardare in faccia le nostre amarezze e confrontarsi con esse ci permette di prendere contatto con la nostra umanità, con la nostra benedetta umanità. E così ricordarci che come sacerdoti non siamo chiamati a essere onnipotenti ma uomini peccatori perdonati e inviati. Come diceva sant’Ireneo di Lione: “ciò che non è assunto non è redento”. Lasciamo che anche queste “amarezze” ci indichino la via verso una maggiore adorazione al Padre e aiutino a sperimentare di nuovo la forza della sua unzione misericordiosa (cfr Lc 15,11-32). Per dirla con il salmista: «Hai mutato il mio lamento in danza, mi ha tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché il mio cuore ti canti, senza tacere» (Sal 30,12-13).
Prima causa di amarezza: problemi con la fede. “Noi credevamo fosse Lui”, si confidano l’un l’altro i discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,21). Una speranza delusa è alla radice della loro amarezza. Bisogna però riflettere: è il Signore che ci ha delusi oppure noi abbiamo scambiato la speranza con le nostre aspettative? La speranza cristiana in realtà non delude e non fallisce. Sperare non è convincersi che le cose andranno meglio, bensì che tutto ciò che accade ha un senso alla luce della Pasqua. Ma per sperare cristianamente bisogna – come insegnava Sant’Agostino a Proba – vivere una vita di preghiera sostanziosa. È lì che si impara a distinguere tra aspettative e speranze».
Carissimi,
già sapete che quest’anno non porremo il segno così eloquente della lavanda dei piedi eppure sono certo che tutti ne ricordiamo l’insegnamento: Gesù ci dice che egli è venuto per servire e non per essere servito e che desidera che il servizio caratterizzi la vita dei suoi discepoli.
Tradurre in pratica la parola servizio è complicato per tutti, a cominciare da me, dai sacerdoti e diaconi, dai religiosi e dalle religiose fino ad arrivare a tutti voi, carissimi laici della nostra Chiesa, dove abbiamo tante belle testimonianze di amore al Signore. Perciò chiedo a voi il sostegno della preghiera per ogni nostro fratello ed ogni nostra sorella, mentre ricordiamo un passo significativo di comunione, avvenuto nella nostra Chiesa novecento anni fa.
Aggiungo che sempre mi pare che la preghiera che ci viene chiesta deve essere, come dire?, proporzionata alla grandezza del peso della vocazione ricevuta e alle necessità più urgenti e pesanti nella realtà ecclesiale. Il servizio sacerdotale non è semplice, perciò continuo a chiedere la vostra preghiera per i nostri sacerdoti di oggi e per quelli che devono venire domani.
Trovo appropriata e mi conforta una preghiera che Papa Paolo VI propose, a Bogotà il 22 agosto 1968, nell’omelia della Messa di Ordinazione di duecento sacerdoti e diaconi.
Queste le parole del Papa: «Signore, noi osiamo, in questo momento solenne e decisivo, esprimerti un’ingenua, ma non stolta preghiera: fa’ o Signore, che noi. Mediatori fra Dio e l’uomo, noi comprendiamo ricordando che Tu, Signore Gesù, sei il mediatore fra Dio e l’umanità; non diaframma, ma tramite; non ostacolo, ma via; non un saggio fra i tanti, ma il Maestro unico; non un profeta qualunque, ma il solo, il necessario interprete del mistero religioso, l’unico che congiunge Dio all’uomo, l’uomo a Dio…
E fa’ che noi comprendiamo, come noi, sì noi, misera argilla umana presa nelle Tue mani miracolose, siamo diventati ministri di codesta unica Tua efficiente mediazione (cfr. S. Th. III, 26, 1, ad 1). Toccherà a noi, come Tuoi rappresentanti, come distributori dei Tuoi divini misteri (1 Cor. 4, 1; 1 Petr. 4, 10), diffondere i tesori della Tua parola, della Tua grazia, dei Tuoi esempi fra gli uomini, ai quali, da oggi, è totalmente e per sempre dedicata tutta la nostra vita (cfr. 2 Cor. 4, 5)».
Cari amici,
alla radice di ogni rinnovamento c’è la Pasqua del Signore: nel cuore dell’uomo egli ha piantato il seme del bene perché ne abbiamo cura. Continuiamo a coltivare questo dono della grazia, facciamolo con la lettura della Parola di Dio e con la pratica della fraternità. E con la pazienza e la forza della fede torneremo a celebrare assieme il mistero del Dio fatto carne, morto e risorto.
Il mio pensiero va a tutti voi, fratelli e sorelle della nostra amata Chiesa di Porto-Santa Rufina. Mi stringo alle famiglie che hanno vissuto la Passione del Signore con la perdita dei loro cari e a quelli che, più fragili di tutti, la stanno vivendo nell’incertezza. Voglio incoraggiare tutte le persone, le famiglie, le comunità, le associazioni e i gruppi, le amministrazioni per quanto stanno facendo, ricordando che il Signore rimane accanto nella prova. Così come esprimo paternità a tutte le comunità parrocchiali e religiose per l’impegno quotidiano con cui animano la comunione del popolo di Dio.
A tutti giunga la mia benedizione e il mio augurio per la Pasqua, attraverso le parole dell’angelo, sceso dal cielo per rotolare via la pietra del sepolcro: «Non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto».
Buona Pasqua!
+ Gino Reali
Vescovo di Porto - Santa Rufina