L’ermeneutica della "riforma nella continuità"

Dal motu proprio 'Summorum Pontificum' alla nuova evangelizzazione dell’Occidente

di Sandro Magister

 

 

 

 

Che il Concilio Vaticano II abbia dedicato al tema della liturgia il suo esordio e il suo primo documento "si rivelò come la cosa anche intrinsecamente più giusta", ha scritto papa Ratzinger nella prefazione al primo volume, volutamente tutto liturgico, della sua "opera omnia". Perché Dio è la priorità assoluta. Perché l'ortodossia della fede, come dice l'etimologia della parola, è "doxa", è glorificazione di Dio. E quindi il modo giusto dell'adorazione è la vera misura della fede: "lex orandi, lex credendi".

Per questa stessa ragione, Ratzinger ha più volte sostenuto che la crisi della Chiesa degli ultimi decenni ha origine da sbandamenti proprio nel campo della liturgia, e in particolare dall'opinione diffusa che la nuova liturgia prodotta dalle riforme conciliari abbia segnato una cesura radicale con la liturgia precedente.

In effetti, le variazioni introdotte nella liturgia a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno qua e là marcato un'evidente rottura col passato. Alla messa intesa soprattutto come sacrificio di redenzione e celebrata "rivolti al Signore" si è sostituita una messa come pasto fraterno, su un altare a forma di tavolo avvicinato il più possibile ai fedeli. Alla liturgia come "opus Dei" si è sostituita una dinamica assembleare con la comunità come protagonista.

In alcuni luoghi e momenti queste variazioni si sono spinte all'estremo. Un caso esemplare è quello illustrato dall'opuscolo "Kerk en Ambt", Chiesa e ministero, distribuito nel 2007 nelle parrocchie olandesi a cura dei domenicani di quella nazione. Nel quale si proponeva di trasformare in regola generale ciò che in vari luoghi già si praticava e si pratica: la messa presieduta indifferentemente da un sacerdote o da un laico, "non importa se uomo o donna, omo o eterosessuale, sposato o celibe". Con le parole dell'istituzione eucaristica pronunciate dall'uno o dall'altro dei presenti, designati "dal basso", o anche dall'insieme dell'assemblea e liberamente sostituite da "espressioni più facili da capire e più in sintonia con la moderna esperienza di fede".

Non sorprende quindi che Benedetto XVI abbia fornito questa descrizione allarmata dello sbandamento liturgico seguito al Concilio, in una lettera indirizzata ai vescovi di tutto il mondo in quello stesso 2007:

"In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa".

La lettera ora citata è quella con cui Benedetto XVI ha accompagnato la promulgazione del motu proprio "Summorum Pontificum" del 7 luglio 2007, col quale ha liberalizzato la celebrazione della messa secondo il messale del 1962, quello antecedente il Vaticano II, peraltro pacificamente usato durante tutta l'assise conciliare.

Il proposito di Benedetto XVI, espresso nella lettera, è che le due forme del rito romano, l'antica e la moderna, convivendo "possono arricchirsi a vicenda".

In particolare, l'auspicio del papa è che "nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso".

Il che è precisamente ciò che avviene, sotto gli occhi di tutti, ogni volta che papa Ratzinger celebra la messa: col rito "moderno" ma con uno stile fedele alle ricchezze della tradizione.

Nell'istruzione "Universæ Ecclesiæ" diffusa lo scorso 13 maggio, a ulteriore precisazione e applicazione del motu proprio "Summorum Pontificum", è citato quest'altro passaggio della lettera di Benedetto XVI del 2007:

"Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del 'Missale Romanum'. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso".

E viceversa – ribadisce l'istruzione "Universæ Ecclesiæ" – i fedeli che celebrano la messa in rito antico "non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della santa messa o dei sacramenti celebrati nella forma ordinaria".

Si capisce chiaramente, da queste citazioni, che la "riforma nella continuità" è anche in campo liturgico il criterio ermeneutico con cui Benedetto XVI vuole guidare la Chiesa fuori dall'attuale crisi.

La contrastata accoglienza che hanno registrato nella Chiesa sia il motu proprio che la successiva istruzione sono la prova di quanto sia serio e urgente il proposito di Benedetto XVI.

In campo liturgico, infatti, l'ermeneutica della rottura è pane quotidiano, tuttora, sia di quei tradizionalisti che vedono nel nuovo rito della messa l'affiorare di elementi eretici, sia dei progressisti che vedono nella liberalizzazione del rito antico il rinnegamento del "nuovo inizio" ecclesiale inaugurato dal Vaticano II.

Tra i liturgisti, quest'ultima opinione è molto presente. Per loro, la forma moderna del rito ha soppiantato l'antica e non può sopportare che questa persista. Ne è prova recente la "vis" polemica con cui Andrea Grillo, liturgista, professore alla facoltà teologica di Sant'Anselmo, ha reagito a PierAngelo Sequeri, teologo, colpevole quest'ultimo di aver difeso la "lezione di stile cattolico" impartita da Benedetto XVI col ridare "ospitalità ecclesiale" alla forma antica del rito romano.

Aveva scritto Sequeri, sulla prima pagina di "Avvenire" del 14 maggio:

"Di qui in avanti, unire le forze per restituire alla liturgia l’incanto possente della fede che sta al cospetto dell’unico Signore deve apparirci, in questi tempi difficili, l’unica cosa veramente necessaria allo splendore della tradizione della fede. E se fosse proprio questo ciò che ci fa difetto? Da dove viene – e dove ci porta – questa assuefazione all’investitura fai-da-te, che impanca chiunque a salvatore del cristianesimo, e guida sicura delle sue guide insicure?".

Il proposito di Benedetto XVI – lo si sa e l'ha ribadito il 14 maggio il cardinale Kurt Koch, presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, in un convegno romano sul motu proprio "Summorum Pontificum" – non è infatti quello di far convivere indefinitamente le due forme del rito, la moderna e l'antica. In futuro, la Chiesa avrà di nuovo un suo rito romano unico. Ma il cammino che il papa vede davanti per integrare le due forme attuali del rito è lungo e difficoltoso. Ed esige la nascita di un nuovo movimento liturgico di qualità alta come quello che preparò il Concilio Vaticano II e al quale lo stesso Ratzinger attinse, il movimento liturgico di Guardini e di Jungmann, di Casel e di Vagaggini, di Bouyer e di Daniélou, di quei grandi che non a caso furono anche critici severi degli sviluppi liturgici postconciliari.

Come la liturgia è stata in questi decenni il campo delle più evidenti rotture tra il presente della Chiesa e la tradizione, così l'ermeneutica della "riforma nella continuità" ha nella liturgia, con Benedetto XVI, il suo più drammatico terreno di prova.

Pavia, 21 maggio 2011
 

fonte: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1348526

 

 

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