Questo ampio studio sull'Ufficio Divino dei monaci Benedettini dell'Abbazia di Buckfast (Devon - Inghilterra), apparve sulla rivista "Homiletic & Pastoral Review" nel 1924 (pagine 43-49; 149-156; 283-288; 361-367). L'originale in lingua inglese è stato pubblicato sul sito CatholicCulture.org; la traduzione è a cura di Don Giorgio Rizzieri.
Riproponiamo questo scritto, ritenendolo prezioso per diversi motivi: perchè illustra efficacemente il fondamento teologico, storico e liturgico della Liturgia delle Ore; perchè l'importante tema della Liturgia delle Ore, che è la prosecuzione della liturgia eucaristica, non sembra riscuotere grande attenzione nel dibattito teologico attuale; perchè essendo questo studio estraneo alle questioni della riforma liturgica, risulta lontano da ogni controversia; e soprattutto perchè, procedendo con argomentazioni solide e convincenti, raggiunge livelli notevoli, anche dal punto di vista spirituale.
L'Ufficio Divino
La preghiera
Si può dire che la preghiera sia una cosa naturale per l'uomo, in qualsiasi forma essa venga effettuata. Soltanto il più degradato degli esseri umani non si rivolge a Dio d'istinto, per così dire, se non altro quando si sente minacciato da un pericolo. L'uomo ha una facoltà spirituale che lo rende simile al suo Creatore. Sperimentiamo il bisogno di Dio inconsciamente forse, o troppo vagamente nella maggior parte dei casi, ma questo anelito è la testimonianza che nella nostra natura è insita la solenne verità che siamo stati fatti da Dio per nessun altro fine se non quello di conoscerlo, amarlo ed essere felici di questa beata conoscenza, ora e nella vita più vasta che ci attende nell'aldilà.
C'è un bell'assioma nell'antico Codice Romano che rappresenta il nobile contributo del genio dei Romani al patrimonio etico e intellettuale dell'umanità: res clamat domino. I Romani, come gli anglosassoni di oggi, avevano un elevato senso della sacralità della proprietà privata che era tutelata, come l'onore di una donna, da un centinaio di norme di legge. Per una finzione legale, qualsiasi cosa appartenente a un cittadino dell'impero era, per così dire, assai sensibile e suscettibile su questo punto. Se a un Romano capitava di perdere un proprio bene, non doveva avere alcun timore che se ne impossessasse il primo venuto, poiché l'oggetto stesso avrebbe protestato contro il nuovo ingiusto proprietario e avrebbe invocato quello vero, come un cagnolino domestico geme e piange di tornare al proprio padrone: res clamat domino.
Il nostro cuore grida verso Dio poiché siamo sua proprietà. La preghiera altro non è che l'elevazione della mente e della volontà verso Dio. Non c'è bisogno di parole per comunicare con Lui, né di spostarsi fisicamente per entrare in contatto con Lui, dal momento che Egli riempie ogni spazio con la maestà della Sua invisibile presenza. In questo senso, ha ragione il poeta quando descrive la preghiera con parole che si stampano nella memoria, essendo né più né meno che: "Il peso di un sospiro / Il cadere di una lacrima: / Lo sguardo verso l'alto / Quando non c'è nessuno vicino se non Dio" [verso di James Montgomery, poeta inglese (1818 - 1897)].
La natura umana non è però tutta spirituale, ma un insieme di anima e corpo, per questo è necessario che l'uomo renda omaggio al suo Fattore non soltanto nella camera segreta del suo cuore, ma anche con manifestazioni esteriori e corporali di venerazione e di amore. Inoltre l'uomo è un essere per natura sociale. Formiamo una grande famiglia di fratelli, avendo lo stesso Dio per Padre comune. Per questa ragione, la pratica della preghiera pubblica e collettiva è fondata sugli istinti più profondi, e anche più veri, dell'umana natura. Il culto pubblico e comunitario della Maestà Divina è uno stretto dovere. Quante volte lo scrittore sacro esorta i popoli della terra a lodare il loro Signore?
Omnes gentes plaudite manibus: jubilate Deus in voce exultationis...
Psallite Deo nostro, psallite: psallite Regi nostro, psallite (Sal. 46).
E anche il messaggio del noto Salmo 116, tanto breve quanto ricco di significato, non è un mero pio desiderio o un'effusione poetica, ma una dichiarazione vera e propria del dovere che incombe su tutti di lodare Dio, insieme alle ragioni di tale obbligo:
Laudate Dominum omnes gentes: laudate eum omnes populi.
Quoniam confirmata est super nos misericordia eius:
et veritas Domini manet in aeternum.
La lode di Dio ha avuto inizio con l'origine stessa della nostra stirpe. Nel Giardino delle delizie, nella bellezza radiosa e incontaminata della primitiva innocenza, i nostri progenitori glorificavano il loro Creatore, della cui grandezza essi possedevano una conoscenza e una comprensione che di gran lunga supera la misura che può raggiungere le nostre capacità, indebolite a causa della caduta del primo uomo e della prima donna e per i nostri peccati personali. "Il Signore creò l'uomo dalla terra...li rivestì di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò. Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro per pensare. Li riempì di scienza e d'intelligenza ... Pose il timore di sé nei loro cuori, per mostrare loro la grandezza delle sue opere, e permise loro di gloriarsi nei secoli delle sue meraviglie. Loderanno il suo santo nome per narrare la grandezza delle sue opere" (Sir. 17, 1ss.).
Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi e a diffondersi sulla terra, anche il male si accrebbe. Ciononostante, a fianco della malvagità e della follia umana, notiamo che esiste una forma organizzata di culto divino, poiché leggiamo del sacrificio di Caino e Abele e sappiamo di Enoch, figlio di Set, il quale "cominciò a invocare il nome del Signore" (Gen. 4, 26). Qui ci è dato chiaramente di intuire qualche forma di culto pubblico, dato che non ci può essere alcun dubbio che, oltre al giusto Abele, anche Adamo ed Eva abbiano invocato il nome del Signore durante i lunghi secoli di penitenza per espiare le scelte cattive fatte nel tragico giardino.
Nella pienezza del tempo, lo stesso Figlio di Dio è venuto nel mondo per essere per tutti Salvatore e modello di santità e di perfezione morale. Gesù Cristo ha imposto il dovere di pregare con la parola e con l'esempio: Erat pernoctans in oratione Dei, dice l'evangelista, e il suo espresso comando è di pregare sempre, senza stancarsi mai di compiere tale dovere che è anche il più grande privilegio dell'uomo.
La preghiera del Signore era parte integrante della Sua missione redentiva a nome dell'umanità. Non ne aveva bisogno per sé ma intercedeva per noi, per grazia e misericordia. La preghiera di Cristo è un inno di lode e di supplica: "Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt. 11, 25). Della sua supplica San Paolo dice: "Nei giorni della sua vita terrena Egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito" (Eb. 5, 7).
La preghiera è un atto della virtù di religione, una virtù speciale, afferma San Tommaso d'Aquino, la più nobile delle virtù morali e appartenente alla virtù cardinale della giustizia. Inclina il cuore a rendere a Dio l'omaggio che Gli è dovuto. Ora, essendo le perfezioni di Dio infinite e la nostra capacità di riconoscerle e ammirarle confinata entro limiti ristrettissimi, la religione ci spinge a onorare, glorificare, lodare e adorare la Maestà di Dio fino al massimo possibile delle nostre capacità, consapevoli che, per quanto ci sforziamo, saremo sempre molto lontani da quello che Egli esige dalle nostre mani. "Nel glorificare il Signore, esaltatelo quanto più potete, perché non sarà mai abbastanza. Nell'esaltarlo moltiplicate la vostra forza, non stancatevi, perché non finirete mai" (Sir. 43, 29-30).
La giustizia, o perfezione morale, è pertanto strettamente connessa con la lode di Dio e la preghiera. Leggiamo in un'omelia a lungo attribuita a Sant'Agostino: "Vere novit recte vivere, qui recte novit orare - Ha imparato a vivere bene solo chi ha imparato a pregare bene" (Migne, P.L., Op. S. Aug. v, p. 1847). Il culto a Dio deve essere esterno ed interno. E' un puro sofisma da parte dei puritani valersi delle parole che Nostro Signore disse alla donna di Samaria: "Viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità" (Gv. 4, 23). Afferma un Concilio di Colonia dell'anno 1860, che non sarebbe di certo "un culto vero e sincero quello confinato dentro il cuore che non si esternasse mai, e che non è possibile custodire mentalmente una disposizione che non venga mai accesa ed infiammata da atti esterni". Anche San Paolo era di avviso ben diverso e, di sicuro, non era un esteriorista o un arido formalista. "Per mezzo di Lui dunque (Gesù Cristo) offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il Suo nome" (Eb. 13, 15).
Il dovere della lode
Pur ponendo il dovuto accento sul dovere di rendere culto a Dio, non dobbiamo mai dimenticare il fatto che Dio non ha alcun bisogno della nostra lode. Non possiamo aggiungere un solo atomo alla somma totale delle Sue adorabili perfezioni, nella contemplazione delle quali consiste la Sua gloria eterna e infinita. San Tommaso d'Aquino definisce la ragione per la quale dobbiamo rendere culto interno ed esterno a Dio con queste parole: "Prestiamo a Dio riverenza ed onore non per se stesso, che in sé è così pieno di gloria che nessuna creatura può aggiungergli nulla, ma per noi: poiché mediante la riverenza e l'onore che prestiamo a Dio la nostra mente a Lui si sottomette, raggiungendo così la propria perfezione. Ora l'anima umana per unirsi a Dio ha bisogno di essere guidata dalle cose sensibili, poiché come dice l'Apostolo "le Sue perfezioni invisibili vengono contemplate e comprese attraverso le opere da Lui compiute" (Rm. 1,20). Perciò nel culto divino è necessario servirsi di cose materiali, come di segni mediante i quali l'anima umana venga eccitata alle azioni spirituali che la uniscono a Dio. La religione quindi abbraccia atti interni, che sono principali ed essenziali per la religione, e atti esterni, che sono secondari e ordinati a quelli interni" (San Tommaso, Summa II-II, q.81, a.7).
Che il dovere della preghiera, o più in generale, l'obbligo di adorare la Maestà di Dio, vincoli ogni creatura razionale, non è negato da nessuno che creda in Dio e riconosca la propria dipendenza da Lui. I benefici che riceviamo da Dio sono in ogni ora del giorno: in ogni momento Egli ci dona la vita e l'essere. Ogni dono perfetto da sempre discende dall'alto, dal Padre della Luce. Ne deriva perciò che il dovere della lode e del ringraziamento ci sollecita a tutte le ore e in tutti i luoghi. E' vero che l'individuo non è in grado di sostenere uno sforzo continuo e intenso, ma guai al mondo se il profumo della lode e della preghiera dovesse cessare di innalzarsi al cospetto di Dio!
La Chiesa Cattolica - la Sposa immacolata dell'Agnello - si fa carico di questo dovere impellente e benedetto. Ad ogni ora del giorno e della notte, in tutto il mondo, Ella benedice e glorifica il Signore del cielo e della terra. La Liturgia della Chiesa cattolica è la continuazione dell'intercessione e delle suppliche di Nostro Signore durante i giorni della Sua vita mortale. Si può dire senza tema di esagerare che, come la Messa quotidiana è prosecuzione e riattualizzazione mistica del sacrifico del Calvario, così la preghiera liturgica della Chiesa è sequela e continuazione della preghiera che Gesù effondeva al Padre celeste mentre era pernoctans in oratione Dei.
La Chiesa cattolica, pur composta di esseri umani fragili e peccatori, è veramente il corpo di Cristo. Nella Chiesa, Gesù Cristo continua a vivere in questo mondo, soffre, prega e loda il Padre che è nei cieli. La voce della Chiesa è perciò la voce di Gesù Cristo. Con le dovute riserve, possiamo applicare all'ufficio pubblico della Chiesa quanto Sant'Agostino dice del Battesimo: Petrus baptizet, hic est qui baptizat; Paulus baptizet, hic est qui baptizat; Judas baptizet, hic est qui baptizat - Pietro battezza? E' Cristo che battezza; Paolo battezza? E' Cristo che battezza; Giuda battezza? E' Cristo che battezza". (Trattato su Giovanni, 6). La preghiera liturgica costituisce un valore inestimabile proprio perché non è una manifestazione privata e personale di pietà, ma un atto compiuto in nome, per autorità e delega della Chiesa universale.
La recita dell'Ufficio Divino, in una forma o nell'altra, attiene al carattere sacerdotale. L'ideale del sacerdozio comporta due cose: il sacrificio e la preghiera. Questo era il concetto di vita apostolica di San Pietro, di cui siamo partecipi col nostro sacerdozio. Non è giusto, dice il Principe degli apostoli, che noi trascorriamo il tempo a servire alle mense - altri siano scelti per questo compito - nos vero orationi et ministerio instantes erimus (At. 6, 4). San Tommaso dice che l'Ufficio Divino non è una pratica privata e personale di devozione: Communis oratio est quae per ministros Ecclesiae in persona totius populi Deo offertur (Summa II-II, q.83, a.12).
I religiosi non sacerdoti o le vergini consacrate a Dio, se recitano l'Ufficio Divino quotidianamente, lo fanno non da persone private ma come delegati e rappresentanti di tutta la Chiesa. Nella mente del principale legislatore dei monaci d'occidente, il Divino Ufficio è l'occupazione più importante dei monaci e al quale nulla deve essere anteposto: Nihil operi Dei praeponatur (Regola di San Benedetto, c. 43).
L'Ufficio è la preghiera della Chiesa e ha perciò un'efficacia simile a quella dei sacramenti, poiché Cristo non può restare sordo ai dolci accenti della Sposa. La preghiera liturgica oltrepassa prontamente le nubi e giunge all'ascolto del Padre che è nei cieli; ma non sono le nostre parole esitanti che Egli ascolta, quanto la forte voce del Figlio amato, nella quale si fondono le nostre deboli voci. Non è appunto con il Signore che noi ci uniamo formalmente all'inizio delle Ore canoniche? Domine in unione illius divinae intentionis, qua ipse in terris laudes Deo persolvisti, has tibi horas persolvo - Signore, unendomi alla tua divina intenzione, con la quale in terra elevasti lodi a Dio Padre, ti elevo nella lode queste Ore.
La singolare dignità della preghiera pubblica della Chiesa deve suscitare la nostra attenzione e devozione. Preghiamo, intercediamo, adoriamo e lodiamo come rappresentanti accreditati della Chiesa, e il nostro culto è unito al culto dell'Uomo-Dio. Lungi da noi, dunque, qualsiasi tipo di sciatteria o fretta sconveniente, preoccupazioni vane e sciocche immaginazioni. Quando diciamo l'Ufficio, in un coro prestigioso o in qualche nobile cattedrale o nel silenzio del nostro studio - anticipiamo sulla terra quella che sarà la nostra eterna occupazione in cielo. Divina psalmodia est eius hymnodiae filia quae canitur assidue ante sedem Dei et Agni: così si legge nella prefazione di Papa Urbano VIII al Breviario che usiamo giorno dopo giorno. Lo stesso concetto è nobilmente espresso nell'inno per la Dedicazione di una chiesa:
Sed illa sedes caelitum
Semper resultat laudibus,
Deumque trinum et unicum
Jugi canore praedicat:
Illi canentes jungimur
Almae Sionis aemuli.
Della preghiera pubblica della Chiesa cattolica si può dire, con le debite proporzioni, ciò che il pio autore dell'Imitazione di Cristo dice del Sacrificio della Messa: il sacerdote, con la devota recita dell'Ufficio - fosse anche su una carrozza del treno - onora Dio, allieta gli angeli, edifica la Chiesa, aiuta i viventi, ottiene il riposo per i defunti e diviene partecipe di ogni cosa buona.
Non siamo isolati o abbandonati a noi stessi. Per grazia, siamo membra vive di un organismo vivente, nel quale si agisce, si reagisce e si è influenzati in mille modi misteriosi. Non vi è dubbio che la recita dell'Ufficio Divino diventerà non un dovere faticoso, ma una fonte di felicità, se la osserviamo alla luce della fede soprannaturale. Già nel terzo secolo, il grande martire africano, San Cipriano, diceva della preghiera ecclesiastica: Publica est nobis et communis oratio, et quando oramus, non pro uno, sed pro toto populo oramus, quia totus populus unum sumus (San Cipriano, De Oratione Domini, VIII).
Formazione dell'Ufficio Divino
L'Ufficio Divino è chiamato comunemente Breviario. Non sta mai chiuso per troppo tempo - ci accompagna dovunque andiamo - e le pagine consumate sono le confidenti dei nostri pensieri quotidiani. Quante volte succede, aprendo il libro e recitando i salmi o le preghiere proprie di un certo giorno, di ricordare all'improvviso quello che ci è accaduto, forse qualche anno addietro, precisamente in quel giorno particolare, di gioia o di dolore. E' perciò nel massimo interesse di ogni sacerdote avere almeno alcune nozioni generali sull'origine, la crescita e lo sviluppo del Breviario fino alla sua familiare forma attuale.
Etimologicamente, il termine "Breviarium" significa registro o inventario. In questo senso è usato da San Benedetto nella sua Regola, quando dice l'Abbas brevem teneat riguardo agli strumenti appartenenti al monastero. Nel Medio Evo significa tenere un elenco di brani evangelici da leggersi in chiesa nel corso dell'anno. In genere, Breviarium era un po' come il nostro Ordo, o anche meno, poiché non era che un foglio sul quale si scrivevano alcune direttive per la celebrazione delle Messe e la salmodia. Era un'intera collezione suddivisa in genere in quattro volumi, secondo le quattro stagioni dell'anno, del pensum completo del servizio a Dio, distinto dal Messale, dal Pontificale e dal Rituale che contengono i testi delle Messe, i vari riti dei sacramenti e così via. Già Alcuino, verso la fine del secolo VIII, usa il termine Breviarium parlando del Libro delle Ore che lui stesso aveva composto per l'uso personale dell'imperatore Carlo Magno.
Diamo solo alcuni lineamenti sulla storia della formazione del Breviario. L'osservanza di forme di preghiera pubblica o liturgica da parte della Chiesa, è di origine apostolica. Come sappiamo, gli ebrei offrivano tre sacrifici ogni giorno, vale a dire all'alba, a metà della giornata e nel tardo pomeriggio o sera. E' altrettanto certo che gli apostoli e i primi discepoli di Cristo non si erano staccati, nei primi tempi, dalla sinagoga. Al contrario, leggiamo che essi "ogni giorno erano perseveranti insieme nel Tempio", e l'unica divergenza dalla pratica ebraica era che essi "spezzavano il pane nelle case, lodando Dio" (At. 2, 46). Anche se gli apostoli avessero desiderato effettuare un cambiamento radicale, sarebbe stato impossibile improvvisare una nuova forma di culto, completa e a sè stante. La Legge antica è solo l'ombra della Legge nuova, tuttavia sembrò naturale mantenere la cornice della vita religiosa ebraica, se non altro per addolcire la transizione dalla sinagoga alla Chiesa cristiana. Dal Libro degli Atti sappiamo quanto la Chiesa di Gerusalemme ci tenesse a mantenersi legata alle funzioni del Tempio, da sempre amate.
Ancora gli Atti ci mostrano San Pietro e San Giovanni che salgono al Tempio a pregare all'ora nona del giorno. Nel giorno di Pentecoste, troviamo il collegio apostolico in preghiera quando all'ora terza lo Spirito Santo discese sotto forma di lingue di fuoco. E quando San Pietro ebbe la visione del grande telo calato per i quattro angoli dal cielo sulla terra, egli stava in preghiera al piano superiore della casa verso l'ora sesta (At. 10, 9).
Queste ore della preghiera apostolica corrispondono alle ore del sacrificio e della lode nel Tempio, come pure alle ore fisse di preghiera di cui i pii ebrei si erano fatti una regola dai giorni del loro esilio. Nei penosi anni trascorsi presso i fiumi di Babilonia non esisteva il rito del sacrificio, ragion per cui questo fu sostituito dalla preghiera, dalla lettura delle Scritture e dal canto dei salmi. Tali pie pratiche sopravvissero dopo il ritorno dall'esilio e furono, di norma, osservate per tutto il tempo della diaspora.
Nelle ore di preghiera osservate dagli apostoli abbiamo, per così dire, il nucleo dal quale sbocciò quel maestoso albero pieno di frutti che è la Divina Liturgia, in grado di produrre una messe tanto ricca di fiori e frutti dolcissimi, per la gloria di Dio e il conforto dell'uomo. Mattino, mezzogiorno e sera erano distinte in celebrazioni proprie - le altre Ore canoniche erano un primitiva sequenza di lamentazione.
Fin dall'inizio, e necessariamente, il culto cristiano comprende due elementi ben distinti, e cioè la frazione del pane o Sacrificio Eucaristico, e la recita di preghiere e salmi, che i neo-convertiti conoscevano già molto bene fin dai loro primi passi nella fede. Conosciamo qualcosa sulla natura di queste preghiere, grazie a un testo famoso di San Paolo. Scrivendo al diletto Timoteo, che aveva nominato Vescovo di Creta, l'Apostolo gli dà delle direttive valide non solo per sé, ma per la vita e la pratica della Chiesa. Quando i fedeli si riuniscono per pregare, vi devono essere quattro generi di culto: Obsecro igitur primum omnium fieri obsecrationes, orationes, postulationes, gratiarum actiones, pro omnibus hominibus - Raccomando prima di tutto che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini (1 Tim. 2, 1). Ovviamente, non si tratta di devozione privata ma di preghiera comunitaria e di ringraziamento - in altre parole, di celebrazione liturgica. I primi commentatori hanno visto in questa ingiunzione apostolica i rudimenti, quanto meno, di una liturgia: Disciplinae leges tradidit (Paulus) pro publicis Ecclesiae precibus in Missa et Officio divino, dice Sant'Ambrogio (In Tim. cfr. Migne P.L. XVII. 466). Sant'Agostino, in realtà, cerca di applicare i quattro termini paolini esclusivamente alle quattro parti del sacrificio eucaristico. Tuttavia, già nel primo secolo San Clemente I Papa menziona una direttiva apostolica per le ore di culto. San Paolo, ovviamente, insiste affinchè Timoteo compia fedelmente nella sua Chiesa ciò che era già consuetudine altrove.
San Clemente Papa, nella sua lettera alla Chiesa di Corinto scritta nell'anno 96, distingue chiaramente il sacrificio eucaristico dalle altre funzioni religiose: "Dobbiamo fare ogni cosa fedelmente come il Signore ci ha comandato; i sacrifici e i sacri Uffici siano offerti nelle ore stabilite e a intervalli regolari". Qualche tempo dopo, troviamo un'altro accenno alle pratiche liturgiche dei primi cristiani, tanto più prezioso in quanto non fu certo scritto per facilitare le ricerche antiquarie dei posteri. Plinio il giovane era governatore della Bitinia all'inizio del II secolo, e in un rapporto indirizzato all'imperatore Traiano, egli parla delle assemblee dei cristiani. Non ha niente da biasimare, tutto ciò che sa di loro è che sono soliti radunarsi prima dello spuntar del giorno: ante lucem convenire, carmenque Christo quasi Deo canere. "Poi si ritirano durante il giorno" quibus peractis moram discedendi, per ritrovarsi la sera per un pasto comune". Era l'agape seguita dalla Cena eucaristica (Plinio, Epist. I. x. 97).
La Didachè prescrive la recita della preghiera del Signore tre volte al giorno e ad ore fisse. Questa preghiera corrisponde al triplice sacrificio e al culto che si praticavano nel Tempio. Le varie prescrizioni della Didachè ci danno tutti gli elementi di un vero e proprio Ufficio canonico. Dobbiamo inoltre considerare che il sacrificio ebraico del mezzogiorno e quello vespertino si erano gradualmente unificati, in modo che vi erano nel Tempio solo due assemblee generali dedicate al sacrificio: una al mattino e l'altra nel tardo pomeriggio o alle prime ore della sera. Si continuava a parlare di tre sacrifici, ma nello stesso modo in cui noi parliamo di Mattutino e Lodi come di due distinti Uffici, i quali erano effettivamente distinti e separati all'inizio, non solo nel carattere ma anche per i tempi diversi di celebrazione; virtualmente però, essi formano un unico Ufficio notturno della Chiesa.
Gli scritti di Tertulliano sono la più importante fonte d'informazione per gli ultimi due decenni del II secolo. Nel suo libro sulla Preghiera, egli dà per scontato che tutti i cristiani osservino dei momenti stabiliti di preghiera, al mattino e di notte. Per il resto del giorno non esiste alcuna norma, tuttavia egli dichiara che "non erit otiosa extrinsecus observatio etiam horarum quarumdam, istarum dico communium quae diem inter spatia signant, tertia, sexta, nona, quas sollemniores in Scriptura invenire est". Dobbiamo pregare non meno di tre volte al giorno, noi che siamo i debitori del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E' un dovere distinto dalla preghiera stabilita che deve essere offerta, senza ulteriore insistenza, all'inizio del giorno e della notte. (De Oratione, 23-25).
Fin dai primissimi tempi notiamo pure una tendenza ad associare alcune ore di preghiera con i misteri della Redenzione. Nei Canones Hippolyti infatti leggiamo che i cristiani devono pregare all'ora terza, perché in quell'ora il Salvatore del mondo volontariamente si fece crocifiggere per la nostra salvezza. (Un'altra spiegazione è: perché a quell'ora Nostro Signore fu condannato da Pilato). Si deve pregare all'ora sesta, perché a quell'ora tutta la creazione fu sconvolta dal crudele crimine dei Giudei; all'ora nona, perché a quell'ora Cristo pregò e affidò il Suo spirito nelle mani del Padre.
Ogni secolo successivo aggiunse il suo contributo per rendere sempre più stabile e solenne la preghiera pubblica della Chiesa. Tuttavia, fu solo in tempo di pace per la Chiesa, quando finalmente emerse dalla schiavitù e dalle feroci persecuzioni dei poteri civili, che l'Ufficio Divino potè prendere la forma definitiva che conosciamo. Due fatti determinarono il suo sviluppo: la fondazione e diffusione degli Ordini religiosi e l'osservanza religiosa dei misteri dell'Incarnazione, vale a dire l'istituzione delle festività di Nostro Signore, di Maria Santissima, dei martiri e anche di quei santi che non erano martiri della fede.
Si può affermare senza esagerare, che furono gli ascetae, o monaci, a inventare l'Ufficio Divino, la cui celebrazione era la loro principale occupazione. Essi arricchirono quello che già costituiva il compito quotidiano del clero e anche dei laici. Come nota in proposito Thomassin: "La santa disciplina del monachesimo getta una luce non piccola su quello che dirò riguardo agli Uffici ecclesiastici: quod enim a Matre acceperant, non sine foenore filii reddidere. Cominciarono i monaci come discepoli della Chiesa, ma dei discepoli tali che la Chiesa ritenne un guadagno e un onore seguire le loro orme" (Vet. et Nov. Eccl. Discipl. p. I, c. 2).
Si ricava una chiara idea degli elementi costitutivi dell'Ufficio Divino, dopo il riconoscimento civile della Chiesa, studiando la famosa Peregrinatio di Eteria. Questa nobile e intraprendente donna gallo-romana testimoniò la celebrazione della liturgia nella Città Santa verso la fine del IV secolo. "Ogni mattina - racconta - prima del canto del gallo, vengono aperte le porte della chiesa della Risurrezione, dove scendono i monaci e le monache e non solo, ma anche uomini e donne che desiderano vegliare con loro. Da quell'ora fino all'alba, si recitano inni e salmi, responsori e antifone. Dopo ogni salmo si legge una preghiera ... Appena spunta la luce del giorno, incominciano a recitare i salmi del Mattutino e delle Lodi". Anche la Terza, la Sesta e la Nona vengono osservate. "All'ora decima, che noi chiamiamo Lucernarium, la moltitudine si riunisce ancora nell'Anastasis, si accendono tutte le lampade e le candele e si crea un grande splendore; dopodiché si cantano i salmi dei Vespri: dicuntur psalmi lucernares, sed et Antiphonae diutius"; vale a dire che l'Ufficio dei Vespri era più lungo dell'Ufficio di Terza, Sesta e Nona. Inoltre, i salmi cantati erano già entrati nell'uso comune o approvati dalla legge ecclesiastica.
Negli scritti dei Padri del IV e V secolo, troviamo molte allusioni agli Uffici, sia notturni che diurni. I preti e i monaci non erano i soli a celebrarli, anche i fedeli laici vi partecipavano, e i più fervorosi tra questi assistevano sempre anche alla salmodia notturna. La Veglia pasquale era universalmente osservata. Anche le veglie dei martiri erano frequentate, ma si concedeva una misura di libertà riguardo a queste ultime (cfr. San Girolamo Contra Vigilantium). Lo stesso san Girolamo raccomanda Laeta di portare con sé la sua bambina, anche se piccola, tutte le volte che partecipa agli Uffici notturni delle grandi festività. San Girolamo parla delle Ore di Terza, Sesta, Nona, Vespri, mezzanotte e mattina.
Fino al V secolo, l'Ufficio Divino era ancora in uno stato di fluidità, con tanta varietà e incertezza. Ci voleva un grande maestro per coordinare i diversi elementi della liturgia e farne un complesso armonioso. Per questo, Dio ha dato alla sua Chiesa quel meraviglioso liturgista che fu San Benedetto, il patriarca del monachesimo occidentale, il quale fece per la Chiesa latina ciò che il re Davide aveva fatto per i servizi del Tempio: dedit in celebrationibus decus et ornavit tempora usque ad consummationem vitae, ut laudarent nomen sanctum Domini, et amplificarent mane Dei sanctitatem - alle celebrazioni egli diede decoro e mise ordine ai tempi solenni fino al termine della sua vita, affinché lodassero il nome santo di Dio, e magnificassero la santità di Dio ogni mattina (Sir. 47, 12-14, Vulgata).
San Benedetto legiferò solo per i suoi monaci. Nella sua umiltà, egli arriva a suggerire che se il suo ordinamento dell'Ufficio Divino non piace, ci si deve sentire liberi di cambiarlo o migliorarlo. Ed invece la Chiesa non solo ha mantenuto la sua opera, ma tutti gli storici sono concordi nell'affermare che la Chiesa Cattolica ha assunto la disposizione di San Benedetto a modello dell'ordinamento finale della liturgia. " Sull'esatto ordinamento degli Uffici, la distribuzione dei salmi, antifone o responsori ... vi è stata grande varietà nelle diverse chiese ... i Concili provinciali hanno tentato di portare uniformità e quando questa finalmente fu raggiunta, fu sotto l'ispirazione della Regola benedettina, in particolare per l'influenza e la pratica dei monasteri di Roma, quelle grandi abbazie raggruppate attorno alle basiliche del Laterano, del Vaticano, di Santa Maria Maggiore che gradualmente divennero Capitoli, dapprima regolari e in seguito secolari" (Duchesne, Origines du culte chrétien, p. 437).
Per prima cosa, il disegno di San Benedetto fu quello di ordinare la distribuzione dei salmi in modo che l'intero salterio si potesse recitare nel corso di una settimana. Anche le Scritture dovevano essere lette completamente ogni anno, insieme alle omelie o commentari quae a nominatissimis, et orthodoxis, et catholicis patribus factae sunt (Regula, c. 9). L'Ufficio notturno consiste di almeno dodici salmi, e altri dodici sono riservati per le Ore del giorno, tre per ciascuna. Il Lucernario si divide in due Uffici, rispettivamente chiamati Vespri e Compieta. Ogni Ora inizia con l'invocazione tanto cara agli antichi santi dei deserti orientali: Deus in adjutorium meum intende. San Benedetto dà anche ospitalità a inni metrici - l'Ambrosianus, come egli chiama la nuova composizione. Da ciò, notiamo che il grande legislatore attinse tanto da Milano quanto da Roma. Ma è sempre la grande Chiesa romana il suo modello (sicut psallit Ecclesia romana) (Regula, c. 13).
Quando l'ultima fondazione di San Benedetto, l'abbazia di Montecassino, fu distrutta dai Longobardi, i suoi monaci cercarono una nuova sede e la trovarono nei pressi del Laterano. Contemporaneamente, nuovi monasteri benedettini venivano costruiti nell'immediata vicinanza delle altre basiliche, e i monaci vi cantavano il Divino Ufficio di giorno e di notte. In questo modo, l'ordinamento dell'Ufficio, impostato da San Benedetto, ottenne sempre maggiore importanza e influenza. Dobbiamo a questo grande santo la disposizione definitiva della divina salmodia che fu accolta dalla metà del VI secolo in poi, non solo a Subiaco e Montecassino, ma nel cuore stesso della cristianità.
Ci si può domandare: "San Benedetto ha ordinato la salmodia ex novo, oppure ha basato la sua disciplina psallendi su ciò che era in uso a Roma?". La risposta sembrerebbe che Roma - o forse, più correttamente - Montecassino e Roma si influenzavano a vicenda. Uno scrittore del secolo VIII, o probabilmente della metà del secolo VII, afferma che il cursus di San Benedetto assomiglia moltissimo alle sequenze delle liturgie romane: "Est et alius cursus, beati Benedicti, quem singulariter pauco discordantem a cursu romano in sua Regula reperies scriptum" (Cfr. Dict. d'archeol. chrét. Bréviaire, p. 1307).
Da San Gregorio Magno a San Pio X
Come abbiamo visto, dalla metà del VI secolo troviamo una distribuzione definita e ordinata delle ore della Preghiera liturgica. Tutto ciò che fino ad allora risultava o troppo vago o eccessivo, era stato risolto o moderato da San Benedetto, nella cui Regola sono cristallizzate le migliori tradizioni della Chiesa. Non risponderebbe al vero se immaginassimo che questo grande uomo abbia inventato, sic et simpliciter, la struttura estremamente simmetrica degli Uffici che hanno arricchito il mondo. Egli infatti parla ripetutamente di antifone, inni, responsori, collette, come fossero cose note a tutti e già in uso costante ovunque. La sua disposizione non è che un adattamento di ciò di cui era stato testimone a Roma. Quando i monaci di Montecassino si trasferirono nei pressi della Basilica Laterana, non è pensabile che essi abbiano tentato o fossero stati autorizzati a recitare un Ufficio totalmente diverso da quello recitato dal clero annesso alla Basilica, poiché non vi è alcun dubbio che i monaci celebrassero l'Ufficio all'interno del Laterano. C'era un unico testo dell'Ufficio, ed esso era sia romano che benedettino, con differenze quasi trascurabili tra loro (Cfr. Dom S. Baumer, Geschichte des Breviers, cap. III).
Con il pontificato di San Gregorio Magno si raggiunge un periodo di grandissimo rilievo per la liturgia, che durerà a lungo. Quel Papa davvero grande era stato monaco e Abate di uno dei monasteri benedettini di Roma. Era perciò del tutto familiare con l'ordine dell'Ufficio Divino stabilito da San Benedetto. Ascendendo alla cattedra di San Pietro nel 590, uno dei suoi primi impegni fu quello di regolare, con la pienezza dell'autorità apostolica di cui era rivestito, le varie celebrazioni cultuali della Chiesa. Tutta la tradizione cristiana successiva giustamente considera San Gregorio padre e fondatore della Liturgia romana. Egli non ha inventato nulla - esisteva già una liturgia - ma c'era bisogno di fissare in modo autorevole i principali elementi del culto ecclesiale, sia nel contenuto che nella forma. Questo fu il contributo specifico di San Gregorio per la formazione della liturgia. Il suo biografo ci rivela che l'opera fu realizzata dal Pontefice, multa subtrahens, pauca convertens, nonnulla vero superadjiciens (Vita San Greg. Migne, P. L. LXXV. 94). San Pio V rende omaggio alle riforme liturgiche di San Gregorio dichiarando che il Breviario Romano è "divini Officii formula pie olim ac sapienter a summis Pontificibus, praesertim Gelasio et Gregorio primis, constituta". Del breviario benedettino, Walafrid Strabo dice che esso è "vicina auctoritati Romanae, et quia Beatus Gregorius vitam egregii Patris Benedicti describens, Regulam ab eo conscriptam, in qua idem Officium habetur, collaudans, sua auctoritate statutis ejus favere videtur" (De reb. eccl. 25).
L'Ufficio romano, grazie ai viaggi apostolici dei missionari benedettini, si diffuse gradualmente in tutta Europa, ad eccezione della Gallia, dove da molto tempo si erano stabiliti altri usi. Ma nell'anno 805, Carlo Magno emanò un editto imperiale con cui obbligava tutte le chiese dell'impero ad adottare i riti e i canti della Chiesa romana.
Un po' sommariamente, si può dire che l'Ufficio Divino che era celebrato nelle grandi Basiliche romane dal tempo di San Gregorio Magno, è identico, almeno nelle sue grandi linee, all'Ufficio che recitiamo oggi. Vi sono tuttavia molte e importanti differenze: i salmi, per prima cosa, erano spesso cantati con un'antifona, la quale non solo era cantata o recitata prima di intonare il salmo, ma era ripetuta ad ogni strofa, come tuttora avviene all'Invitatorio del Mattutino. Le lezioni o letture, sia tratte dalle Sacre Scritture che dalle omelie dei Padri della Chiesa, erano molto lunghe, dovendosi leggere tutta la Bibbia nel corso dell'anno. Anche le leggende dei santi erano di notevole lunghezza. Si richiedeva un numero enorme di libri manoscritti per celebrare in modo adeguato la liturgia, e anche la memoria era messa a dura prova. San Benedetto dava per scontato che tutti i suoi monaci conoscessero l'intero salterio a memoria, e chi era ancora manchevole aveva l'obbligo di imparare i salmi nell'intervallo tra l'Ufficio notturno e le Lodi.
E' evidente che i primi redattori dell'Ufficio Divino avevano una sola cosa in mente: che fosse recitato in comune da una numerosa assemblea di chierici e monaci, sotto la presidenza del Vescovo o dell'Abate. Dobbiamo tener presente che nei primi secoli della nostra era, il mondo civilizzato non era così densamente popolato come oggi. Non vi era clero nelle parrocchie rurali, ma ogni città o villaggio di qualche importanza, aveva il suo Vescovo che viveva in comunità con il proprio clero, e il popolo che viveva sparso nelle campagne veniva evangelizzato da quel centro comune. Il Vescovo, quando si allontanava dalla sua sede episcopale per amministrare i sacramenti o per rendere onore a qualche santo locale, veniva accompagnato dal proprio clero con il quale recitava le ore canoniche, come avveniva nella propria Chiesa Cattedrale. La domenica e nelle festività annuali, tutta la popolazione dei borghi e villaggi circostanti, si affollava nella sede episcopale o in qualsiasi altro luogo in cui il Vescovo avesse intallato la sua Cathedra temporanea. Ciò era motivato da un decreto di San Gregorio Magno che proibiva ai Vescovi di installare la Cathedra nelle Chiese monastiche, per non disturbare i monaci con un'affluenza eccessiva di gente. Tutta la vita religiosa e civica gravitava perciò attorno alla città episcopale e alla Chiesa Cattedrale.
Un simile sistema sociale poteva funzionare bene fintanto che il numero della popolazione si fosse mantenuto relativamente basso. In quei tempi, le Diocesi erano molto piccole e la gente delle campagne, per ragioni di sicurezza a causa dei tempi calamitosi, era costretta ad abitare vicino a qualche centro importante. L'Europa cambiò profondamente nei secoli XII e XIII. Le condizioni economiche differenti richiesero in modo imperioso la creazione di un clero parrocchiale. Il sacerdote in cura d'anime non poteva più vivere come membro di una comunità, ma doveva risiedere con la sua gente nei villaggi o nei borghi. La solenne e pubblica celebrazione dell'Ufficio Divino non era più possibile, eccettuati forse alcuni giorni dell'anno, in occasione di festività che portavano a un grande concorso di sacerdoti e laici. Era necessario adattare l'Ufficio corale alle nuove condizioni, in modo da renderne possibile la recita privata anche a un indaffarato parroco di campagna che viveva lontano dalla Chiesa Cattedrale.
Fu questo il tempo in cui sorsero gli Ordini mendicanti. Si sparsero rapidamente in tutta Europa proprio perché la loro vocazione e finalità si adattavano brillantemente alle nuove esigenze della società, vale a dire la predicazione del vangelo di luogo in luogo. Il monaco residente in monastero dedicava il meglio del proprio tempo ed energie all'impegno principale della sua vita - l'Opus Dei. Al frate invece, e per la stessa ragione al parroco secolare, servivano non i numerosi volumi in uso nel coro monastico o della cattedrale, ma un piccolo libro che potesse portare con sé nei suoi vari spostamenti. E' allora che compaiono per la prima volta i Breviari, più o meno nella forma in cui li conosciamo oggi. "Breviaria sua in quibus possint horas suas legere, quando sunt in itinere", dice un Concilio di Treviri nel 1227.
Per ordine di Papa Gregorio IX, il ministro generale dei frati minori, Aimone, compose una riduzione degli Uffici canonici - cioè il Breviario - che Papa Niccolò III (1277 - 1280) impose alle Basiliche romane. Gradualmente i vecchi, lunghi Uffici furono soppiantati dal nuovo Breviario, tanto che perfino i monaci seguirono la nuova tendenza per orazionali ridotti. Tuttavia, le Basiliche romane, e in particolare quella del Laterano, conservarono tenacemente le vecchie forme. Per questo, Papa Gregorio XI (1370 - 1378), un intero secolo dopo, decretò che la Basilica Laterana, per una giusta armonia tra il capo e le membra, cantasse giorno e notte gli Uffici juxta rubricam, ordinem, sive morem sanctae romanae Ecclesiae, seu capellae Domini nostri Papae. Questo decreto è importante, in quanto per la prima volta nella storia, è stabilito il principio che l'Ordo Curiae o Capellae Papalis, è da ritenersi mos Sanctae Romanae Ecclesiae e il modello da imitare da parte delle altre Chiese (cfr. Baeumer, Brevier, p. 321).
Malgrado questo decreto, le Chiese particolari, così come gli Ordini religiosi, mantennero le proprie tradizioni. L'Ufficio della Capella Papalis non era stato imposto sulla Chiesa universale, per cui rimase aperta la porta per ulteriori cambiamenti e innovazioni. Non c'è da meravigliarsi quindi che la libertà di gioco concessa ai gusti più diversi, abbia prodotto una gran varietà di Uffici e breviari.
Quando si riunì il Concilio di Trento, una delle questioni che i Padri intendevano affrontare era quella della riforma del Breviario. Ma il tema venne posto in discussione soltanto verso la chiusura di quell'autorevole assemblea. Fu nominata una commissione per studiare l'intera questione dell'uniformità nella celebrazione degli Uffici Divini. Frutto di quei lavori fu il nuovo Breviario pubblicato da San Pio V, e reso obbligatorio con la Bolla Quod a nobis, del 9 luglio 1568.
Siamo tutti familiari con questo breviario, poiché ci fu consegnato nelle mani nel giorno della nostra ordinazione al suddiaconato. E' rimasto senza alterazioni sostanziali dal 1568 fino al pontificato di San Pio X. La Bolla di San Pio V aveva abolito tutti i breviari locali che non dimostrassero un'antichità di almeno duecento anni. Furono pure soppresse moltissime feste di Santi ed Ottave, per assicurare una recita più regolare dell'Ufficio feriale. A parte le feste di Nostro Signore, il nuovo Breviario contava solo sessanta doppie, circa trenta o quaranta semidoppie e trentatré semplici. L'Ufficio feriale veniva così celebrato per circa duecento giorni. Ma gli immediati successori di quel grande Papa domenicano ristabilirono molte feste da lui soppresse, provocando così nuovi spostamenti delle ferie. Durante il pontificato di Urbano VIII, molti inni del Breviario vennero alterati - malgrado la venerabile antichità di gran parte di essi - con la scusa di correggere la loro metrica o latinità difettosa. Avremo ancora da dire su queste correzioni quando parleremo degli inni del Breviario.
L'ultima, e per noi più interessante, variazione o innovazione nella sacra salmodia, è stata realizzata da quel grande e santo Pontefice che fu Pio X. Fino al suo pontificato, specialmente durante il regno del suo illustre predecessore Leone XIII, erano di molto aumentate le feste dei Santi. Perfino l'Ufficio domenicale doveva lasciare il posto ai Santi, tanto che era diventato raro recitare un Ufficio della domenica, esclusi i tempi di Avvento, Settuagesima e Quaresima. La conseguenza più ovvia della frequenza celebrativa dei santi era la continua ripetizione degli stessi salmi. Alcuni venivano recitati quasi ogni giorno, altri non si ascoltavano mai nel coro e restavano relativamente sconosciuti alla maggior parte di coloro che erano tenuti a dire l'Ufficio. Inoltre, il clero era ben legittimato a lamentarsi, in quanto gli Uffici più lunghi - nel caso in cui venissero detti gli Uffici della domenica - coincidevano con questi giorni, quando i doveri parrocchiali esigevano maggiormente il loro tempo ed energie.
Si era così reso imperativo un ritorno alle forme di preghiera liturgica più antiche, più semplici e più brevi. Ma il cambiamento doveva essere fatto con saggezza, affinché l'onore dovuto ai Santi non soffrisse diminuzioni, e l'Ufficio della feria ritornasse normale. E' sotto gli occhi di tutti che questo ideale è stato felicemente realizzato. L'Ottava di Natale costituiva un ovvio precedente che doveva essere seguito su scala più ampia. Così ora uniamo con gioia il cultus dei Santi, che conoscevamo bene, con le ricchezze dispiegate davanti a noi negli Uffici domenicali e feriali. Non solo, ma è ben riuscito anche lo sforzo di assicurare una recita integrale del salterio nel corso di ogni settimana, che lungi dal costituire un peso quotidiano ulteriore per il sacerdote, lo ha anzi sollevato da un compito che talvolta era quasi superiore alle proprie forze.
Dopo questi sommari dettagli preliminari, studieremo ora ogni parte costitutiva del Breviario. E' uno studio indispensabile per un sacerdote. Quanto più ci sforziamo a comprendere questo libro glorioso, tanto più ci rendiamo conto della verità delle parole scritte da Papa San Celestino I (+432) ai vescovi della Gallia, più di quattordici secoli fa: Orationum sacerdotalium sacramenta respiciamus, quae ab Apostolis tradita in toto mundo atque in omni Ecclesia catholica uniformiter celebrantur, ut legem credendi statuat lex supplicandi (cfr. Denzinger, Enchiridion).
L'Ora più importante: il Mattutino
L'Ufficio del Mattutino costituisce la parte più estesa e di gran lunga più importante del culto liturgico. Come indica il termine stesso, Mattutino - Matutinum - designava all'origine l'Ufficio che veniva recitato all'alba e che oggi chiamiamo "Lodi". Il suo nome primitivo era Vigiliae - "veglia". I primi cristiani in genere, e il clero e i monaci in particolare, erano soliti santificare le ore silenziose della notte con la lode solenne e comunitaria di Dio. Sembrerebbe che fossero più di uno gli incontri notturni, e che le assemblee dei fedeli corrispondessero alle veglie delle sentinelle dell'esercito romano. Da qui viene la designazione di "Notturno" o "Veglia". E' certamente impossibile provare in modo categorico che fosse sempre lo stesso gruppo di persone a riunirsi in Chiesa a tre intervalli diversi, tutte le notti. Se così fosse, non avrebbero mai avuto un momento di svago nella vita di ogni giorno. Ma non vi è alcun dubbio che la pratica di alzarsi a circa metà della notte per pregare, è antica quanto la Chiesa stessa.
La preghiera durante le ore delle tenebre e del silenzio è sempre stata una delle pratiche preferite dai santi di ogni tempo. Uno scrittore sacro del Vecchio Testamento ci dice che questa era la sua prassi: media nocte surgebam ad confitendum tibi - Nel cuore della notte mi alzo a renderti grazie (Salmo 119, 62). I ministri del Tempio hanno l'obbligo di lodare il Signore nelle veglie notturne: Qui statis in domo Domini: in atriis Dei nostri; In noctibus extollite manus vestras in sancta: et benedicite Dominum! - Voi che state nella casa del Signore durante la notte. Alzate le mani verso il santuario e benedite il Signore! (Salmo 134, 2). Il Signore Gesù inoltre ci ammonisce e ci esorta a vegliare nelle ore notturne, perché non sappiamo l'ora della Sua venuta: "Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino (Mc. 13, 35).
Tutti i fedeli, come un corpo solo, erano soliti osservare di norma le grandi Veglie che precedevano le feste di Pasqua e di Pentecoste e, probabilmente, delle maggiori solennità, come l'Epifania. Comunque sia, già nel V secolo vi era un unico raduno per la preghiera e la lode, a circa metà della notte. A questo Ufficio notturno - che è l'appellattivo appropriato - seguivano subito dopo le Lodi, almeno durante i mesi estivi.
La Regola di San Benedetto rappresenta uno specchio fedele di ciò che costituiva la pratica sia dei chierici che dei monaci nella seconda metà del V secolo. Il patriarca del monachesimo occidentale stabilisce che nei mesi invernali, quando le notti sono più lunghe, i monaci si alzino a circa l'ottava ora della notte: ut modice amplius de media nocte pausetur. Le Lodi sono separate dall'Ufficio notturno da un intervallo abbastanza lungo, durante il quale i monaci non devono tornare a riposare, ma darsi all'orazione personale e allo studio dei salmi. In ogni tempo dell'anno le Lodi vanno dette all'aurora per cui, durante le notti estive più corte, vi è un intervallo assai breve tra l'Ufficio notturno e il Mattutino, chiamato oggi Lodi: "parvissimo intervallo custodito, mox Matutini, qui incipiente luce agendi sunt, subsequantur" (Regula, c. 8).
I primi Padri della Chiesa sono molto espressivi nel lodare la preghiera notturna. "Più efficacemente del fuoco che scioglie la ruggine dal ferro, la preghiera di notte consuma la ruggine dei nostri peccati: nelle ore notturne le nostre anime sono rinfrescate dalla rugiada celeste come le piante, e ciò che viene inaridito dal calore del giorno, viene rinfrescato durante la notte" (San Giovanni Crisostomo, Om. XXVI, in Act. Ap.). Perfino i filosofi pagani comprendevano il valore spirituale delle veglie. In Omero, a uno degli eroi greci viene detto di diventare capo del popolo senza dormire la notte, poiché non è conveniente per chi è chiamato a vegliare sul benessere di tanta gente (Iliade, Libro II).
Effettivamente, le ore silenziose della notte sono quanto mai propizie al pensiero silenzioso e alla riflessione profonda. E' quando ci liberiamo dalle preoccupazioni opprimenti del giorno, quando l'abbagliante luce di questo mondo non acceca più la nostra vista, che cominciamo a capire l'autentico valore della vita e a interpretare i suoi tanti enigmi. Era questa l'esperienza del profeta regale: "Ripenso ai giorni passati, ricordo gli anni lontani. Un canto nella notte mi ritorna nel cuore: medito e il mio spirito si va interrogando" (Salmo 77, 6-7).
Sappiamo che l'orazione notturna era prassi normale per gli apostoli. Quando Paolo e Sila furono gettati in prigione a Filippi, si misero a pregare nel cuore della notte: "Media autem nocte, Paulus et Silas orantes, laudabant Deum - Verso mezzanotte, Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio (At. 16, 25). L'episodio è richiamato dall'inno del mercoledì di Mattutino:
Mentes manusque tollimus,
Propheta sicut noctibus
Nobis gerendum praecipit,
Paulusque gestis censuit.
Sebbene non si facciano più veglie solenni e si reciti il Mattutino ad ore più convenienti, l'Ufficio notturno conserva però sempre le sue caratteristiche peculiari. E la principale è che esso stimola la mente a seria riflessione. I suoi elementi più importanti sono i salmi, le letture selezionate dalle Sacre Scritture, le omelie dei Padri, le vite dei santi e dei martiri di Dio. Inni, responsori, antifone e versetti intrecciano salmi e letture per dare maggior movimento e un ulteriore elemento di varietà.
La salmodia
Poiché i salmi costituiscono una parte tanto considerevole dell'Ufficio Divino, non è fuori luogo fare alcune considerazioni e dare qualche suggerimento per un più profondo apprezzamento e comprensione di questi canti sublimi che sappiamo essere realmente ispirati, non soltanto nel senso lato di quando si dice che una poesia è così bella che è ispirata, ma nel senso che i salmi sono stati composti per mozione e impulso diretto dello Spirito Santo, "poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio" (2 Pietro 1, 21).
E' innegabile che i salmi siano spesso oscuri e che non rivelino facilmente il loro significato nascosto; sono indispensabili studio e riflessione se si vuole penetrare il peso mistico dei canti di Sion. Molti salmi sono direttamente profetici, alludendo ai misteri dell'Incarnazione, alle sofferenze e alla gloria del Messia. In essi e grazie ad essi, noi ascoltiamo la voce di Cristo stesso, poiché il salmo parla spesso in nome del divino discendente di Davide. Sant'Agostino, spiegando il salmo 63, parla così ai fedeli: "I salmi che cantiamo furono composti sotto dettatura dello Spirito Santo, prima che Cristo nascesse dalla Vergine Maria: tutto quello che ora leggiamo o vediamo, fu preannunziato da questi profeti .. Il salmo 63 parla in persona di Nostro Signore Gesù Cristo, il Capo e le membra. Egli è il nostro Capo, nato da Maria, che patì, fu sepolto, risuscitò, ascese al cielo, e ora intercede presso il Padre a nostro favore". Ascoltiamo il salmo e sentiamo Cristo che parla in esso: "audiamus psalmum, et in eo Christum loquentem audiamus" (Enarrat. in Ps. 62).
I salmi sono doppiamente sacri, in quanto resi da Gesù Cristo veicoli del suo culto al Padre celeste. Essi divennero espressione dei sentimenti di sottomissione, adorazione e amore di cui era colmo il suo Cuore divino. Egli li conosceva a memoria e li custodiva nella sua santa mente. Li cantava con i suoi discepoli. Prima di iniziare il suo ministero pubblico, nei lunghi anni di silenzio, solitudine e lavoro, quante volte ha unito la sua voce alla dolce voce di Maria, sua Madre, e alla voce virile del suo padre putativo, allorché queste tre santissime persone sedevano insieme al termine del giorno dopo ore di fatica, e potevano finalmente conversare tra loro! Dalla creazione del mondo, mai si erano levati accenti simili verso il Cielo. I cherubini e i serafini avrebbero ben potuto sospendere il loro eterno Sanctus, Sanctus, Sanctus attorno al trono di Dio, per prestare ascolto a quelle ineffabili melodie che si elevavano dalla nostra terra di peccato. Che il nobilissimo intelletto della nostra Madre Santissima fosse immerso nella conoscenza delle Sacre Scritture e dei salmi, risulta abbondantemente chiaro dal suo personale sublime contributo al canto quotidiano della Chiesa. Il Magnificat contiene infatti la quintessenza delle Sacre Scritture e poteva essere cantato solo da uno che si fosse nutrito a lungo della Parola di Dio, fino al punto che ogni pensiero si rivestiva spontaneamente della fraseologia del Libro ispirato.
Non esiste inno, preghiera o autore umano che possa reggere il confronto con i salmi. Il salterio costituisce un'eredità inestimabile, accresciuta dalla sua antichità e ancor più arricchita da tutti coloro che lo hanno usato prima di consegnarlo a noi. Quelle medesime parole che noi ogni giorno e quasi a ogni ora abbiamo sulle nostre labbra, furono pronunciate dalle labbra dei Santi dell'Antica e della Nuova Legge. Quei cantici risuonavano negli atri del Tempio di Salomone, e riecheggiavano nelle strette strade di Gerusalemme. Furono cantati nelle profondità delle viscere della terra, tra i sepolcri dei morti, nelle catacombe di Roma, durante i tre lunghi secoli di persecuzione. Poi riecheggiarono dapprima sotto i tetti dorati delle basiliche imperiali, e successivamente attraverso le lunghe navate e le volte intagliate delle maestose Cattedrali e delle sontuose Chiese abbaziali delle ere della fede. Nella più fitta foresta dell'Africa centrale, essi confortano il missionario esule; come un'eco di casa e memoria dei giorni di gioventù, essi allietano la solitudine degli apostoli che stazionano in qualche isola sperduta dell'Oceano Pacifico.
In qualunque stato interiore ci troviamo, qualunque sia il bisogno del momento e la difficoltà dell'ora, le parole dei salmi saranno sempre adatte alla disposizione della nostra anima, adeguandosi, come la manna antica, al gusto e al gradimento di ciascuno: paratum panem de coelo .. omne delectamentum in se habentem, et omnis saporis suavitatem .. deserviens uniuscuiusque voluntati, ad quod quisque volebat, convertebatur - dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto .. si adattava al gusto di chi ne mangiava, si trasformava in ciò che ognuno desiderava (Sap. 16, 20-21).
Il metodo migliore per recitare i salmi, è identificarsi il più possibile con i sentimenti che essi esprimono, secondo le note parole di Sant'Agostino: "Si orat psalmus, orate; et si gemit, gemite; et si gratulatur, gaudete; et si sperat, sperate et si timet, timete; omnia enim quae hic conscripta sunt, speculum nostrum sunt - Se il salmo prega, pregate; se geme, gemete; se ringrazia, gioite; se spera, sperate; e se teme, temete. Perché tutte le cose che qui sono state scritte sono il nostro specchio" (Enarr. in Ps 30, sermo III).
Le nostre anime siano come una barca che solca gioiosamente le onde, spinta gentilmente qua e là dal loro ritmo; lasciamoci trasportare dalla dolce e potente corrente del canto divino. O, con altra metafora, lasciamo che ogni salmo o perfino ogni versetto, sia per noi ciò che è l'onda per un abile nuotatore: lungi dall'esaurire le sue energie in un vano tentativo di dominarne il flusso, egli accetta di venire sollevato in alto e in basso e così, placidamente cullato, raggiungere la riva. Versetto dopo versetto, la nostra anima è innalzata verso Dio in trasporti di adorazione e di amore, e di nuovo si abbassa nelle profondità della conoscenza di sé e della sincera umiltà che nascono dall'autentica introspezione.
E ogni volta, senza fatica e quasi spontaneamente, ci sentiremo, per così dire, trasportati al largo nel mare della grandezza di Dio, in quell'oceano a cui Sant'Agostino paragona le Sacre Scritture con una frase di incomparabile bellezza: "Mira profunditas eloquiorum tuorum, quorum ecce ante nos superficies blandiens parvulis: sed mira profunditas, Deus meus, mira profunditas! Horror est intendere in eam, horror honoris et tremor amoris" - Meravigliosa la profondità delle tue parole! Eccole: qui alla superficie ci attirano come bambini, ma sono di una profondità meravigliosa, Dio mio, di una profondità meravigliosa! Incute terrore a guardarci dentro; terrore di venerazione e tremore d'amore" (Confessioni, Libro 12, cap. 14).
Ma perché la salmodia produca in noi questi tanto desiderabili frutti, deve essere, per prima cosa, intelligente - psallite sapienter! E la comprensione può scaturire solo dallo studio e dall'attenzione. I salmi hanno un significato letterale, mistico e allegorico. Alcuni Padri della Chiesa hanno insistito nelle spiegazioni allegoriche, quasi escludendo il significato più ovvio. Nelle bellissime Enarrationes di Sant'Agostino troviamo molte spiegazioni di questo tipo.
Soprattutto dobbiamo guardarci da un'eccessiva interpretazione 'accomodata' del sacro testo, che troppo spesso fa violenza alla Parola ispirata di Dio. Un certo predicatore, ad esempio, volendo eccitare la devozione dei suoi fedeli al Sacro Cuore, scelse come testo di riflessione queste parole del salmo 64,8: "Accedet homo ad cor altum et exaltabitur Deus", applicando cor altum al Cuore divino, mentre in realtà il cuore profondo [nel senso di oscuro: abisso] di cui qui si parla, è il cuore del peccatore. C'è pure il versetto 27 del salmo 18: "Cum sancto sanctus eris, et cum viro innocente innocens eris et cum perverso perverteris - Con l'uomo buono tu sei buono, con l'uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare". E' un versetto caro ai missionari e ai predicatori di ritiri, che lo citano per mostrare gli effetti sul nostro comportamento delle compagnie che frequentiamo. Sfortunatamente per loro, il testo significa solo che Dio è buono con i giusti e severo con i malvagi. Si ricava un ben scarso profitto da quei fantasiosi adattamenti che, talvolta, sembrano quasi un insulto al testo sacro.
D'altra parte, non serve nemmeno sforzarci accanitamente a cogliere il significato di ogni singolo versetto che ci balzi, per così dire, nella mente: "Non scrupulosius singula dicta psalmistae attribuantur Christo, vel Ecclesiae, sive animae fideli; sed paulo generalius res rebus potius attribuantur", insegna il santo dottore Tommaso.
Se si vuole celebrare l'Ufficio con le dovute disposizioni, in modo da trarne il massimo profitto spirituale, occorre fare una preparazione preliminare - se non lunga, almeno intensa: "Prima di fare un voto prepara te stesso, non fare come un uomo che tenta il Signore" (Sir. 18, 23). E' molto efficace la pia recita della preghiera: Aperi Domine, con la quale rinunciamo e rigettiamo, prima di entrare in preghiera, ogni vano e ozioso pensiero e, allo stesso tempo, ci uniamo all'orazione e alla lode con cui il Figlio di Dio si offriva al Padre celeste nei giorni - e nelle notti - della Sua vita mortale.
E' parimenti assai raccomandabile avere delle intenzioni particolari per ogni ora del Divino Ufficio: pregare per chiedere qualche grazia di cui abbiamo bisogno, o offrire l'Ufficio per qualcuno per cui desideriamo pregare; senza mai dimenticare, comunque, che l'Ufficio è una preghiera veramente cattolica e universale che si offre a Dio a nome di tutta la Chiesa e anche di tutta l'umanità.
links al testo originale
www.catholicculture.org/culture/library/view.cfm?recnum=9037
www.catholicculture.org/culture/library/view.cfm?id=9039
www.catholicculture.org/culture/library/view.cfm?id=9040
www.catholicculture.org/culture/library/view.cfm?id=9043
(08/03/2012)