Due episodi di razzismo hanno segnato la settimana calcistica a Fiumicino. In una partita nella categoria Allievi Elite un giovane della Us Ladispoli, Omar, è stato definito «Sporco negro… » da non si sa chi. Forse un adulto? Pochi giorni dopo un suo concittadino, Nathan, nel campionato promozioni, ha avuto lo stesso trattamento da un avversario. Uno scenario nuovo? Probabilmente no. Il compagno che ha preso le difese di Nathan ha detto che da sempre nei campi di calcio si sentono queste ingiurie.
Ma questa volta c’è stato dell’altro che ha interessato la cronaca. Il sedicenne del Ladispoli ha iniziato a piangere a lungo ma il match non è stato interrotto: è andato avanti come se nulla fosse accaduto. C’è stato poi un comunicato dell’Atletico Fiumicino, la squadra avversaria, che spiegava l’estraneità dell’autore dell’ingiuria alla società. E anche una presa di posizione della Lega nazionale dilettanti di ferma condanna della vicenda attraverso il presidente Antonio Cosentino. Così ha fatto anche il Ronciglione United per il secondo caso. Le due storie si commentano da sole: frasi inaccettabili pronunciate da imbecilli in un contesto che dovrebbe garantire la dignità della persona.
Questi gravi fatti danno lo spunto per condividere alcune considerazioni. Almeno due. Il senso dello sport trasmesso da educatori e genitori e la conseguente relazione tra i giocatori. Non è un mistero che i genitori che accompagnano i figli nelle competizioni sportive si sentano spesso mister spietati che hanno in mano la strategia di gioco giusta. E vedono nei figli degli altri, quelli che affrontano i propri durante le gare, dei nemici che ostacolano il successo del proprio campione. Ma è possibile che non si pensi a quei giovani come figli di altri genitori? Come propri figli? Sembra di no.
I miei figli hanno bisogno di tutta la protezione e l’incoraggiamento quelli degli altri neanche li considero tali. In ogni contesto educativo questo errore è molto più diffuso di quanto si pensi. E nel caso dello sport, la fondamentale esperienza di crescita fisica e mentale che rappresenta viene ridotta a mezzo per diventare campioni, per avere successo sugli altri. Padri e madri sono spesso convinti di avere tra le mani il miglior giocatore mai esistito senza l’umiltà di guardare come stiano le cose. E non di rado questa attesa si trasforma in continua pressione sul ragazzo, che si deve confrontare con la proiezione che i genitori gli appiccicano addosso. Se non ci si sente bravi, o non si hanno quelle capacità, la frustrazione prende il sopravvento e la rabbia cresce indisturbata: l’ansia di prestazione indotta trasforma il salutare agonismo in cattiveria. Chi ha responsabilità per questi ragazzi non può agire così, deve aiutarli a crescere nella pace e nell’amicizia perché la buona società si nutre anche di buone parole che accolgono l’altro come un fratello.
Gianni Candido
(01/02/2017)