Partecipare attivamente, ma senza "partecipazionismo"
di Aurelio Porfiri *
Se vi capita di partecipare a conversazioni sulla liturgia dopo il Concilio Vaticano Secondo, la parola che sicuramente sentireste pronunciare a più non posso è una: partecipazione. Questa parola fa da sottofondo a molte battaglie sulla musica liturgica; e questo sottofondo è molto rumoroso. Per molti partecipare è un concetto totalizzante; esso informa l’agire liturgico in ogni suo aspetto.
C’è del vero in questo ma la maniera in cui il concetto è spesso presentato e fatto vivere non è totalizzante, ma totalitaria. Nel primo caso significa che si deve essere in grado di partecipare all’azione liturgica, nel secondo significa che la partecipazione diviene un valore imposto e si sostituisce al fine della stessa. Il partecipante diviene il partecipato, se posso esprimermi così. Ma il problema, come per altri problemi simili, è che il termine viene visto come un assoluto, non come un’articolazione concettuale. Cosa dice la Sacrosanctum Concilium (SC)?
“L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo” (n. 113).
Questa celeberrima frase ci offre un programma di lavoro importante. La liturgia, per rivestirsi di maggiore nobiltà, richiede tre cose importanti: il canto, i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo (per questo aspetto, nello stesso paragrafo ci sono rimandi ad altri articoli che ne parlano più specificamente). Ora leggiamo il testo in questa maniera: “L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo”. Come vedete funziona, no? Eppure ho tolto una parolina, proprio perché chi legge possa rimarcare la differenza tra il testo ufficiale e questo lievemente modificato e, quindi, trarne le opportune conseguenze. La parola che manca è “solennemente”. Nel testo non viene detto soltanto che la forma del culto è più nobile quando i tre elementi citati (canto, sacri ministri e partecipazione attiva) sono presenti; ma esso è più nobile quando tutto ciò viene fatto “solennemente”. In che modo quella parola “solennemente” qualifica tutta la frase? Come va letta? Cosa significa in pratica “celebrare solennemente”? Come si vede l’enfasi non è sulla partecipazione in se stessa, o sul canto, ma è sul come questi elementi danno solennità all’agire liturgico.
Nel Motu Proprio di san Pio X, documento fondamentale sulla musica liturgica (22 novembre 1903), troviamo alcune direttive importanti anche per il nostro scopo. La frase di apertura di questo documento potremmo metterla come intestazione di qualunque altro documento sull’argomento in questione:
“La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione ed edificazione dei fedeli”.
Più chiaro di così! La SC ribadirà questi punti con molta precisione, solo aggiornandoli e precisandoli:
“Effettivamente per il compimento di quest’ opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua Sposa amatissima, la quale l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno padre” (SC I, 7).
“Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli (…)” (SC 6, 112).
Quindi, mi sembra, il primo capoverso che abbiamo letto all’inizio del paragrafo 113 della SC è sostanzialmente una riproposizione di quanto già detto 60 anni prima da Pio X con qualche precisazione pastorale importante: il popolo, per essere edificato, deve partecipare “attivamente”. Sappiamo quanti fiumi di parole sono stati spesi sulla partecipazione “attiva” e anche quante cattive interpretazioni, spesso anche “politicizzate”, si sono date di questo termine. Si è scambiato “attivo” per “attivismo”, in cui tutti devono fare tutto. La qual cosa, va senz’ombra di dubbio contro lo spirito e la lettera di qualunque documento in materia liturgica della Chiesa.
Padre Silvano Maggiani in una sua conferenza del 1987 parla a questo proposito di “partecipazionismo efficientista”. Dunque il Motu Proprio propone concetti che poi la SC riprenderà, anche se lo farà a modo suo. Per l’oggetto del nostro studio vedremo come ci sarà un decisivo passaggio dalla “liturgia solenne” al “celebrare solennemente”. Alcuni (e vedremo anche questo), vedono in questo una confusione su cosa sia o non sia la liturgia solenne, ma forse così non è. Torniamo a Pio X. Nel suo documento viene affermato senza ombra di dubbio il divieto del canto in volgare e quindi la riproposizione con forza estrema del latino come unica lingua del culto. Quindi solennità è sinonimo di “lingua sacra” e quindi, come diretta conseguenza nella musica liturgica, di canto gregoriano e polifonia classica (massime espressioni in questa lingua della nostra tradizione musicale), pur non chiudendo la porta, anzi incoraggiando, le moderne espressioni della composizione musicale liturgica che non rinneghino certe caratteristiche di bontà, santità ed universalità delle forme. La solennità, nel succitato documento, è intesa come splendore dei riti per il concorso di una musica artisticamente elevata e per la bellezza di tutto ciò che concorre allo svolgimento di un azione rituale:
“Essa (la musica sacra n.d.r.) concorre ad accrescere il decoro e lo splendore delle cerimonie ecclesistiche, e siccome suo ufficio principale è di rivestire con acconcia melodia il testo liturgico che viene proposto alla intelligenza dei fedeli, così il suo proprio fine è di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo, affinchè i fedeli con tale mezzo siano più facilmente eccitati alla devozione e meglio si dispongano ad accogliere in sé i frutti della grazia, che sono propri della celebrazione dei sacrosanti misteri” (S. Pio X, Motu proprio, cap. 1, par. 1).
“Essendo infatti nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca per ogni modo e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima e indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della chiesa” (S. Pio X, op. cit., introduzione).
Merita successivamente attenzione un documento di Pio XI, la costituzione apostolica “Divini Cultus Sanctitatem”, scritta per commemorare proprio i 25 anni del Motu Proprio di cui or ora ci siamo occupati e che viene emanata il 25 dicembre 1928. Qui ancora si ribadisce l’efficacia della musica sacra sulla solennità delle celebrazioni, ribadendo altri concetti riguardanti, ad esempio, l’ufficiatura corale e le scholae cantorum. Ma, ciò che è importante al nostro scopo, si dà un maggior spazio al problema della partecipazione del popolo. Questo passaggio mi sembra chiaro segno di un clima in mutamento:
“Affinché i fedeli prendano una parte più attiva al divin culto, il canto gregoriano, in ciò che spetta al popolo, sia restituito nell’uso del popolo. Occorre infatti che i fedeli, non come estranei o muti spettatori, ma, compresi veramente e penetrati dalla bellezza della liturgia, assistano in tal modo alle sacre funzioni – anche allorché si celebrano processioni solenni – da alternare la loro voce secondo le dovute norme, a quelle del sacerdote o della schola cantorum; se ciò accadrà felicemente, non si avrà più a lamentare quel triste spettacolo in cui un popolo non risponde affatto, o appena con un mormorio sommesso e indistinto, alle preghiere più comuni proposte in lingua liturgica ed anche in volgare” (IX).
Certo che un cambiamento evidente è difficile non notarlo. Anzi, più che un cambiamento mi sembra un approfondimento su cosa significa veramente una celebrazione solenne e come si percepisca il contrasto tra una Messa magari ricchissima di apparato e il popolo muto. E successivamente al passo citato, il Pontefice chiede che tutti nella Chiesa si adoperino in quest’opera di istruzione del popolo, curando che esso (nei limiti consentiti in quel periodo storico) potesse partecipare più attivamente alla Messa. Ma l’enfasi è sulla celebrazione, non sul partecipare.
Eccoci ora ad un'altra tappa fondamentale del rinnovamento liturgico, l’enciclica di Pio XII “Mediator Dei”, promulgata il 20 novembre 1947. In questa enciclica si dà conto del risveglio degli studi liturgici, con apprezzamento e incoraggiamento. Si parla di quello che con termine generale viene definito “movimento liturgico”, attivo sia oltralpe che da noi e le cui istanze confluiranno nella SC e saranno alla base della riforma liturgica. La “Mediator Dei” è un documento ricco e complesso, che andrebbe indagato con più calma e competenza di quello che si può offrire in questo scritto. Mi sembra importante però citare un passo che segna un'altra tappa nel percorso di avvicinamento alla riforma liturgica e ci chiarisce ancora di più il cammino verso la riscoperta di un diverso modo di solennizzare l’azione liturgica:
“Sono, dunque, degni di lode coloro i quali, allo scopo di rendere più agevole e fruttuosa al popolo cristiano la partecipazione al Sacrificio Eucaristico, si sforzano di porre opportunamente tra le mani del popolo il 'Messale Romano', di modo che i fedeli, uniti insieme col sacerdote, preghino con lui con le sue stesse parole e con gli stessi sentimenti della Chiesa; e quelli che mirano a fare della Liturgia, anche esternamente, una azione sacra, alla quale comunichino di fatto tutti gli astanti. Ciò può avvenire in vari modi: quando, cioè, tutto il popolo, secondo le norme rituali, o risponde disciplinatamente alle parole del sacerdote, o esegue canti corrispondenti alle varie parti del Sacrificio, o fa l’una e l’altra cosa: o infine, quando, nella Messa solenne, risponde alternativamente alle preghiere dei ministri di Gesù Cristo e insieme si associa al canto liturgico” (Pio XII, “Mediator Dei”, parte seconda, par. 2, 3. Nell’edizione che ho consultato - “Vita e pensiero” - la citazione si trova a pag. 86).
Già stiamo, praticamente, nella SC e precisamente nel paragrafo che stiamo osservando in questo breve studio. La Messa sarà ancora più solenne “quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo” (SC, par. 113). Come vediamo, questo percorso di avvicinamento è sempre più serrato e il concetto in questione si va sempre più precisando. Per una liturgia solenne non ci vuole esclusivamente una bella musica, ma anche che essa sia funzionale al momento celebrativo, “servendone” le esigenze di funzionalità e pastoralità. In questo non è mai stato implicato che essa deve essere sciatta o brutta. Questa è stata una tragedia che è senz’altro figlia di un certo modo di intendere la riforma liturgica ma che con essa non ha niente da spartire. Sempre il Papa Pio XII tornerà sull’argomento musica sacra il 25 dicembre 1955, con l’enciclica “Musicae sacra disciplina” in cui, oltre ad un’inquadratura anche dal punto di vista dottrinale della materia musicale liturgica, si trova un ulteriore progresso e incoraggiamento per coloro che si adoperano per far partecipare attivamente il popolo alle celebrazioni. Già quando definisce cosa è la musica sacra, possiamo avvertire un chiaro mutamento di prospettiva:
“E infatti in ciò consiste la dignità e l’eccelsa finalità della musica sacra, che cioè per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza essa apporta decoro ed ornamento alle voci sia del sacerdote offerente sia del popolo cristiano che loda il Sommo Iddio, eleva i cuori dei fedeli a Dio per una sua intrinseca virtù, rende più vive e fervorose le preghiere liturgiche della comunità cristiana, perché Dio Uno e Trino da tutti possa essere lodato e invocato con più intensità ed efficacia”.
E ancora:
“Essa adunque nulla può compiere di più alto e di più sublime dell’ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni la voce del sacerdote che offre la vittima divina, di rispondere gioiosamente alle sue domande insieme al popolo che assiste al sacrificio, e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro”.
Certo, ancora il popolo semplicemente “assiste” al Sacrificio, tutta la riflessione sul ruolo dell’assemblea è da venire, ma i segnali di un progresso verso la SC sono chiari. Poco dopo la frase riportata, il Pontefice fa un elogio del canto popolare religioso, pur relegandolo quasi esclusivamente alle funzioni extra-liturgiche anche se, qualche paragrafo dopo, concede che si possa far cantare qualche brano in volgare (dopo il testo ufficiale in latino) a patto che questo brano non sia composto sulle parole del testo liturgico di quel momento del rito. E anche questa concessione viene fatta con tutte le prudenze dal caso. Siamo a 8 anni dalla SC e il percorso verso le tematiche importanti di questo solenne documento si fa via via chiaro. All’inizio del secolo il termine solenne aveva un significato che potremmo definire meramente cerimoniale, riguardava un apparato sonoro e visivo sfarzoso. Con il progressivo approfondimento dei contenuti profondi della celebrazione cristiana, ci si è lentamente accorti che un attore importante di essa era ormai relegato a “muto spettatore”. Dalla SC e in seguito, la solennità non sarà legata solo ad uno sfarzo indistinto, ma all’armonizzazione profonda ed efficace delle componenti essenziali dell’azione sacra, attraverso una efficace gestione dei codici comunicativi.
Altri documenti precedono la SC, documenti che hanno un’importanza da non trascurare ma che qui possiamo solo accennare appena di sfuggita. Il 3 settembre 1958 viene emanata dalla Sacra congregazione dei Riti l’istruzione “De Musica Sacra et Sacra Liturgia” [1]. Il 25 luglio 1960, Giovanni XXIII promulga il Motu Proprio “Rubricarum Instructum” e la Congregazione dei Riti emana il: “Nuovo Codice di rubriche per il breviario ed il messale romano”. La stessa Congregazione emanerà, il 14 febbraio 1961, l’”Instructio de Calendariis particularibus et Officiorum ac Missarum propiis ad normam et mentem Codicis rubricarum revisendis.” Il periodo pre-conciliare viene significativamente chiuso da due documenti che poi faranno molto parlare anche ai giorni nostri (e su cui, purtroppo, non possiamo fermarci più a fondo), tutti e due emanati da Papa Giovanni XXIII: il Chirografo “Jucunda Laudatio” (8 dicembre 1961) e la costituzione apostolica “Veterum Sapientia” del 22 febbraio 1962. Insomma, anche prima del Concilio si fa capire che partecipare non significa fare tutto ma essere protagonisti nella funzione propria del nostro ruolo nella liturgia.
1) Questa istruzione contiene la seguente definizione della liturgia solenne: “Si chiama Messa cantata se il sacerdote celebrante canta effettivamente le parti che le rubriche prevedono che siano cantate: altrimenti si chiama letta. Se la Messa cantata si celebra con l’assistenza dei sacri ministri, si chiama Messa solenne; se si celebra senza ministri sacri, si chiama cantata”. Come vediamo, aperture e chiusure si alternano nell’ambiente liturgico, anche se da lì a poco una porta verrà aperta e non sarà mai più richiusa.
FONTE: Zenit.org, 29/03/2011 ( http://www.zenit.org/article-26127?l=italian )
Partecipare attivamente
ma senza partecipazionismo (II)
di Aurelio Porfiri *
Occupiamoci dunque del Concilio, che ovviamente è il momento topico per l’evoluzione del concetto di partecipazione, evoluzione che ha anche lati ancora non del tutto chiariti. L’inizio dei lavori conciliari, a quando sembra, non faceva prevedere che nell’ambito della musica sacra ci sarebbero state novità eclatanti. Anzi, nella solenne liturgia per l’apertura del Concilio l’11 ottobre del 1962, la musica eseguita nella solenne celebrazione presieduta dal cardinale Tisserant (con Papa Giovanni che assisteva dal trono, come si usava dire) è quella della grande tradizione musicale della Chiesa cattolica: la celeberrima “Missa Papae Marcelli”, il “Tu es Petrus” e l’“Ad Te levavi” di Palestrina. Il “Confirma hoc Deus” e l’”Exaudi Domine” (composto per l’occasione) di monsignor Domenico Bartolucci, Maestro della Cappella musicale pontificia in quel tempo ed oggi Cardinale. Quindi siamo pienamente nella prassi musicale di quegli anni.
Certo la Sistina era molto apprezzata dai Padri conciliari ma qualcuno sollevava obiezioni in quanto sembrava che il movimento liturgico non trovasse accoglienza nel Concilio Ecumenico. Il Cardinale Ottaviani propose di alternare durante i giorni di lavoro del Concilio, le messe celebrate in rito romano con messe celebrate in altri riti. Alcuni Padri manifestarono entusiasmo per queste celebrazioni:
“Vidimus hodie pulcherrimum specimen concelebrationis et actiones et cantus et commentarium clarum et lucidum; videndo hoc spectaculum fortasse aliqui inter nos erant tentati transire a ritu latino ad ritum orientalem!” (Cardinale Gracias dopo la celebrazione in rito Melchita nella 6a congregazione generale, il 24 ottobre).
Padre Papinutti riferisce una confidenza fattagli da un Arcivescovo, e che cioè c’erano manifestazioni di entusiastica approvazione per qualunque rito tranne che per quello romano. Una certa svolta si avrà all’inizio del quarto periodo del Concilio, quando venne distribuito ai Padri un libricino che recepiva alcune delle istanze liturgiche portate avanti dal movimento liturgico. Già per l’incoronazione di Paolo VI si poterono vedere evidenti modifiche, ancora più chiare l’8 dicembre 1965, per la messa di chiusura del Concilio. La Sistina si alternò per l’introito e per l’ordinarium missae al canto del popolo. In tre anni si era fatto un lungo percorso. Questo breve quadro, largamente incompleto, ci testimonia che un cammino era stato avviato e non si sarebbe tornati indietro.
Andiamo a vedere quello che ci interessa specialmente, cioè la liturgia solenne, in quanto c’è una forte connessione tra la stessa e il concetto di partecipazione e come lo stesso si è trasformato nel tempo. L’articolo di cui ci stiamo occupando causò non poche tensioni all’interno del Concilio. Lo schema preparatorio, consisteva in una preposizione molto più lunga e articolata rispetto al testo che oggi abbiamo e vi si parlava di “liturgia sollemnis”. Alla fine invece sarà “sollemniter in cantu celebrantur”. Ma leggiamo insieme il racconto che ne fa il padre Papinutti:
“Confrontando ora i due testi, si vede subito che ci sono almeno due cambiamenti sostanziali: la scomparsa della Liturgia solenne e della lingua latina. Infatti nel testo definitivo non si parla più di 'Liturgia solenne' come forma più nobile di Liturgia, inteso nel senso tradizionale e già stabilito nella citata Istruzione del 1958, ma semplicemente si afferma che l’azione liturgica acquista una forma più nobile quando i divini uffizi sono celebrati 'solennemente' in canto. E’ caduta così la distinzione tra la Messa cantata semplice e la Messa solenne”.
Le successive applicazioni della SC accelereranno il processo di riappropriazione per il popolo del ruolo che secondo il Concilio gli competerebbe, anche se verranno alla luce tensioni probabilmente irrisolte e problemi che a tutt’oggi costituiscono materia di confronto per gli operatori del settore. Sia le varie istruzioni per l’applicazione della riforma liturgica che i successivi documenti dell’episcopato insisteranno sul fatto che l’assemblea non doveva più “assistere” alla messa, ma parteciparvi “perfettamente” (per usare il termine che si trova nella prima istruzione del 26 settembre 1964). Le conseguenze di questo, purtroppo, non sono state sempre esaltanti. E’ un’occasione che si è mancata ma, fortunatamente, sempre recuperabile se ci fosse una volontà precisa in questo senso. Anche perché si è dato al concetto di partecipazione, come detto, un senso totalizzante, come se essa fosse il fine in sé, non un mezzo per arrivare ad altro.
Vorrei ora indicare cosa per me significa solennemente o solennità, secondo quello che mi sembra di aver compreso dal percorso or ora fatto e quindi in che modo si dovrebbe intendere il concetto di partecipazione. La solennità non può e non deve essere disgiunta dal dato celebrativo. Non esiste una solennità a sé stante, quando essa non è al servizio dell’azione sacra. Noi non siamo dei cultori dell’estetica fine a se stessa ma la viviamo in un contesto liturgico e rituale. Solennità è lo scatenamento dei codici di comunicazione nella liturgia. “Scatenamento” non selvaggio e incontrollato, ma iscritto nel percorso celebrativo. Noi sappiamo che sono tanti i codici che si trovano nella celebrazione liturgica: codici non verbali e verbali, codici spazio-temporali, codici personali e sociali, codici iconici e musicali (Aldo Natale Terrin, “Leitourgia/ Dimensione fenomenologica e aspetti semiotici”, Morcelliana, Brescia 1988 pagg. 135-143). Quando questi codici presenti nella liturgia vengono esaltati dal loro uso corretto e, ripeto, “celebrativo”, la liturgia diviene realmente solenne, anche intendendo questa parola nella seconda accezione a cui ci riferivamo all’inizio (sollus+omnis), essa è un “tutto intero”. Non bisogna intendere il termine “funzionale” dandogli esclusivamente l'accezione di “meramente pratico”. Non va bene qualunque “Santo” o qualunque musica per un salmo responsoriale. L’artista, compreso nel suo ruolo di “solennizzatore” delle sacre funzioni, è ancora più necessario che mai e sempre più urgente è la sua competenza specifica. Tutti possono comporre un “Signore pietà”, non tutti lo sanno fare osservando delle “costrizioni” che quella particolare celebrazione ti pone (organici, tropi, estensioni e via dicendo). Direi che con solennità vada intesa qui l'attuazione di codici adeguati. Qui ogni ministero liturgico ha il suo bel da fare: esiste un'arte per mettere i fiori, un’arte per proclamare la parola di Dio, un’arte per “sonorizzare” la celebrazione…e a tutti questi ministeri viene richiesta una competenza superiore alla specifica competenza di ogni capacità. Viene chiesta anche una specifica competenza liturgica.
E’ stato messo in pratica questo nei 40 anni successivi alla SC? Molto poco. La riforma liturgica non è stata capita fino in fondo un po’ da tutti. Si è pensato di esiliare i musicisti perché doveva cantare il popolo, quando non si è capito che senza i musicisti di professione anche il popolo ne usciva più impoverito. I musicisti stessi, almeno una buona parte, si sono chiusi nel loro castello (non “interiore”) per difendere i diritti della vera “musica sacra”, disprezzando quanto si cercava di costruire “nella Tradizione” (come spero di aver dimostrato). Forze opposte si sono fronteggiate, chi per un diritto chi per un altro, chi difendeva il latino chi il volgare, chi difendeva le chitarre chi l’organo, chi difendeva il canto beat chi il gregoriano…ma chi difendeva il popolo? Tutti, o forse nessuno. C’è stato un periodo in cui chi avesse avuto competenze e studi musicali veniva trattato come un nemico del canto del popolo, cose che si sentivano solo ai tempi della rivoluzione culturale di stampo Maoista. Tutti sappiamo che questo atteggiamento ha tradito la SC e la riforma liturgica, l’ha tradita in quanto di più bello e innovativo aveva portato. Era già tutto nella SC:
“Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le 'Scholae cantorum' in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30” (SC 6, 114).
Bastava legare i nn. 113 a 114 per evitarci questo quarantennio di brutture. Le “Scholae cantorum” non dovevano essere eliminate ma trasformate ed ispirate ai nuovi principi voluti dalla riforma liturgica. I maestri di cappella erano ancora più necessari che in passato e si sono quasi eliminati del tutto (ne resistono molto pochi)…Certo, cose belle sono state fatte e anche molte. Ma, ve lo assicuro per esperienza personale, siamo molto indietro rispetto ad altri paesi, specie anglosassoni e anche i segnali dell’oggi non incoraggiano entusiasmi. La partecipazione intesa nel modo odierno ha praticamente fatto un pessimo servizio allo stesso popolo che si voleva aiutare. E’ vero, abbiamo ottimi liturgisti, ottimi musicisti, ottimi organisti, ma abbiamo anche pessimi caratteri e questo, spesso (ma fortunatamente non sempre), ci impedisce una effettiva collaborazione che converga tutte le energie belle all’unico scopo che tutti desideriamo: quello di una liturgia più bella e dignitosa.
FONTE: Zenit.org, 12/04/2011 ( http://www.zenit.org/article-26310?l=italian )